Fra poco calerà il sipario mediatico sulla sua ultima campagna commerciale a sfondo sociale, intorno al tema dell’anoressia, e con questa sulle polemiche innescate dalla decisione del giurì dell’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria di intimare ai suoi associati il ritiro delle affissioni.
Lei avrà concluso il suo lavoro con una certa dose di “successo” in più, il suo committente Flash&Partners, proprietario dei marchi RaRe e Nolita, tirerà le somme della sua esposizione pubblica, forse raccogliendo il lustro sperato per i suoi fino a ieri oscuri marchi della moda. Il tempo dirà quale beneficio sociale abbia portato tutto questo. A giudizio delle associazioni dei malati di anoressia, nessuno.

Resteranno la censura, il sopruso, la negazione della libertà di espressione. Questi sì. Ma non nel senso che intende lei. Di una ben più grave censura è corresponsabile proprio la Flash&Partners, che appalta la produzione a una importante azienda indiana, la Fibres & Fabrics International (FFI), solita confezionare i suoi jeans in condizioni di lavoro ritenute indegne dai lavoratori intervistati. Di fronte alla denuncia di tali condizioni, la FFI ha reagito portando in tribunale associazioni e sindacati con l’obiettivo di silenziare tutti. E per la prima volta nella storia della nostra campagna – la Clean Clothes Campaign(CCC)-, è stato spiccato un mandato di cattura per alcuni attivisti europei, rei di avere diffuso informazioni circa le violazioni in corso.

Proprio in questi giorni un tribunale di Bangalore sta decidendo della speranza di trovare ascolto fra i creatori e i consumatori di moda del nostro ricco e viziato mercato per migliaia di mal pagati e abusati lavoratori indiani della FFI. Un SOS che non vogliono più affidare a una bottiglia nell’oceano della loro deriva sociale. Per questo da oltre quindici anni la nostra rete internazionale – la CCC -, lavora per difendere i diritti dei lavoratori del tessile dando loro voce nei paesi dei consumatori finali.

Sarà ancora possibile per i lavoratori difendere i loro diritti dopo che un provvedimento restrittivo della libertà di espressione, emesso dal tribunale, chiude ormai da oltre un anno la bocca ai sindacati e alle organizzazioni della società civile di Bangalore, pena alcuni anni di carcere? Sarà ancora possibile il nostro impegno se a breve il mandato di arresto che ha colpito il nostro staff europeo ci inseguirà in tutti i paesi che hanno in vigore un accordo di estradizione con il governo indiano? E tutto questo solo perchè si è avuto il coraggio di togliere il velo su quello che accade dietro i cancelli della FFI.

Se vuole conoscere i reati di cui i lavoratori della FFI si sono macchiati, e noi con loro, non ha da far altro che chiedere a Flash&Partners che, oltre ad essere il committente della sua campagna sull’anoressia, è anche il committente di FFI per i propri jeans, e da più di un anno tace sulle denunce contenute in un rapporto circostanziato, frutto di indagini e delle testimonianze raccolte dalle organizzazioni oggi condannate al silenzio.

La censura esiste – in questo siamo d’accordo con lei – con una differenza: porta notorietà a lei e paradossalmente rafforza il potere economico al quale, per sua stessa ammissione, la lega un rapporto di mutua assistenza. Contemporaneamente però condanna altri all’invisibilità e alla negazione del diritto a una vita degna.

Ha ragione quando dice, come riportano i giornali, che il nostro paese è conosciuto all’estero più per le borse e le scarpe che per i prodotti dell’ingegno. Non perchè sono “prodotti da terzo mondo”, ma proprio perchè sono prodotti nel terzo mondo. Infatti, Flash&Partners indica nel suo sito la strategia della delocalizzazione come uno dei capisaldi del suo successo e dei vantaggi competitivi che caratterizzano i suoi marchi. E ciò si ottiene con una politica di “consegne” e di “flash stagionali” per assecondare le “esigenze di un mercato sempre più affannato alla ricerca della novità”. Traducendo, Flash&Partners agisce nella più classica logica di mercato, quella che nel settore della moda ha fatto del consumo effimero e veloce la sua ragion d’essere, e della riduzione drastica dei tempi di consegna e dei prezzi il suo strumento.

