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Le ONG contro la Commissione europea su Omnibus: processo antidemocratico e opaco

Una coalizione di sette organizzazioni non governative ha presentato oggi, venerdì 18 aprile, un reclamo formale al Mediatore europeo, denunciando il processo opaco, affrettato e privo di trasparenza con cui la Commissione europea ha elaborato la proposta Omnibus. Secondo le ONG, il provvedimento mira a smantellare in modo sostanziale le normative dell’UE in materia di sostenibilità ambientale e di diritti umani recentemente approvate, cioè  la Direttiva sul reporting di sostenibilità aziendale (CSRD), la Direttiva sulla due diligence delle imprese (CSDDD) e il Regolamento sulla tassonomia dell’Unione Europea.

Le organizzazioni — Clean Clothes Campaign, ClientEarth, Anti-Slavery International, European Coalition for Corporate Justice, Friends of the Earth Europe, Global Witness, Notre Affaire À Tous e Transport & Environment — denunciano che l’intero processo sia stato gravemente compromesso, permettendo a una ristretta cerchia di interessi industriali, in particolare legati al settore petrolifero e del gas, di influenzare in modo sproporzionato l’agenda politica europea.

In una dichiarazione congiunta, le ONG affermano:

«Contestiamo lo smantellamento rapido di tre pilastri fondamentali del Green Deal europeonorme pensate per mitigare l’impatto ambientale e sociale del commercio globale – attraverso un processo che ha completamente ignorato i diritti delle persone e dell’ambiente».

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Proteste del 2023 contro un precedente tentativo di indebolire la CSDDD

Più nello specifico, le ONG accusano la Commissione di:

  • non aver raccolto adeguatamente prove né valutato gli impatti ambientali e sociali delle modifiche alle normative societarie pensate per tutelare i cittadini dell’UE e dei Paesi terzi
  • aver aggirato ampie consultazioni pubbliche, privilegiando invece incontri a porte chiuse dominati dagli interessi dell’industria petrolifera e del gas (i cui contenuti sono emersi solo tramite fughe di notizie alla stampa)
  • non aver verificato se la proposta sia in linea con l’obiettivo della neutralità climatica dell’UE – in violazione degli obblighi previsti dalla legge europea sul clima
  • oltre a minare i valori democratici e gli obiettivi ambientali dell’Unione, il pacchetto Omnibus rischia anche di compromettere la stabilità economica e la competitività dell’UE, che paradossalmente dovrebbe invece rafforzare
  • La coalizione ha aggiunto: «Questa cosiddetta semplificazione non migliora affatto la competitività: la Commissione europea sta ignorando sia le evidenze che la scienza»

«Normative forti in materia di sostenibilità come la CSDDD e la CSRD rappresentano un vantaggio competitivo per l’Europa in un mercato globale in cui consumatori e investitori chiedono sempre più responsabilità alle imprese. Le promesse vaghe delle aziende non stanno portando il cambiamento necessario. Indebolire le regole ambientali e sui diritti umani è un passo nella direzione sbagliata».

Le ONG chiedono ora al Parlamento europeo e al Consiglio dell’UE di respingere fermamente la proposta Omnibus.

Cosa sta succedendo in Italia?

Il dibattito sul rafforzamento delle normative ambientali e sociali prosegue anche in Italia dove Campagna Abiti Puliti e Impresa2030 stanno facendo pressione sul governo e sulle istituzioni per garantire che gli impegni europei vengano correttamente recepiti nel contesto nazionale. A tal fine, martedì 15 aprile 2025, Priscilla Robledo, Responsabile lobbying e advocacy per la Campagna Abiti Puliti, insieme a Margherita Romanelli, Co-Portavoce della Campagna Impresa2030, ha partecipato all’audizione presso il Comitato permanente sui diritti umani nel mondo della Camera dei Deputati.

L’audizione si è concentrata proprio sulla Direttiva 2024/1760 sul Dovere di diligenza delle imprese ai fini della sostenibilità (CS3D), che è attualmente in fase di recepimento in Italia. La Direttiva, approvata lo scorso luglio a livello europeo, rappresenta un passaggio cruciale nel rafforzare la responsabilità delle imprese multinazionali lungo l’intera catena di fornitura, imponendo obblighi rigorosi di monitoraggio dei diritti umani e degli impatti ambientali, con sanzioni in caso di inadempimento. Questo stesso tipo di normativa, che mira a rendere le imprese responsabili, è il fulcro della critica al processo Omnibus, il quale rischia di indebolire le leggi di sostenibilità e di diligenza.


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Audizione alla Camera di Abiti Puliti e Impresa2030: la due diligence è a rischio

Martedì 15 aprile 2025 Priscilla Robledo, Responsabile lobbying e advocacy per la Campagna Abiti Puliti, insieme a Margherita Romanelli, Co-Portavoce della Campagna Impresa2030, ha partecipato all’audizione presso il Comitato permanente sui diritti umani nel mondo della Camera dei Deputati.

L’attenzione si è concentrata sulla Direttiva 2024/1760 sul Dovere di diligenza delle imprese ai fini della sostenibilità (CS3D), approvata lo scorso luglio e in fase di recepimento anche in Italia. La direttiva rappresenta un passaggio cruciale nel rafforzare la responsabilità delle imprese multinazionali lungo l’intera catena di fornitura, prevedendo:

  • l’obbligo di controllare il rispetto dei diritti umani,
  • la prevenzione e il rimedio delle violazioni,
  • la responsabilità civile in caso di inadempienza.

Tra i diritti umani da garantire figurano il divieto di lavoro minorile, forzato e sotto tratta, il contrasto alle discriminazioni (di genere, casta, religione o origine), la tutela delle popolazioni indigene e i diritti fondamentali dei lavoratori, come la libertà sindacale, salari dignitosi e condizioni di sicurezza sul lavoro. La direttiva impone inoltre il monitoraggio degli impatti ambientali e l’adozione di piani credibili per la transizione climatica.

Un’occasione importante per portare all’attenzione del dibattito politico nazionale il contesto legislativo europeo legato al pacchetto Omnibus, un iter che rischia di trasformarsi in una deregolamentazione piuttosto che in una semplificazione. Un processo che oggi si concentra principalmente a Bruxelles, ma che necessita di essere condiviso e discusso anche a livello degli Stati Membri.

Purtroppo l’UE si sta muovendo davvero molto rapidamente su questo dossier. Ieri, mercoledì 16 aprile, è stata pubblicata nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea la Direttiva 2025/794, la prima delle misure Omnibus, la cd. Stop che clock, che posticipa l’entrata in vigore delle normative sulla sostenibilità aziendale a partire da oggi, giovedì 17 aprile.

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24 aprile 2023 - Commemorazione a Strasburgo dell'11° anniversario del Rana Plaza

Due diligence - Testo integrale dell'audizione alla Camera

Insieme alla collega Romanelli, a nome delle campagne che rappresentiamo, ringraziamo la presidente Boldrini e gli altri membri del Comitato per avere accolto la nostra richiesta di audizione. Oggi rappresento FAIR, l’organizzazione che coordina la Campagna Abiti Puliti, una coalizione di otto organizzazioni della società civile per cui coordino l’attività di lobby e advocacy. La Campagna fa parte della rete internazionale Clean Clothes, promuove condotte responsabili di impresa nelle catene di fornitura del settore tessile in Italia e nel mondo e difende i diritti umani di lavoratrici e lavoratori, che sono circa 75 milioni nel mondo (l’1% della popolazione globale) di cui circa mezzo milione in Italia.

