Amnesty International ha espresso forte preoccupazione per la prassi ormai consolidata dei tribunali indiani di chiamare a giudizio per reati penali, sulla base di accuse inconsistenti, attivisti impegnati nella difesa dei diritti dei lavoratori senza che le autorità competenti intervengano a impedirlo, pur essendo l’India firmataria della convenzione internazionale che tutela il libero esercizio del diritto di parola e associazione.
In un documento congiunto, la Campagna Abiti Puliti e i sindacati italiani del tessile-abbigliamento si sono rivolti il 5 ottobre al governo italiano sollecitandolo a intervenire presso il governo indiano per chiedere il rispetto delle convenzioni internazionali e con i dicasteri competenti per far sì le imprese italiane coinvolte quali committenti all’epoca delle violazioni si assumano le loro responsabilità. Viene chiesto infine al governo di attivarsi nei confronti dell’azienda italiana Tintoria Astico, di proprietà della FFI, affinché chieda alla casa madre di ritirare la denuncia pendente presso il tribunale di Bangalore.
La Fair Wear Foundation, organismo multistakeholder al quale aderisce il secondo maggior committente di FFI, Mexx, ha pubblicato un rapporto sul caso.
che giunge alla conclusione che la FFI non solo ha agito in contrasto con le convenzioni internazionali sulla libertà di associazione e il diritto di contrattazione collettiva, ma non ha mostrato alcun ripensamento preferendo trascinare in giudizio le controparti anziché trovare un accordo con il sindacato. Dal rapporto emerge inoltre che 85 lavoratori si erano iscritti al sindacato GATWU nell’estate 2006 e in seguito a questo sono stati tutti licenziati. Ciò contrasta con le affermazioni del titolare della FFI secondo il quale non sono mai esistite nelle sue fabbriche rappresentanze sindacali. Mexx ha di fatto sospeso gli ordini alla FFI, ma continua a non voler rendere pubblico il vero motivo della sua decisione, così come non si è impegnata a riprendere i rapporti con il suo fornitore se saranno attuati interventi correttivi. A fare le spese di questo atteggiamento ambiguo sono ovviamente i lavoratori.
Gli sviluppi dell’ultima ora non sono affatto confortanti. Nel corso di una visita di stato, alla presenza di una delegazione governativa olandese al gran completo (regina, ministri degli esteri e del commercio, e rappresentanti delle associazioni imprenditoriali), il ministro dell’industria e del commercio indiano Kamal Nath ha accusato la Clean Clothes Campaign e l’India Committee of the Netherlands di diffondere false informazioni sull’industria indiana e di danneggiare l’immagine del paese. Da parte olandese non c’è stata alcuna reazione, malgrado la questione fosse ben nota da mesi al governo, interpellato e incontrato a più riprese dalle ong coinvolte; governo che per altro non ha risposto all’interrogazione presentata in parlamento dai partiti dell’opposizione. La stampa ha riportato le dichiarazioni successive del presidente delle associazioni imprenditoriali olandesi, che di fatto dava manforte al ministro indiano.
Le aspettative suscitate dall’accordo sul libero commercio fra India e Unione Europea attualmente in discussione potrebbero indebolire le iniziative dei governi che scommettono sulle possibilità offerte da un mercato vasto e in espansione come quello indiano. L’insofferenza manifestata dal ministro indiano si è spinta fino a prospettare azioni ritorsive se non cesserà la crescente diffusione di notizie, giudicate false, che minano la credibilità del suo governo: oltre al caso FFI, c’è il clamore sollevato dalla scoperta di bambini impiegati in condizioni di schiavitù nella catena incontrollata del subappalto di Gap, noto marchio statunitense, a sua volta committente di FFI, e l’indignazione per la terza morte in un anno fra i dipendenti di un suo fornitore (vedi rubrica “Altre notizie”). A ciò si aggiunge il rapporto diffuso il mese scorso dall’India Committee of the Netherlands sul lavoro minorile nella coltivazione di semi di cotone ibridi in India “Child bondage continues in Indian cotton supply chain”
secondo il quale sono 400 mila i minori, la metà al di sotto dei 14 anni (e in maggioranza bambine), impiegati nei campi per 8-12 ore al giorno, esposti all’azione tossica dei pesticidi, per l’impollinazione di semi di cotone geneticamente modificati.
Ma che dire di quello che sta avvenendo nelle Filippine, il secondo paese più pericoloso al mondo per i sindacalisti secondo il rapporto annuale dell’ITUC. Qui si può finire, come è successo all’organizzazione statunitense International Labor Rights Forum, sulla lista nera di persone sospettate di avere legami con il terrorismo internazionale, il tutto con lo scopo di allontanare occhi indiscreti dal paese e spezzare i contatti esistenti con le organizzazioni sindacali e i gruppi di base locali che si battono per la difesa dei diritti umani e del lavoro. In Bangladesh, nella primavera scorsa, l’associazione degli esportatori di abbigliamento ha chiesto senza mezzi termini al governo di indagare sulle attività delle organizzazioni non governative e di punire quelle che, colpevoli di denunciare la presenza di lavoro minorile o lo sfruttamento della manodopera, offuscano l’immagine del paese e ne mettono a rischio la competitività (vedi newsletter n. 4, 2007). Fra le organizzazioni estere invise per i legami con realtà locali c’è la statunitense National Labor Committee e l’inglese War on Want, mentre si sta facendo sempre più difficile per gli esponenti sindacali svolgere il proprio lavoro senza controlli e interferenze.
Sparizioni e minacce di morte accompagnano la vita dei sindacalisti nello Sri Lanka da quando il governo ha lanciato una campagna che descrive i rappresentanti sindacali come fiancheggiatori del Fronte di liberazione delle Tigri Tamil (vedi newsletter n. 3, 2007). Anton Marcus, segretario del Sindacato dei lavoratori delle zone franche e dei servizi pubblici, con il quale la Clean Clothes Campaign collabora da anni, ha denunciato in questi giorni di aver ricevuto nuove minacce di morte dopo essere stato accusato di aver rilasciato dichiarazioni alla BBC e fornito informazioni all’ong inglese Action Aid, che gettano discredito sull’industria tessile del paese. In Cambogia negli ultimi tre anni sono stati uccisi tre sindacalisti del tessile, fra questi il segretario generale del sindacato tessile cambogiano. Per la sua morte sono state condannate due persone innocenti, nonostante prove schiaccianti a discolpa e l’intervento del rappresentante dei diritti umani dell’ONU, nel tentativo evidente da parte del governo di coprire le vere responsabilità dell’omicidio (vedi newsletter n. 2, 2007)