Mentre Amazon si riunisce per l’Assemblea annuale degli azionisti, le lavoratrici e i lavoratori della sua catena di fornitura protestano per le condizioni in cui sono costretti a vivere e a lavorare.
Ad oggi Amazon è il principale distributore di moda negli Stati Uniti e i suoi marchi si riforniscono attraverso una vasta rete di circa 1.400 fabbriche in tutto il mondo. Nonostante i profitti record accumulati durante la pandemia, come denunciato in un recente rapporto del Worker Rights Consortium, l’azienda si rifiuta di garantire che le lavoratrici e i lavoratori licenziati in questi mesi ricevano l’indennità che gli spetta.
Così come i magazzinieri e gli addetti alle consegne, le persone delle fabbriche più remote del sistema globale di sfruttamento di Amazon esigono quanto loro dovuto.
Le organizzazioni della campagna PayYourWorkers, insieme alla coalizione Make Amazon Pay, di cui fanno parte anche il sindacato globale UNI e il movimento Internazionale Progressista, hanno promosso per oggi una giornata di azione globale in loro sostegno: la richiesta per Amazon è di pagare subito tutte le lavoratrici e i lavoratori della sua catena di fornitura.
Tra questi, ad esempio, i lavoratori tessili sindacalizzati in Bangladesh della fabbrica Global Garments, fornitore del colosso americano. Ad ottobre ha chiuso i battenti lasciando a casa 1.200 persone senza retribuzione o indennità di licenziamento. “La chiusura della fabbrica ci ha portato via i mezzi per sopravvivere” racconta Rintu Barua, addetto al controllo qualità per oltre 20 anni. “Negli ultimi 6 mesi ho provato a cercare lavoro in molte fabbriche. Ma siccome sono stato anche un leader sindacale alla Global Garments, nessuno mi vuole assumere”.
Oppure le lavoratrici e lavoratori in Cambogia della Hulu Garment, una fabbrica chiusa temporaneamente nel marzo 2020 lasciando a casa 1.020 persone. Al termine del periodo di sospensione, i lavoratori sono stati richiamati per sottoscrivere con l’impronta digitale un documento che avrebbe dovuto garantire loro il salario finale. In realtà conteneva una clausola nascosta con cui di fatto si dimettevano volontariamente. La Hulu Garment ha così trattenuto 3,6 milioni di dollari di indennità di licenziamento spettante a quei lavoratori.
Nel frattempo, mentre i lavoratori lottano per i propri salari non pagati, contro le attività antisindacali e le cattive condizioni di lavoro, nel 2020 grazie alla pandemia, i profitti netti di Amazon sono aumentati dell’84%, con un patrimonio netto di 314,9 miliardi di dollari.
La coalizione MakeAmazonPay ha programmato oltre 50 iniziative presso i siti Amazon in 10 paesi di 5 continenti: UK, Francia, Germania, Belgio, Lussemburgo, Olanda, Bangladesh, Svizzera, Australia e Stati Uniti.
“Amazon deve pagare tutti i suoi lavoratori e lavoratrici, ovunque risiedano e qualunque sia la loro mansione. È una questione di giustizia sociale che guarda a un nuovo modello di sviluppo che metta finalmente al centro la salute e il benessere delle persone che lavorano e non i profitti e la ricchezza di pochi” dichiara Deborah Lucchetti, coordinatrice della Campagna Abiti Puliti.
La campagna #PayYourWorkers, che riunisce 200 sindacati e organizzazioni della società civile di 35 diversi Paesi, chiede ai marchi di fornire immediato sollievo ai lavoratori dell’abbigliamento e di sottoscrivere impegni vincolanti per riformare il loro settore in rovina.
Tra i 200 aderenti troviamo Filcams-CGIL, che rappresenta i lavoratori del Commercio, Turismo e Servizi e le organizzazioni FAIR, Altraqualità, Fondazione Finanza Etica, Guardavanti onlus, Movimento Consumatori, Attac Italia, Coordinamento Nord Sud del mondo, Dress the change, Equo Garantito, Fairwatch, FOCSIV, IFE Italia, Lungotavolo45, Manitese, Spin Italy.