Controllo di filiera, responsabilità civile e monitoraggio degli impatti ambientali

Lo scopo del nostro intervento è richiamare la vostra attenzione sulla direttiva europea 2024/1760 sulla due diligence aziendale ai fini della sostenibilità, approvata lo scorso luglio e che anche il nostro paese deve recepire quindi alla quale bisogna lavorare nei prossimi mesi. La direttiva ha due elementi chiave: (1) introduce nei confronti delle imprese multinazionali, obblighi estesi a tutta la filiera di controllo del rispetto dei diritti umani e di prevenzione e rimedio alle violazioni riscontrate, e (2) rende le imprese responsabili civilmente in caso di mancato rispetto di tali obblighi. I diritti umani di cui tenere conto sono, ad esempio, la presenza di lavoro minorile, forzato e sotto tratta, di discriminazioni di genere, casta, religione o origine, l’adozione di tutele per le popolazioni indigene e diritti umani del lavoro fondamentali quali la presenza di sindacati, salari equi, sicurezza sul lavoro, ed altri. Infine la direttiva impone alle aziende di monitorare gli impatti ambientali delle proprie attività e adottare piani di transizione climatica. 

Per un'economia globale più equa e una transizione giusta

In sostanza opera una responsabilizzazione delle condotte di impresa, rappresentando la messa in pratica dei Principi Guida approvati dall’ONU nel 2011 su Impresa e Diritti Umani al fine di realizzare un’economia globale più equa e una transizione giusta, un obiettivo che non possiamo permetterci di trascurare, perché mentre il dibattito politico europeo si sta concentrando su riarmo, competitività e semplificazione, milioni di persone in Italia e nel mondo ancora vivono al di sotto della soglia di povertà e sono lasciate in balìa di disastri climatici non governati da chi ne ha il potere e il dovere. 

Noi lavoriamo da anni sulla due diligence e abbiamo partecipato a consultazioni pubbliche e numerosi incontri con stakeholder che hanno informato il processo di costruzione di questa normativa europea per oltre due anni. Lo scorso dicembre abbiamo pubblicato una serie di raccomandazioni utili ad un recepimento efficace della direttiva 1760, in un policy paper che allegheremo a corredo di questa audizione. 

Istituzione di un'autorità di controllo amministrativo

Ma oltre agli obblighi due diligence e alla responsabilità civile, ci preme in questa sede segnalare un elemento chiave di novità introdotto dalla direttiva: l’Autorità indipendente competente al controllo amministrativo, con poteri ispettivi e sanzionatori e coordinata da una rete europea delle Autorità di controllo. L’istituzione dell’Autorità di controllo è tema che merita particolare attenzione, dal momento che in Italia, nonostante le diverse proposte di legge presentate, una siffatta autorità indipendente ancora non esiste

Questa direttiva costituisce l’opportunità concreta di crearla, con un mandato istituzionale chiaro e competenze diversificate, con risorse finanziarie, personale e strumenti adeguati. Per la tipologia e la pluralità di competenze affini al mandato dell'Autorità di controllo prefigurata dalla Direttiva, abbiamo avanzato la proposta di considerare l’INL come Autorità idonea ad ospitare la creazione di una struttura ad hoc, naturalmente a fronte di un opportuno rafforzamento dell’organico e investimento di risorse. Nel nostro paper troverete un approfondimento in merito, con una serie di raccomandazioni e proposte per la sua attuazione.

Rana Plaza, una tragedia evitabile

Il Parlamento europeo ha approvato la direttiva sulla due diligence appena un anno fa, scegliendo simbolicamente il giorno dell’anniversario del crollo del Rana Plaza in Bangladesh nel 2013, dove persero la vita oltre mille operaie tessili e altrettante rimasero invalide e che ricorre proprio fra pochi giorni, il 24 aprile. Se ci fosse stata una norma internazionale sulla due diligence, quell’incidente avrebbe potuto essere forse evitato, o almeno avrebbe avuto conseguenze minori e risarcimenti adeguati. Invece quelle vittime e le loro famiglie non hanno ancora trovato piena giustizia perché le leggi nazionali e internazionali non riconoscevano che le aziende multinazionali della moda, clienti delle fabbriche del Rana Plaza, erano corresponsabili di quella tragedia. Ancora oggi è così. Le aziende multinazionali hanno un enorme impatto sui diritti umani di lavoratori e lavoratrici, ma soprattutto un enorme potere, che al momento continua ad agire indisturbato. 

Omnibus, una minaccia alla direttiva

Oggi, infatti, come dirà in dettaglio la collega Romanelli, la direttiva due diligence è già messa in discussione a Bruxelles. La Commissione l’ha inclusa in un pacchetto di semplificazione Omnibus che racchiude tre normative sulla sostenibilità approvate nella scorsa legislatura europea. La proposta è stata pubblicata in poche settimane, dopo una consultazione a porte chiuse e senza analisi o evidenze di efficacia e il suo contenuto vanifica completamente gli obiettivi della direttiva. Noi ci opponiamo al pacchetto Omnibus sia nel merito sia nel metodo adottato dalla Commissione, ma esso procede a passo spedito: la prima delle due misure, che posticiperebbe l’entrata in vigore delle normative, è già stata votata dal Parlamento europeo lo scorso 4 aprile.

Tutela dei diritti umani prima di tutto

Mettendo in discussione la bontà della direttiva due diligence e le altre norme sulla sostenibilità aziendale, l’Unione europea sta dicendo alle grandi aziende che violare i diritti umani è un modello di business accettabile. Nelle prossime settimane il Consiglio dell’Unione europea approverà il proprio testo, poi sarà la volta del Parlamento, e il rischio che Omnibus venga approvato senza modifiche sostanziali è molto alto. La direttiva due diligence è uno strumento legislativo fondamentale per la protezione dei diritti umani nel mondo. Vi chiediamo quindi di fare quanto in vostro potere per indirizzare al Governo italiano e, in particolare, al Ministero degli Affari Esteri, che attualmente siede in Consiglio unitamente alla Rappresentanza italiana, una raccomandazione di salvaguardia del contenuto della direttiva e del processo partecipato e approfondito che l’ha creata. 


guerra dei dazi

La guerra dei dazi di Trump non può ricadere sulle lavoratrici e sui lavoratori del tessile

Il 2 aprile, l'amministrazione Trump ha annunciato l'imposizione di pesanti tariffe commerciali a carico di paesi in tutto il mondo. Le alte percentuali imposte sulle importazioni statunitensi da nazioni produttrici di abbigliamento come Cambogia, Bangladesh, Sri Lanka, Indonesia, Lesotho e Vietnam comportano un impatto significativo sul settore, che sarà pesantemente colpito da queste misure. La rete della Clean Clothes Campaign invita le aziende di abbigliamento, statunitensi e internazionali, a «garantire che i costi di queste nuove politiche non vengano scaricati su coloro che meno possono permetterselo - le lavoratrici e i lavoratori - e ad assorbirli invece di trasferirli lungo la catena di approvvigionamento».