Senza curarsi tuttavia delle conseguenze che questo tipo politica comporta, e che i dipendenti indiani di FFI hanno raccontato in dettaglio: ritmi produttivi insostenibili, straordinari obbligatori e non pagati, abusi fisici e verbali, lavorazioni nocive, divieto di attività sindacale.
Sui tabelloni a marchio Nolita, che fino a pochi giorni fa campeggiavano nelle strade delle nostre città, al posto di una modella anoressica a mostrare senza veli i segni della sua malattia, poteva a buon diritto, e con altrettanto impatto, comparire un’altra nudità: quella di un povero ragazzo spogliato e picchiato di fronte ai compagni di lavoro all’unico scopo di intimidirli.

L’anoressia è una malattia del nostro tempo, che in altra forma colpisce anche i lavoratori indiani di Flash&Partners, per troppa fame repressa di dignità, di salario, di libertà di espressione e di organizzazione.
Un record negativo in più rende il nostro paese riconoscibile: le sue aziende di prodotti della moda sono sempre le ultime a poter dimostrare di aver assunto impegni di responsabilità sociale. Su sette imprese committenti internazionali, Armani e Flash&Partners sono le uniche a non aver mai risposto ai ripetuti
appelli a intervenire presso il loro fornitore per chiedere il ripristino della libertà di espressione, appelli avanzati dalla nostra campagna e dai tanti cittadini e consumatori che vi hanno aderito.
Se per Flash&Partners “l’intento aziendale è quello di usare i mezzi pubblicitari come strumento di sensibilizzazione ai mali sociali”, come dichiara, perché tace colpevolmente?

Dato che lei ama definirsi “testimone del proprio tempo”, la invitiamo ad aiutarci a rendere evidente quale desolazione sociale sta dietro il denaro che rende possibile il suo lavoro. Saremo felici di incontrare lei e la sua impresa committente per discutere di tutto questo. Contro la censura e la negazione del diritto alla parola non c’è altro tempo da perdere.

Per la Campagna Abiti Puliti
Francesco Gesualdi
Deborah Lucchetti
Ersilia Monti

RISPOSTA DI OLIVIERO TOSCANI

Siamo alla ricerca disperata di qualcuno [qualcuno che non siamo noi, possibilmente ben identificabile in un «nemico»] che ci sollevi dal senso di colpa. Il senso di colpa generico, ma non per questo meno fastidioso, che ci coglie tutte le volte che la povertà e l’ingiustizia si rivelano ai nostri occhi distratti.

Siamo alla ricerca di qualcuno contro cui prendersela, possibilmente con nome e cognome, ogni qual volta il degrado della vita che viviamo colpisce in modo visibile un debole, un emarginato, una vittima.
I palloni garantiti «cuciti senza impiego di manodopera minorile», i «clean clothes», i vestiti puliti, i giocattoli politically correct, la raccolta differenziata dei rifiuti: spie del disagio che corrode il sistema in cui crediamo e che ci affanniamo a perfezionare, dove contano competitività, spregiudicatezza, profitto.
Ma spie anche, paradossalmente, di un modo di eludere il cuore di problemi drammatici, attirando l’attenzione sulla parte più spettacolare di essi, sull’aspetto emotivo, sul senso di inadempienza che la nostra cattiva coscienza registra nei confronti della ricchezza e della sua ingiusta distribuzione.

Basta giocare a calcio con un pallone garantito lavorato da mani adulte per sentirsi a posto di fronte allo sfruttamento planetario delle masse che affollano ogni domenica gli spalti degli stadi? Basta un abito «pulito», lavorato obbedendo alle norme che regolano la produzione e il profitto, e non frutto di lavoro clandestino, per avallare la legittimità di quelle norme e il perdurare, anche questo planetario e non limitato alla Turchia o all’India, dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo? È sufficiente giocare con una bambola confezionata da operai maggiorenni per eludere il grave problema del consumo di massa, quello a cui vengono addestrati i bambini fin da piccoli da dosi massicce di pubblicità, per abituarli ad assimilare, da subito, il concetto che «tutto quel che vedi lo puoi comprare»? Crediamo davvero di  contribuire alla salvezza del pianeta buttando i rifiuti nei contenitori gialli verdi e blu  della raccolta differenziata? E siamo davvero sicuri che la violenza principale sui bambini sia quella dei pedofili additati ogni giorno al nostro disprezzo dalle pagine di cronaca dei giornali?
Il bisogno continuo di capri espiatori sui quali rovesciare il nostro impotente desiderio di giustizia, non ci trasformerà troppo superficialmente in giudici?
Non sarà che  a forza di illuminare scandalisticamente la parte più mediatica del tutto, il tutto finisca per restare scandalosamente in ombra?

