Buone notizie dalla Cina: 70 mila operai della Yue Yuen, gruppo che produce scarpe per marchi come Nike, Adidas, Reebok, Puma, Asics, Timberland, sono scesi in lotta per migliori condizioni di lavoro.
Benché il più grande produttore del mondo di scarpe, con 420mila dipendenti, pochi lo conoscono perché è una multinazionale di secondo livello. Una novità della globalizzazione. Un tempo le aziende che detenevano i marchi erano anche imprese produttrici. Oggi, invece, tendono sempre di più a sbarazzarsi del retroterra produttivo per occuparsi dei due estremi della filiera: quella iniziale della progettazione e quella finale del marketing. Quanto alla produzione è relegata ad imprese terziste che producono su contratto, dove la licenza di sfruttamento è più alta: Asia, Africa, America Centrale. Tipica Yue Yuen, un’impresa con casa madre a Taiwan, ma stabilimenti in Cina, Indonesia, Vietnam, Messico e molti altri paesi ancora.
La protesta, iniziata ai primi di aprile, è scoppiata a Dongguan, una cittadina nel Sud della Cina, dove Yue Yuen gestisce vari stabilimenti che complessivamente occupano 70mila lavoratori, per la maggior parte immigrati dalle zone più povere della Cina. Oltre a forme di assunzioni più stabili, i lavoratori chiedono il pagamento dei contributi sociali utili a poter ottenere una pensione, l’assicurazione antinfortunistica, l’assistenza sanitaria. I lavoratori contestano anni di mancato di versamento che ha permesso all’azienda di intascare 117 milioni di euro. Un modo spiccio per realizzare profitti nel tempo della finanza globale che assomiglia molto ai vecchi ladri di polli.
La protesta alla Yue Yuen si aggiunge all’ondata di scioperi che da qualche mese scuote la Cina non solo nel settore calzaturiero, ma anche in quello elettronico e meccanico. Segno che il tempo del lavoro in semischiavitù, tipico dell’inizio della globalizzazione sta passando. E dopo la globalizzazione della produzione sta lentamente arrivando il tempo della globalizzazione dei diritti. Purtroppo non per volontà della politica, tristemente stretta in un abbraccio mortale col mondo degli affari, ma dei lavoratori, che sfidando la repressione, la galera, talvolta perfino la morte, si sono organizzati e oggi stanno raccogliendo dei frutti.
Le proteste in corso nel Sud del mondo ci insegnano che la politica da seguire non è quella di abbassare i nostri diritti, come ci stanno imponendo i governi occidentali tramite provvedimenti tipo il Job’s act, ma di innalzarli con la capacità di estenderli se non a livello mondiale almeno a livello continentale. Se vogliamo evitare che Fiat, Indesit, Electrolux continuino a ricattarci: “o accettate salari più bassi o ce ne andiamo nell’Est europeo”, dobbiamo fare in modo che in tutta Europea valga un livello standard di diritti e di salari che nessuna impresa può oltrepassare. Solo così potremo fermare le aziende sempre con la valigia in mano e potremo ricreare le condizioni per lavori stabili e dignitosi in tutta Europa se non in tutto il mondo.