Evitare gli errori della pandemia

Le aziende della filiera dell'abbigliamento dovrebbero evitare di ripetere gli errori commessi durante la pandemia di Covid, quando le risposte impulsive delle multinazionali della moda alle avversità hanno dato priorità esclusivamente alla redditività, devastando finanziariamente milioni di lavoratori e lavoratrici che già percepivano salari di povertà. In molti dei Paesi in cui sono state annunciate tariffe elevate - come Cambogia, Sri Lanka e Bangladesh - i lavoratori sono già pagati al di sotto del livello di sussistenza e non hanno risparmi su cui contare. Ogni nuovo tentativo delle aziende di scaricare i costi sui lavoratori - abbassando i prezzi dei prodotti pagati ai fornitori, tagliando i salari, aumentando gli straordinari non pagati o mettendo a rischio i posti di lavoro con la delocalizzazione della produzione, li costringerà a ridurre i pasti e ad aumentare i debiti.

Guerra dei dazi: chi non deve assorbire i costi

Il settore dell'abbigliamento in questi paesi è dominato da grandi aziende statunitensi o attive a livello globale ricche di liquidità, come Victoria's Secret (6,2 miliardi di dollari di fatturato nel 2024), Levi's (6,4 miliardi di dollari), PVH (Calvin Klein, 8,7 miliardi di dollari), Gap (15,1 miliardi di dollari) o Nike (51,4 miliardi di dollari). Inoltre, molte fabbriche negli stati colpiti sono di proprietà di ricchi gruppi industriali che operano in tutto il Sud e Sud-Est asiatico, come Mas Holdings con sede in Sri Lanka ma attiva a livello globale, del valore di quasi 800 milioni di dollari. Qualsiasi costo aggiuntivo causato dalla politica tariffaria statunitense dovrebbe essere assorbito da queste aziende, anziché essere scaricato a valle della catena di approvvigionamento.

La responsabilità delle grandi aziende

Sono già visibili i primi segnali della tendenza a scaricare i costi lungo la catena di fornitura e ad abusare della situazione per tagliare le spese e ridurre i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori. Secondo quanto riferito dai media, diversi marchi ai vertici delle catene di approvvigionamento come Gap, Walmart e Levi's, hanno già iniziato a chiedere una riduzione dei prezzi o a sollecitare i fornitori a sostenere l'onere delle tariffe nella loro interezza. Poiché i prezzi attuali pagati ai fornitori sono già insufficienti a garantire salari e condizioni di lavoro dignitose, è chiaro che il prezzo di questi sconti forzati alla fine sarà pagato dai lavoratori. Anche le federazioni dei datori di lavoro di diverse aziende produttrici di abbigliamento hanno già iniziato a minacciare ripercussioni, cadendo nella trappola di favorire la concorrenza regionale. Sotto la minaccia di una delocalizzazione dei posti di lavoro in altri paesi meno colpiti dalle tariffe, vengono proposti tagli ai salari e aumenti dell'orario di lavoro. È importante che i lavoratori dei paesi produttori di abbigliamento adottino un approccio condiviso per affrontare questo problema.

Diversi Paesi colpiti dalle tariffe, come Cambogia, Sri Lanka e Indonesia, hanno iniziato a contattare il governo Trump per negoziare condizioni migliori. In Sri Lanka è già stato formato un comitato ma tra le sue fila ci sono solo rappresentanti dei datori di lavoro e del governo. È fondamentale che i sindacati dei lavoratori dell'abbigliamento, in quanto principali rappresentanti di coloro che sono potenzialmente più colpiti dalle misure, partecipino al tavolo, soprattutto a fronte del fatto che gli imprenditori sono già coinvolti nella discussione.

Proposta di un fondo di garanzia

Dopo l'esperienza della pandemia Covid-19, durante la quale lavoratrici e lavoratori in tutto il mondo hanno perso il lavoro o non hanno ricevuto l'intero salario a causa delle scelte delle aziende che controllano la catena di fornitura, la fiducia dei lavoratori e dei loro sindacati nella possibilità che le aziende diano priorità al loro benessere è comprensibilmente bassa.

«La proposta di un fondo di garanzia sostenuta dai sindacati per assicurare ai lavoratori un indennizzo in caso di perdita del posto di lavoro in tempi di crisi è stata finora respinta dai marchi. È fondamentale che questa volta le lavoratrici e i lavoratori che già sopravvivono con salari miseri, non paghino il conto al posto di aziende che fanno profitti enormi e abbiano un posto al tavolo delle decisioni più importanti», ha dichiarato Deborah Lucchetti, coordinatrice nazionale della Campagna Abiti Puliti.


caso montblanc

Vertenza sindacale nella filiera Montblanc: «Non siamo merce usa e getta»

Caso Montblanc

I lavoratori pakistani di un subappaltatore italiano incaricato dal gruppo svizzero di beni di lusso Richemont si ribellano con successo a condizioni di lavoro disumane. Poco dopo, perdono il lavoro e gli attivisti sindacali che li sostengono finiscono in tribunale.

di Florian Blumer (Public Eye)
Traduzione di Campagna Abiti Puliti

Alla vostra mise da ufficio manca ancora quel "tocco di eleganza"?  Il portadocumenti Sartorial di Montblanc potrebbe fare al caso vostro, a patto che non vi lasciate scoraggiare dal prezzo di 1400 euro e vi facciate attrarre invece dagli aspetti più raffinati di questo accessorio. Secondo la descrizione fornita dal negozio online di Montblanc: «La borsa è rifinita da dettagli distintivi, tra cui i manici che rendono omaggio alla bellezza della scrittura».

Il prezzo elevato fa pensare che i clienti comprano un prodotto non solo che possono indossare con orgoglio, ma anche con la coscienza pulita. Dopo tutto, questa borsa è dello storico marchio Montblanc con sede ad Amburgo, “Made in Italy”, in particolare a Firenze, il principale centro per la produzione artigianale della pelle. Montblanc è un brand, o Maison come viene chiamato nel gergo di Richemont, il secondo gruppo di lusso al mondo. La holding ha sede a Bellevue, vicino a Ginevra e nel 2023/2024 ha realizzato un fatturato di 22,4 miliardi di dollari con un utile di 2,6 miliardi. Gli affari continuano come sempre. Nel gennaio 2025, il gruppo svizzero ha annunciato il miglior risultato trimestrale della sua storia.  Secondo le sue stesse dichiarazioni, tuttavia, il gruppo si impegna non solo a generare  profitti ma anche a rispettare le leggi e i diritti umani, anche nei confronti dei  suoi fornitori. Almeno questo è quanto si legge nel “Codice di condotta per i fornitori” disponibile sul sito web di Richemont.

Caso Montblanc
Classica borsa dalle origini poco chiare. La borsa “Sartorial” è uno dei modelli che era prodotto nella fabbrica Z Production in condizioni di sfruttamento. (Immagine: Screenshot Webshop Montblanc)

 Il Reparto delle Stelline non è così brillante

Questo significa forse che è un privilegio non solo potersi permettere le borse di pelle di Richemont, ma anche produrle? Non è questo quello che raccontano Muhammad Arslan e Hassan Ali, che descrivono condizioni di lavoro che difficilmente si potrebbero immaginare  nel cuore dell’Europa. Parliamo con i due ex colleghi di lavoro, entrambi pakistani di 27 anni, seduti a un grande tavolo nella sede del sindacato locale SUDD Cobas nel centro di Prato, la seconda città più popolata della Toscana dopo Firenze, da cui dista circa dieci chilometri. Fino al licenziamento Arslan e Ali lavoravano alla Z Production, un fornitore di Richemont di proprietà e gestione cinese, come molte delle migliaia di fabbriche tessili e di pelletteria della regione.

