Era l’agosto del 2012 quando in uno stabilimento dello Sri Lanka alcuni lavoratori e lavoratrici decidevano di riunirsi in un sindacato per difendere i loro diritti. La fabbrica è la Palla & Co. e al tempo produceva scarpe per il noto marchio internazionale Bata.
Proprio da quell’agosto, infatti, quegli uomini e quelle donne si aspettavano di vedere in busta paga un aumento salariale che avevano concordato con la proprietà della fabbrica: invece niente. La dirigenza allora ha pensato bene, non solo di non negoziare con il neonato sindacato, ma, in poco più di un anno, di sospendere 15 suoi funzionari (novembre 2013) e di licenziare 179 suoi iscritti (dicembre 2013). A quel punto ha avanzato la sua proposta: un aumento di stipendio una tantum, prendere o lasciare.
Naturalmente la proposta è stata ritenuta inaccettabile dal sindacato e questo ha scatenato la reazione dei dirigenti dello stabilimento: intimidazioni, minacce, lista nera dei lavoratori. Questo tuttora impedisce a molti dei licenziati di trovare lavoro in altre fabbriche aggravando le loro condizioni di vita già precarie; del resto i proprietari della Palla & Co hanno chiesto espressamente ai dirigenti degli altri stabilimenti di non assumerli.
85 dei 179 licenziati sono stati reintegrati dalla stessa Palla & Co solo dopo avergli fatto firmare un accordo in cui i lavoratori e le lavoratrici si impegnavano a non partecipare più in futuro ad alcuna attività sindacale.
Queste sono le modalità in cui sono state prodotte alcune delle 210 milioni di paia di scarpe Bata che proprio in questo momento stanno passeggiando chissà dove in oltre 60 paesi del mondo.
Bata nel dicembre 2013 ha chiuso ogni rapporto commerciale con la Palla & Co e ora fa orecchie da mercante: cosa aspetta ad assumersi le sue responsabilità e ad intervenire in questo conflitto per chiedere il rispetto dei diritti di quei lavoratori e lavoratrici che hanno prodotto le loro scarpe? A cosa serve dotarsi di un codice di condotta, se poi quando viene violato ci si gira dall’altra parte?