di Ersilia Monti
MAGGIO 2006 – La disoccupazione balza dal 6 al 24% e su 40 milioni di abitanti, 20 milioni precipitano sotto la soglia di povertà. I proprietari si indebitano e gli investitori finanziari trovano uno sbocco lucroso nella legge sulla parità di cambio fra peso e dollaro, i capitali finiscono all’estero e le imprese, già minate dalla concorrenza internazionale, sono abbandonate a sé stesse.
Nel lungo elenco delle dismissioni finiscono alcune aziende fiore all’occhiello dell’industria argentina, come la Zanello, la più grande fabbrica di macchine agricole del paese, ritornata a nuova vita nel 2004 dopo essere stata rimessa in attività dalle maestranze. Oggi produce trattori, ma anche autobus, e ha firmato un accordo con il governo in base al quale in futuro potrà produrre anche automobili; i lavoratori guadagnano il 20-30% in più della media nel settore industriale. “Un economista ortodosso direbbe che è impossibile, ma i fatti sono qui a smentirlo”, dice José Abelli, presidente del MNER, il movimento nazionale delle imprese recuperate, che abbiamo incontrato a Milano il 26 aprile in una serata di conoscenza promossa dalla Cooperativa Chico Mendes.
Oggi le fabbriche autogestite sono oltre 200 e danno lavoro a 15 mila persone. Ci sono imprese metalmeccaniche, alimentari, tessili, di trasporti, giornali, e anche un albergo a cinque stelle. Una di queste è la ex Gatic, un tempo uno dei maggiori produttori argentini di tessile e calzature, licenziatario per l’Argentina e il Sud America di grandi marchi dello sport come Nike, Adidas, New Balance, Fila, Le Coq, e fornitore della nazionale di calcio. Nei suoi giorni migliori occupava 7 mila persone in 22 stabilimenti e 3 mila persone nella rete distributiva. Ma i debiti accumulati ed errori di gestione portano l’azienda sull’orlo del fallimento. Nel 2002 cessa la produzione e gli operai restano per mesi senza salario, ma senza perdersi d’animo prendo no contatti con il MNER, e fondano una prima cooperativa, la Cooperativa Unidos por el calzado (CUC), che produce calzature, e pochi mesi dopo la cooperativa Textiles Pigüé, il più grande e strategico degli impianti della Gatic, poiché fornisce la materia prima, tessuti e tomaie in cuoio, a tutti gli stabilimenti, entrambe hanno sede nella provincia di Buenos Aires. Dopo un tentativo di sgombero violento e una serie di traversie legali, la Textiles Pigüé, come la CUC prima di lei, ottiene il riconoscimento giuridico e l’affidamento degli impianti.
La battaglia si sposta ora sul fronte legislativo per colmare il vuoto esistente in materia di espropriazioni. Della ex Gatic restano oggi 8 fabbriche, 5 sono autogestite e occupano un migliaio di persone, 3 sono state acquistate dal fondo di investimento americano Leucadia, che ha tentato fino all’ultimo di strappare la Textiles Pigüé all’autogestione. Le decisioni più importanti si prendono in assemblea, se serve si lavora più di otto ore al giorno perché le fabbriche recuperate non hanno accesso al credito e le politiche pubbliche non sono favorevoli, ma contando sulla comprensione dei fornitori e la solidarietà dei cittadini, il lavoro finora non è mancato. Dal 2005 una linea di scarpe sportive della CUC arriva in Italia grazie alla rete del commercio equo e solidale argentino, nata dalla collaborazione con la cooperativa Chico Mendes nell’ambito del progetto “Argentina equa e solidale”. Le scarpe si vendono in due modelli base, in cuoio, nelle botteghe milanesi della cooperativa Chico Mendes (www.chicomendes.it).
Ma c’è un progetto più ambizioso, ai suoi primi passi, che fa ben sperare per il futuro. Si chiama CADI (cuoio argentino, disegno italiano) e nasce per impulso di José Abelli, dalla fiducia nelle grandi potenzialità del movimento cooperativo internazionale e dalla convinzione che per costruire un’economia diversa “bisogna partire dando lavoro là come qui”. L’idea è quella di mettere in collaborazione imprese recuperate italiane e argentine con il fine di arrivare a un prodotto finito che incorpori il meglio delle competenze tecniche di entrambi i paesi. La legge Marcora del 1985 ha permesso il recupero di 180 imprese italiane in fallimento, riconvertite in cooperative di lavoratori. Una di queste è la Gommus di Montecarotto, nella provincia di Ancona, che da vent’anni produce in autogestione suole in gomma e in termoplastica dando lavoro a 70 persone, con un ragguardevole carnet clienti di piccoli e grandi marchi. Il progetto CADI, nella sua prima fase, la coinvolge per la fornitura delle suole, che sono già partite alla volta dell’Argentina per entrare nel ciclo produttivo di Textiles Pigüé. Se il test avrà successo, il progetto prevede altre due fasi fino ad arrivare alla costruzione di una filiera partecipata vera e propria, che potrebbe coinvolgere altre cooperative italiane e argentine. E si stanno sondando possibilità di collaborazione anche in Brasile e in India.
Fabbriche recuperate di tutto il mondo unitevi? “Speriamo che arrivi presto il momento in cui non ci sarà più bisogno di recuperarle”, dice scherzando Girolamo Badiali, presidente di Gommus. Sì, perché reinventarsi imprenditori non è facile, ma i lavoratori delle fabbriche autogestite stanno dimostrando di avere stoffa da vendere.