La fabbrica impiegava circa settanta dipendenti e ospita un subappaltatore chiamato Eurotaglio - che, secondo il sindacato SUDD Cobas, è in gran parte incorporato nella Z Production e sembra appartenere allo stesso proprietario. La maggior parte degli operai proveniva dal Pakistan, dall’Afghanistan e dalla Cina. Secondo i lavoratori e il sindacato, producevano solo articoli in pelle per Montblanc. Arslan e Ali erano addetti del reparto noto internamente come “Reparto Stelline”, dove venivano impressi sulle borse gli emblemi Montblanc extra-large.

Determinati a farsi valere. Hassan Ali (a sinistra) e Muhammad Arslan (a destra) durante una protesta davanti ai cancelli del loro ex datore di lavoro. (Immagine: Sudd Cobas)

“Apprendista part-time” in fabbrica

Come migliaia di altri lavoratori migranti, Arslan e Ali sono arrivati in Toscana per guadagnarsi da vivere e aiutare le famiglie nel loro paese. Nelle pelletterie della regione i margini generati dalla produzione sono molto ristretti. Public Eye ha avuto accesso ai documenti ufficiali relativi al caso “Pelletteria Serena” (vedi sotto), ottenuti dalla giornalista RAI Cecilia Bacci. Dal loro esame emerge che il marchio Chloé, anch'esso appartenente a Richemont, paga circa 200-300 euro per produrre una borsa di lusso che nei negozi costa 1500 euro o più. I materiali rappresentano la maggior parte dei costi. Le fabbriche possono addebitare solo 50-70 euro per la produzione di una borsa - nel caso del “portadocumenti Sartorial” di Montblanc, si stima che i costi di produzione rappresentino solo il 5% del prezzo di vendita. Richemont non ci ha fornito informazioni relative alla costruzione del prezzo e non ha commentato questa stima.

caso Montblanc
“Apprendista part-time” secondo il contratto, ma in realtà impiegato per oltre 70 ore alla settimana: Il contratto di lavoro di Muhammad Arslan.

Muhammad Arslan ci ha mostrato il suo contratto di lavoro alla Z Production, datato 12 luglio 2019. All'epoca era già impiegato nella fabbrica da circa due anni e a causa del cambio di nome dell'azienda - una pratica comune in Italia quando le imprese hanno problemi con le autorità - gli è stato offerto un nuovo contratto che prevedeva l'assunzione come “apprendista part-time” per un periodo di tre anni. Gli orari di lavoro erano indicati in una tabella: dal lunedì al venerdì, dalle 8 alle 14, per 30 ore settimanali. La realtà era diversa, spiega Arslan:

«Dovevamo lavorare fino alle otto di sera, dodici ore al giorno, con solo mezz'ora di pausa. E per di più sei giorni alla settimana. Non potevamo nemmeno prendere le ferie». Per le ore aggiuntive riceveva qualche centinaio di euro in contanti, ma una parte di questi gli veniva nuovamente detratta, così che alla fine si ritrovava con un totale di 900-1000 euro al mese, cioè circa 3 euro all'ora. Arslan ha proseguito: «La vita consisteva solo di lavoro. Quando passi così tanto tempo in fabbrica, non hai nemmeno il tempo di fare la spesa o la lavatrice».

Fumogeni e tetti occupati

Nell'estate del 2022, Arslan, Ali e altri undici colleghi del loro reparto decidono di reagire. Vengono a sapere da altri lavoratori che abitano con loro che un sindacato di recente costituzione si occupa di casi come il loro. Il 31 agosto suonano il campanello della porta a vetri dell'ufficio del SUDD Cobas. Questo sindacato è attivo nell'area pratese dal 2018 e attualmente conta circa 600 iscritti impiegati in una vasta gamma di settori. Si fonda sull'organizzazione dal basso. Le sue azioni suscitano scalpore: picchetti, proteste di fronte alla sede della Regione ai cancelli e a volte sul tetto delle fabbriche, tendopoli allestite davanti ai negozi, canti, striscioni e fumogeni. Il SUDD Cobas predilige uno stile di protesta che i cittadini della regione non erano abituati a vedere nei sindacati tradizionali. Di conseguenza, i manifestanti corrono rischi che li rendono più vulnerabili. I picchetti sono già stati attaccati con i manganelli, ma le loro azioni di pressione hanno anche avuto diversi successi.

caso Montblanc
Fumogeni contro lo sfruttamento. Azione di protesta del Sudd Cobas davanti all'edificio della Z Production, 20 settembre 2024. (Immagine: Banoy Paganini Toroucly)

Le persone si riprendono la loro vita

Hanno chiamato la loro campagna per avere normali condizioni di lavoro “8x5”. Francesca Ciuffi è “organizzatrice” del SUDD Cobas e delegata nell’azienda per cui lavora, una casa editrice di Firenze. Grazie al suo forte impegno è uno dei volti di spicco del sindacato, insieme ai colleghi coordinatori Luca Toscano e Sarah Caudiero. Francesca ci ha raccontato che l'idea della campagna è nata alla fine del 2020, quando si sono resi conto che in tutte le fabbriche dei lavoratori sindacalizzati venivano applicate le stesse condizioni: «Tutti si sono subito riconosciuti (nel messaggio 8x5, ndr.)». La campagna rifletteva ciò che il SUDD Cobas rappresentava.

«Le persone si riappropriano della loro vita: imparano l'italiano per diventare più indipendenti, possono incontrarsi con gli amici e trovano anche un senso di solidarietà nel sindacato».

Racconta Ciuffi che nei primi tempi le riunioni si tenevano alle dieci di sera, perché gli operai finivano di lavorare a quell'ora. «Ora non è più così: abbiamo molti iscritti che lavorano a orari normali». La campagna rappresenta anche una particolarità del SUDD Cobas, come spiega Ciuffi:

«Mentre i principali sindacati si concentrano sull'aiutare i lavoratori a ricevere i risarcimenti a posteriori, le nostre azioni mirano a cambiare le condizioni di lavoro e a garantire ai lavoratori la continuità occupazionale».

Le conseguenze degli scioperi

I tredici lavoratori pakistani della Z Production e del subappaltatore Eurotaglio si sono iscritti al sindacato subito dopo la prima visita in ufficio. Dopo diverse riunioni, hanno deciso di fare uno “sciopero degli straordinari”. In altre parole, da quel momento in poi avrebbero fatto ciò che era scritto nei loro contratti di lavoro e prescritto dalla legge: avrebbero smesso di lavorare oltre l'orario di lavoro regolare e non si sarebbero presentati al lavoro nei fine settimana. A ciò si è aggiunta un'e-mail redatta e inviata dal sindacato al responsabile della Z Production, in cui si chiedeva che i tredici lavoratori venissero assunti secondo la legge e compensati per le ore lavorate e non pagate. Una pressione che ha avuto un effetto immediato. Il prezzo che Richemont pagava a Z Production era apparentemente così marginale che, anche scontando gli straordinari dei tredici operai, l'azienda non era più in grado di rispettare i volumi concordati e di consegnare al prezzo pattuito, almeno così lamentava il proprietario della fabbrica nei confronti del sindacato.