E questi comitati che spuntano come funghi per difendere bambini, cani gatti e cavalli, maglioni e palloni non sentono mai sulla propria pelle il dubbio che brucia a me: quante facce ha la verità?  chi ha il diritto di accusare facendo nomi e cognomi di altri che non sono lui? quanto siamo responsabili, ognuno di noi, del sistema che si autoalimenta sulla nostra coazione a consumare, sulla nostra bulimia?
Basterà mettersi due dita in bocca e vomitare, una volta sui vestiti, una volta sui palloni, una volta sui bambini, una volta sui rifiuti, per riacquistare un metabolismo naturale, per tornare a nutrirsi di riso in bianco, dopo i sughi da trattoria di terz’ordine o da  nouvelle cuisine a cui ci condannano le repubbliche fondate sugli ipermercati? Mi brucia questo dubbio: questi comitati, questi giornalisti che sparano scoop sui bambini che lavorano nelle pagine di Economia [notoriamente dedicate a evidenziare il rialzo dei titoli in Borsa quanto più i profitti delle imprese quotate sono raggiunti con spregiudicatezza; e già qui la contraddizione tra la denuncia e l’effetto rivela la verità contorta e cinica che muove il meccanismo del libero mercato] sono legittimati per il semplice fatto di fremere indignati di fronte a un pallone, a un vestito, a una bambola cuciti da un bambino?
Non saranno anche loro complici di un sistema che ha bisogno di lavare con la mano sinistra il fango che sporca la destra, di esorcizzare con l’emozione e lo sdegno occasionali, una tantum, la perpetua e ormai definitiva sopraffazione della ricchezza sulla povertà, della protervia sulla dignità?
L’America, il Paese che ha realizzato il modello migliore del capitalismo, è ricca di comitati «politicamente corretti» e di scoop sui giornali contro le varie dignità calpestate.
Ma si può davvero dire per questo che l’America abbia realizzato il modello migliore della giustizia sociale? E, per estensione, basta denunciare un crimine per considerarsi o essere considerati automaticamente assolti dal concorso in reato?

Non vorrei mai che si tacesse, ovviamente, sul lavoro minorile, sulla violenza, sulle discriminazioni razziali e sul degrado dell’ambiente e del mondo. Credo di averlo dimostrato con il mio lavoro. Ma mi brucia il dubbio su quale sia la strada giusta per raggiungere la consapevolezza vera e profonda sul dramma della povertà e dell’ingiustizia, su chi ha il diritto di parlarne e su chi deve o non deve accettare di essere zittito. Mi brucia il dubbio su quale sia la via per toccare non soltanto il mio cuore, ma quella giusta e utile per fare finalmente luce nel mio cervello.

REPLICA ABITI PULITI

Non “siamo alla ricerca disperata di qualcuno che ci sollevi dal senso di colpa”.  I sensi di colpa non ci appartengono e li lasciamo a chi va a nozze col potere  con l’augurio che riescano a risolverli col loro padre spirituale o col loro psicoanalista. Il nostro pane non è il frutto di rapporti speciali con i potenti, ma  del lavoro umile di chi si trova fra gli ultimi gradini della scala sociale. Noi siamo alla ricerca di giustizia perche’ pensiamo che tutti abbiamo solo da guadagnare da un  mondo basato sulla giustizia invece che sullo sfruttamento e ci poniamo l’obiettivo di spingere i responsabili e i corresponsabili della violazione dei diritti dei lavoratori ad intraprendere azioni correttive. Nello specifico chiediamo a Flash & Partner di intervenire presso la sua appaltata indiana FFI affinchè cessi gli abusi nei confronti dei lavoratori e ritiri la querela che censura la libertà di denuncia.

Venendo al suo dubbio, su chi ha il diritto di parlare di povertà e ingiustizia, la nostra opinione è che tutti abbiamo il dovere di farlo. E non e’ solo la nostra opinione, ma e’ quanto scritto nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, che affida ad tutte le componenti della societa’ il dovere di difendere i diritti umani. Non certo per senso di colpa ma per amore della giustizia. Ma non per lucrarci sopra. Per concludere pensiamo che non è più il tempo delle strumentalizzazioni verbali, ma delle assunzioni di responsabilità. Anche lei, signor Toscani, deve decidere da che parte vuole stare. Se decide di stare dalla parte di chi opprime, continui pure a fare le sue campagne pubblicitarie al servizio di chi usa tutto e tutti, lei compreso, per fare soldi. Se decide di stare dalla parte degli oppressi si unisca a noi per chiedere a Flash & partners di intervenire presso l’appaltata indiana affinchè garantisca i diritti dei lavoratori. Si schieri e vedrà che i dubbi scompaiono da soli.