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​​“Sfruttati per il lusso”. I lavoratori licenziati della Z Production manifestano davanti al negozio Montblanc di Firenze, il 26 ottobre 2024. (Immagine: Sudd Cobas)

Contratti regolari ma niente più lavoro

Le parti si sono sedute ad un tavolo negoziale che ha avuto esito positivo. Il 9 febbraio 2023, Muhammad Arslam, Hassan Ali e i loro undici colleghi hanno firmato un accordo con Z Production/Eurotaglio. Fu concordato di non rivelare i dettagli, ma in pratica prevedeva che i tredici lavoratori non sarebbero più stati obbligati a lavorare oltre il massimo previsto dalla legge e avrebbero potuto godere del diritto alle ferie e ai congedi per malattia. «Anche lo stipendio era buono», dice Arslan, «circa 1.500 euro al mese».

Quindi, tutto è bene quel che finisce bene?

Purtroppo no. Poche settimane dopo, il capo della Z Production ha annunciato che per loro, e per molti altri operai, non c'era più lavoro. La Pelletteria Richemont, filiale locale del gruppo a Scandicci, vicino a Firenze, aveva ridotto i volumi di produzione e il 28 febbraio aveva informato l'azienda che avrebbe terminato il contratto con Z Production alla fine dell'anno.

Richemont ha giustificato il licenziamento a Public Eye e Campagna Abiti puliti affermando che Z Production aveva ripetutamente mancato di rispettare il Codice di condotta per i fornitori.

Secondo il gruppo, la decisione è stata presa «a seguito di persistenti episodi di non conformità che hanno portato a una perdita irrimediabile di fiducia nella volontà del management di conformarsi (...) La scoperta di un subappaltatore non dichiarato durante l'audit forense di Deloitte nel gennaio e febbraio 2023 ha costituito il punto di rottura (...)».

Altre violazioni specifiche identificate in nove audit, condotti da società indipendenti tra novembre 2019 e febbraio 2023, sono state citate da Richemont come violazioni dei «protocolli di salute e sicurezza (in particolare le misure di prevenzione degli incendi), la presenza o la mancanza di un sistema elettronico di registrazione dell'orario di lavoro funzionante e documentazione importante (tra cui un contratto di lavoro mancante, un permesso di soggiorno scaduto e un permesso di soggiorno mancante)». Alla domanda sulle violazioni dei diritti del lavoro, Richemont ha dichiarato che il ripetersi di violazioni come la mancanza di un sistema di registrazione dell'orario di lavoro ha «destato sospetti», ma che tutti questi audit «non hanno portato alla luce prove definitive di condizioni di lavoro inadeguate, come sostenuto dagli ex dipendenti di Z Production». L'azienda ha rifiutato la richiesta di visionare i documenti dell'audit.

Richemont era completamente all'oscuro della situazione?

Richemont respinge l'ipotesi che la sindacalizzazione e l'accordo del 9 febbraio siano stati il motivo della risoluzione del contratto, descrivendola «inadeguata». La società dichiara di essere stata contattata dal SUDD Cobas solo il 31 marzo 2023 e di non averne saputo nulla fino ad allora. Ciuffi ritiene semplicemente «impossibile» che il cliente della Z Production sia venuto a conoscenza dell'intero processo solo a fine marzo. Si riferisce allo sciopero degli straordinari con le conseguenze sulla produzione descritte sopra. Inoltre, dice Ciuffi, «sappiamo che, fin dall'inizio, un dipendente della Pelletteria Richemont era presente in fabbrica quasi ogni giorno».

A proposito di questo dipendente che tutti chiamavano “Alessandro”, Arslan dice: «Dava al direttore della fabbrica compiti specifici per la produzione e a volte dava anche istruzioni dirette ai singoli lavoratori». Public Eye ha potuto parlare, indipendentemente dal Sudd Cobas, con un autotrasportatore italiano, che all'epoca era impiegato regolarmente presso la Z Production; anche lui conferma la presenza regolare del dipendente della Pelletteria Richemont “Alessandro” in fabbrica. Francesca Ciuffi dice di averlo incontrato più volte durante le proteste fuori dalla fabbrica. Richemont non ha commentato il punto.

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Forte e senza paura. Francesca Ciuffi del Sudd Cobas in azione durante la protesta. (Immagine: Banoy Paganini Toroucly)

Trattativa interrotta poco prima dell'accordo

In seguito al calo della produzione e alla risoluzione del contratto nella primavera del 2024, il SUDD Cobas ha organizzato nuove azioni fuori dalla fabbrica insieme ai lavoratori. Questa volta la protesta è arrivata fino in cima alla catena di produzione: davanti alla boutique Montblanc nell'elegante via de' Tornabuoni, nel cuore di Firenze. In seguito si sono tenute diverse discussioni che hanno coinvolto tutte le parti interessate e che hanno portato, circa un mese dopo, alla ripresa di gran parte degli ordini alla Z Production.

Inoltre, i rappresentanti del SUDD Cobas stavano negoziando con la Pelletteria Richemont con l'obiettivo di garantire che i lavoratori sindacalizzati potessero essere assunti alle stesse condizioni dal nuovo fornitore dopo la risoluzione del contratto con Z Production.

Francesca Ciuffi aggiunge: «Richemont si era dimostrata disponibile a raggiungere un accordo di questo tipo durante le trattative. Abbiamo quindi redatto una proposta scritta. Ma quando si è trattato di discuterla per firmarla, si sono improvvisamente ritirati».

In seguito il sindacato ha provato in diverse occasioni di riprendere le trattative, un tentativo fino ad oggi vano.

Nella dichiarazione rilasciata a Public Eye e a Campagna Abiti Puliti, Richemont non affronta le ragioni del ritiro dalle trattative. Si limita a sottolineare di aver dato la disdetta del contratto con Z Production prima di quanto richiesto dalla legge, dando così all'azienda il tempo sufficiente per trovare nuovi clienti. Inoltre, Richemont respinge ogni responsabilità per la sorte dei lavoratori: «I fornitori sono aziende autonome e (...) spetta esclusivamente a loro decidere chi assumere o, addirittura, licenziare se lo decidono».

Made in Italy? Shame in Italy!

Nel settembre 2023, il volume degli ordini di Montblanc alla Z Production crolla di nuovo. Dopo la scadenza del contratto di produzione con Richemont alla fine dell'anno, l'azienda ha continuato a lavorare per altri marchi con bassi volumi di produzione e un numero ridotto di lavoratori. Il SUDD Cobas ha negoziato un contratto di “solidarietà” con la Regione Toscana, garantendo ai lavoratori coinvolti un certo numero di ore di lavoro e il pagamento di una parte del salario.

Nel corso del 2024, il sindacato e i lavoratori continuano a esercitare pressione con azioni di protesta. Alla scadenza del contratto di solidarietà, nell'ottobre 2024, tutti i lavoratori sindacalizzati vengono licenziati. Il SUDD Cobas, insieme ad altri sindacati e ai membri della rete internazionale della Clean Clothes Campaign (CCC) - di cui Public Eye fa parte - organizza una giornata internazionale di protesta con manifestazioni davanti ai negozi Montblanc in varie città italiane, oltre che a Berlino, Lione, Zurigo, Ginevra e Basilea. Un unico coro che grida “Made in Italy? - Shame in Italy!”.

caso Montblanc
Solidarietà internazionale. Membri del sindacato IGA con Francesca Ciuffi (che tiene il megafono) davanti al negozio Montblanc di Basilea, aprile 2024. (Immagine: Sudd Cobas)

Montblanc chiede di vietare le manifestazioni

Le proteste iniziano ad attirare l'attenzione, anche dei media. Apparentemente troppo per Montblanc. Nel gennaio 2025, il SUDD Cobas scopre che l'azienda ha intrapreso un'azione legale nei suoi confronti. Il marchio di lusso aveva avviato un procedimento presso un tribunale civile locale, chiedendo l'immediato divieto delle manifestazioni degli attivisti del Sudd Cobas fuori dai suoi negozi.

Francesca Ciuffi commenta indignata. «Questa richiesta è assolutamente incostituzionale. Dagli anni '70 nessun soggetto privato ha mai tentato di avanzare una simile pretesa in Italia. Vorrebbero che il diritto al profitto fosse anteposto al diritto di manifestare!».

Contemporaneamente, Montblanc ha denunciato per diffamazione e violenza privata tre sindacalisti del SUDD Cobas: Francesca Ciuffi, Sarah Caudiero e Luca Toscano. Come si evince dalla denuncia presentata, Montblanc voleva evitare di essere associata alle condizioni dello stabilimento del fornitore. La violenza privata è un reato che in Italia viene tipicamente invocato in caso di scioperi.

Montblanc ha ritirato la richiesta di divieto di manifestazione dopo che Campagna Abiti Puliti, la sezione italiana della CCC, ha lanciato un appello pubblico il 29 gennaio. Tuttavia, l'azienda era ancora intenzionata a sporgere denuncia contro i membri del SUDD Cobas.

Nella sua comunicazione a Public Eye e a Campagna Abiti Puliti, Richemont sostiene che «questi individui in particolare hanno e continuano a condurre una campagna di diffamazione contro Montblanc, basata sulle testimonianze di un numero molto ridotto di ex lavoratori» che «stanno utilizzando la cessazione del rapporto commerciale con Z Production come mezzo per danneggiare la reputazione di Montblanc sia in Italia che a livello internazionale».

Il fatto che un'azienda del gruppo Richemont abbia sporto denuncia contro le persone che si battono per i diritti dei lavoratori - sfruttati per anni nella fabbricazione dei suoi prodotti - invece di sostenerli e trovare soluzioni per loro, non si concilia con l'immagine di azienda socialmente responsabile che vuole dare di sé. Sarebbe stato lecito aspettarsi anche che, dopo che le rivendicazioni nei confronti della Z Production sono emerse, l'azienda aumentasse gli sforzi per garantire che i nuovi appaltatori rispettassero il codice di condotta. È difficile verificare se ciò sia stato fatto, perché Montblanc non ha rivelato l'identità dei suoi fornitori. Il SUDD Cobas non ha ricevuto alcuna informazione da Richemont quando ha chiesto dove fosse stata trasferita la produzione.

Preferenza ai lavoratori cinesi

Nel novembre 2024, un servizio di Al Jazeera ha rivelato almeno in parte questo segreto ben custodito. La scoperta è avvenuta per caso. Spacciandosi per investitori cinesi, nel giugno 2024 hanno visitato la pelletteria cinese Pelletteria A&S, a circa cinque chilometri dal sito della Z Production. La responsabile dell'azienda, che si è presentata come “Sofia”, ha spiegato candidamente ai finti imprenditori il suo sistema, che le permetteva di produrre a basso costo. Ai suoi operai faceva contratti per quattro ore di lavoro al giorno, ma li faceva lavorare 11-12 ore. Concordava con loro una tariffa e li pagava privatamente, in modo da risparmiare sulle tasse.

La troupe ha anche documentato la mancanza di dispositivi di sicurezza e ha persino assistito al rischio di un incidente quando un lavoratore è scivolato senza protezione su una macchina per il taglio. La donna ha dichiarato di aver licenziato i suoi operai dal Bangladesh, perché si erano opposti alle condizioni di lavoro. Avrebbe assunto solo lavoratori cinesi che, secondo lei, sono più obbedienti e non si comporterebbero mai in questo modo. Quando in seguito si è confrontata con le accuse, “Sofia” ha risposto, secondo Al Jazeera, che la sua fabbrica era ormai chiusa e ha negato ogni accusa.

https://youtu.be/owXegVj1NC4?si=tZUe2JL--vMIGc94

Quando la giornalista ha mostrato a Francesca Ciuffi e Luca Toscano del SUDD Cobas le riprese della fabbrica, sono rimasti a bocca aperta: la stellina Montblanc era ben visibile sulle borse di pelle. La responsabile della fabbrica ha detto alla telecamera che il marchio era un suo nuovo cliente. Resta da vedere dove e in quali circostanze Richemont permetterà che la produzione avvenga in altre fabbriche. Tuttavia, sulla base del filmato registrato nel giugno 2024 e delle dichiarazioni della proprietaria della fabbrica, è evidente che una nuova fabbrica aveva ricevuto ordini per la produzione di borse in pelle Montblanc attraverso un subappaltatore dove, ancora una volta, i diritti del lavoro - e il Codice di Condotta Richemont - sono stati palesemente violati.

Le stesse pratiche della fast-fashion

Richemont avrebbe dovuto essere consapevole, per usare un eufemismo, fin dall'inizio dell'elevato rischio di violazione delle leggi sul lavoro presso il suo fornitore Z Production, e avrebbe quindi dovuto indagare più attentamente dato che le condizioni di sfruttamento lavorativo, come quelle sperimentate da Arslan e Ali, sono diffuse nell'industria tessile e della pelletteria in Italia. La regione di Prato-Firenze è un centro di produzione di questi settori a livello europeo. Se si parla con gli abitanti della città, ci si rende subito conto che la popolazione è ampiamente consapevole di questo problema.

Un rapporto del 2014 di Campagna Abiti Puliti (CAP) sull'industria del lusso e della moda in Italia aveva già messo in evidenza la pratica diffusa nelle fabbriche toscane e non solo, secondo cui i lavoratori con contratti di apprendistato part-time lavoravano in realtà a tempo pieno senza essere adeguatamente retribuiti. La coautrice e coordinatrice nazionale di CAP Deborah Lucchetti, che ha partecipato anche a uno studio della Clean Clothes Campaign del 2023 sull'industria della moda in Europa dichiara:

«Durante la nostra ricerca, abbiamo scoperto che nell'industria del lusso vengono utilizzate le stesse pratiche che sono comuni in quella della fast-fashion”. E prosegue: “I fornitori sono spinti a violare le leggi e i contratti collettivi per motivi di costo e ad assumere subappaltatori perché non ricevono abbastanza denaro per coprire tutti i costi, a partire da quelli della manodopera e della sicurezza. E questo avviene nonostante i prezzi di vendita esorbitanti dei prodotti di lusso. Questo è esattamente ciò che osserviamo nel caso di Montblanc».

Percosse sul lavoro

Richemont avrebbe dovuto sapere già dal 2020 che le condizioni di sfruttamento erano diffuse anche nella propria catena di fornitura. In quel periodo venne avviato un procedimento giudiziario contro la coppia di coniugi che gestiva una fabbrica chiamata “Pelletteria Serena”, la cui gamma di prodotti comprendeva borse in pelle di un marchio di Richemont, Chloé. Si scoprì che i lavoratori erano stati picchiati nella fabbrica e il caso in Italia fece scalpore. Public Eye ha avuto accesso alle carte del processo. La sentenza descrive le gravi violazioni del diritto del lavoro e condizioni che ricordano largamente i racconti degli operai della Z Production: orari di lavoro fino a 78 ore settimanali, «circa il doppio e il quadruplo di quanto previsto dai regolari contratti a tempo pieno e a tempo parziale», una paga oraria media di tre euro l'ora, un periodo di riposo giornaliero «limitato a brevi pause di pochi minuti per consumare i pasti». Un lavoratore ivoriano identificato con nome e cognome, il cui lavoro era stato criticato, è stato colpito più volte sul collo e sulle mani con una cintura.

Nelle motivazioni della sentenza si fa riferimento anche alla situazione di vulnerabilità dei lavoratori, che «devono lavorare a tutti i costi per assicurarsi il reddito», che inviano alle famiglie nei loro paesi di origine. I lavoratori pakistani con cui abbiamo parlato durante un picchetto del Sudd Cobas davanti a una fabbrica di logistica raccontano di mandare fino all'80% del loro reddito ai parenti nei paesi di origine. La manager della fabbrica cinese è stata condannata per sfruttamento del lavoro ed evasione fiscale. Sia il cliente diretto che Richemont non sono stati coinvolti nel processo.

caso Montblanc
La parte meno glamour di Firenze. Via Gattinella nel quartiere industriale di Campi Bisenzio, con l'edificio della Z Production sulla sinistra. (Immagine: Florian Blumer)

La conclusione della Corte: «Non è un fatto eccezionale»

Nel 2024 a Milano si è verificato un evento senza precedenti: tre processi clamorosi che hanno acceso i riflettori sulle aziende del lusso. Tra questi, una filiale locale del marchio Dior, appartenente all'indiscusso leader del settore LVMH con sede a Parigi, posta sotto amministrazione giudiziaria perché il tribunale ha scoperto che l'azienda aveva assegnato lavori a fornitori cinesi che maltrattavano i lavoratori.

Mentre anche in questo caso i responsabili delle aziende fornitrici sono stati perseguiti, Dior non ha dovuto affrontare alcun procedimento penale. Tuttavia il tribunale ha riscontrato, come riporta la Reuters citata in un articolo del giugno 2024, che il marchio non ha adottato misure adeguate «per appurare in concreto le effettive condizioni lavorative» o «la reale capacità imprenditoriale delle società appaltatrici». Ad esempio, non ha effettuato controlli periodici nel corso degli anni. Il tribunale ha concluso che: «Non si tratta di fatti episodici e limitati, ma di un sistema di produzione generalizzato e consolidato». Oltre alla filiale di Dior, anche Alviero Martini e una filiale di Armani, altre due aziende che impiegavano lavoratori in condizioni inaccettabili, sono state poste sotto amministrazione giudiziaria.

La sentenza del tribunale conferma le esperienze di SUDD Cobas, racconta Luca Toscano: «I marchi del lusso vogliono capitalizzare la buona immagine del 'Made in Italy'. Per questo non spostano la produzione in paesi asiatici ancora più economici. Ma quello che fanno è importare le condizioni di lavoro dalla Cina, dal Pakistan o dal Bangladesh in Italia per sfruttare i lavoratori qui nel nostro Paese».

Luca Toscano - Coordinatore SUDD Cobas parla durante una manifestazione di lavoratori pakistani

Dal punto di vista del tribunale di Milano, il provvedimento ha funzionato: alla fine di febbraio 2025, ha cessato anticipatamente la misura dell'amministrazione giudiziaria per tutte e tre le società poiché avevano risolto «in modo estremamente rapido» i rapporti con i «fornitori a rischio» e sviluppato altre misure approvate dal tribunale.

Tutto ciò sembra positivo, ma come afferma Deborah Lucchetti della Campagna Abiti Puliti: «Lo sfruttamento dei lavoratori nella filiera dell'abbigliamento è un fenomeno sistemico che non può essere risolto semplicemente interrompendo i rapporti commerciali con i fornitori a rischio».

«Questo porterebbe a lasciare i lavoratori più vulnerabili senza lavoro e senza alcuna protezione sociale. Sono le cause dello sfruttamento che devono essere eliminate, e queste risiedono principalmente nelle pratiche commerciali sleali di marchi e aziende. Per questo motivo sono necessarie leggi che impongano alle aziende di rispettare i diritti umani lungo tutta la catena di approvvigionamento, come la direttiva UE sulla due diligence per la sostenibilità delle imprese o come richiesto dalla Responsible Business Initiative in Svizzera».

Creare un precedente per l'intera regione?

Francesca Ciuffi, Luca Toscano e i loro colleghi del SUDD Cobas sperano comunque che questa decisione del tribunale, che ha sottoposto a obblighi anche le aziende multinazionali e i loro brand, sia un segnale che arrivi fino a Prato e Firenze. Inoltre anche loro hanno deciso di avviare un'azione legale. Per conto di Arslan, Ali e altri quattro ex colleghi, il SUDD Cobas ha impugnato i licenziamenti, non solo contro la Z Production, ma anche contro l'azienda svizzera per la quale i prodotti sono stati realizzati: Richemont. Quest'ultima continua a ritenere il fornitore pienamente responsabile, come ha ribadito nella sua risposta alle affermazioni di Public Eye e Campagna Abiti Puliti: «La vostra attenzione dovrebbe concentrarsi sulla persistente non conformità di Z Production, piuttosto che prendere ingiustamente di mira Montblanc, che ha agito in buona fede per garantire la conformità (...)». La Z Production non ha risposto alla nostra richiesta di commento.

Se alla fine il SUDD Cobas dovesse vincere e i tribunali dovessero stabilire che il gruppo è direttamente responsabile delle condizioni dei suoi fornitori, questo segnerebbe un grande successo, creando un precedente per l'intera regione produttiva di Prato-Firenze e non solo. Tuttavia, è probabile che il processo si protragga per anni, allontanando la prospettiva di ricollocamento a breve di Muhammad Arslan, Hassan Ali e dei loro colleghi. Attualmente vivono con un sussidio di disoccupazione statale e sono alla ricerca di un lavoro. La ricerca si sta rivelando difficile: trovare un impiego a condizioni regolari sembra quasi un'impresa senza speranza

L’unica rimane quella che l'azienda svizzera torni a riflettere sui valori che dichiara e faccia in modo che Muhammad Arslan, Ali Hassan e i loro quattro colleghi non debbano lavorare in condizioni di sfruttamento e che venga realizzato il loro desiderio: di poter tornare a lavorare nella produzione di beni di lusso per/nella filiera di Richemont, in condizioni che sono date per scontate dalla maggior parte delle persone in Italia e altrove.

caso Montblanc
“Non siamo merce usa e getta - Lavoratori in appalto Montblanc”. Luca Toscano (a sinistra) e altri membri del Sudd Cobas espongono il loro messaggio davanti al palazzo della Regione Toscana a Firenze. (Immagine: Sudd Cobas)

Informazioni sul gruppo Richemont SA

Il gruppo, con sede a Bellevue, vicino a Ginevra, è il secondo operatore del settore del lusso dopo il gruppo francese LVMH (Louis Vuitton Moët Hennessy), con un fatturato di 22,4 miliardi di dollari e un utile di 2,6 miliardi di dollari (esercizio finanziario 2024). Richemont è il numero uno mondiale nel settore della gioielleria, con Cartier come marchio di punta e forza trainante in termini di vendite. Inoltre, il gruppo include nel suo portafoglio marchi svizzeri di orologi di lusso come Piaget e IWC Schaffhausen

La terza area di attività, classificata come “Altro”, comprende principalmente marchi di abbigliamento e accessori di lusso, tra cui il marchio Montblanc, con sede ad Amburgo, rinomato non solo per i suoi raffinati strumenti di scrittura, ma anche per altri prodotti di lusso, come borse in pelle e altri accessori.

Il gruppo ha la reputazione di mantenere riservatezza e non farsi pubblicità. Le sue origini risalgono al Sudafrica dell'apartheid negli anni Quaranta. È stato fondato da Anton Rupert, all'epoca uno degli uomini più ricchi del mondo. Attualmente, il presidente del consiglio di amministrazione di Richemont è suo figlio Johann Rupert, che si divide tra la Svizzera e il Sudafrica ed è anch'egli multimiliardario. È anche comproprietario, insieme alla famiglia ginevrina Aponte, che possiede la compagnia di navigazione MSC, di Mediclinic, un gruppo di 74 ospedali e cliniche, tra cui i diciassette ospedali Hirslanden situati in Svizzera.


moda, ambiente e diritti

Moda, ambiente e diritti: una serata sulla transizione giusta nell’industria tessile

L’industria della moda è tra le più inquinanti al mondo e caratterizzata da condizioni di sfruttamento sistematico lungo l’intera filiera produttiva. A partire da queste considerazioni nasce Sfashion Lab, una scuola di attivismo per under 30, con l’obiettivo di promuovere consapevolezza e azione concreta per una transizione giusta nel settore tessile.

Moda, ambiente e diritti

Ideato da FAIR nell’ambito della Campagna Abiti Puliti, Sfashion Lab fornisce strumenti teorici e pratici per comprendere gli impatti socio-ambientali dell’industria della moda e dei modelli di consumo attuali. Attraverso un approccio intersezionale, il percorso formativo affronta tematiche che intrecciano giustizia climatica, diritti umani e ecologia politica, stimolando il cambiamento attraverso la partecipazione attiva.

Un percorso di formazione e attivismo

Sfashion Lab non è solo un luogo di apprendimento, ma anche uno spazio di confronto e collaborazione dove entrare in connessione, scambiarsi idee e lavorare insieme per promuovere un modello di moda compatibile con i limiti di un Pianeta in crisi.

Durante i tre weekend di workshop – il primo si è già svolto l’8-9 marzo, mentre i prossimi saranno il 12-13 aprile e il 17-18 maggio – si ha la possibilità di approfondire le contraddizioni e le sfide dell’industria tessile, analizzandone gli effetti sia sul piano ambientale che su quello sociale. Gli incontri sono ospitati negli spazi del centro culturale mosso (via Angelo Mosso 3, Milano) e prevedono l’alternarsi di presentazioni di espertə, laboratori pratici e momenti interattivi pensati per stimolare il dibattito e favorire l’elaborazione collettiva di connessioni di comunità, attraverso l’accompagnamento di una facilitatrice.

Il percorso laboratoriale rientra nel progetto Just Fashion - co-finanziato dall’Unione europea e dall’Otto per mille della Chiesa evangelica luterana - che intende incoraggiare azioni concrete e cambiamenti politici per una transizione giusta nel settore tessile, evidenziando l’interconnessione tra le richieste dei consumatori, i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici e le problematiche ambientali.

Una serata aperta al pubblico

Oltre ai workshop, sabato 12 aprile le porte dello Sfashion Lab si aprono al pubblico per approfondire il legame tra moda, ambiente e diritti umani. Alle 19:30 ci sarà la presentazione del libro PFAS. Gli inquinanti eterni e invisibili nell'acqua. Storie di diritti negati e cittadinanza attiva di Giuseppe Ungherese di Greenpeace Italia. Attraverso il suo intervento, l’autore guiderà il pubblico alla scoperta del problema dei PFAS, sostanze chimiche estremamente persistenti, meglio note come “inquinanti eterni”, e utilizzate anche nell’industria tessile per rendere i tessuti impermeabili e antimacchia. L’incontro sarà un’occasione per conoscere le battaglie per la giustizia ambientale e i diritti delle comunità colpite da questa contaminazione, comprendendo meglio come il nostro prendere posizione possa influenzare il nostro ecosistema.

A seguire, alle 21:30, ci sarà la proiezione del documentario Le ali non sono in vendita, con la partecipazione del regista Paolo Campana. Il film, prodotto da FAIR offre uno sguardo critico sulle contraddizioni dell’industria della moda, raccontando storie di resistenza e di ricerca di modelli alternativi più giusti e sostenibili. Attraverso testimonianze dirette e immagini di grande impatto, il documentario invita a riflettere sulle conseguenze del fast fashion e sulle possibilità di costruire un sistema più etico.

La serata è aperta al pubblico, per partecipare basta registrarsi: clicca qui.


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Omnibus: la Commissione UE si inchina alle grandi imprese e tradisce i lavoratori

La Commissione europea ha pubblicato oggi il pacchetto Omnibus che, all'insegna di competitività e semplificazione, propone di modificare le norme sulla responsabilità aziendale, tradendo il suo impegno per catene del valore più giuste e sostenibili. Un enorme passo indietro per la Campagna Abiti Puliti, rispetto agli obiettivi fissati grazie alla Direttiva sulla rendicontazione della sostenibilità aziendale (CSRD) e alla Direttiva sulla due diligence della sostenibilità aziendale (CSDDD).

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Nel 11° anniversario del tragico crollo della fabbrica Rana Plaza, attivisti della CCC e dei suoi alleati si radunano fuori dal Parlamento Europeo durante le votazioni plenarie sulla direttiva per la dovuta diligenza in materia di sostenibilità aziendale (CSDDD), una normativa che dovrebbe prevenire simili tragedie in futuro.

Un vero passo indietro

Approvata ad aprile del 2024, la CSDDD impone alle aziende di grandi dimensioni con sede e/o operanti nell’UE obblighi vincolanti di due diligence in materia di diritti umani e ambiente. La legge impone alle imprese interessate di adoperare la cd. dovuta diligenza nei confronti dei fornitori, cioè monitorare le proprie catene del valore per individuare violazioni dei diritti e di porre rimedio ai danni causati a lavoratori, comunità e ambiente. Tuttavia, con un cambio di rotta senza precedenti, la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ha deciso di riaprire il testo della CSDDD alla fine dello scorso anno, con il pretesto di una “semplificazione”. Queste modifiche arrivano con due anni di anticipo rispetto all’entrata in vigore della legge.

Omnibus: parte la deregolamentazione

Riduzione del già limitato numero di aziende soggette agli obblighi di due diligence, circoscrizione degli obblighi di controllo e rimedio, responsabilità delle imprese circoscritta ai fornitori diretti e indebolimento delle procedure di enforcement giudiziarie e amministrative. Il testo appena presentato smentisce le precedenti dichiarazioni della Commissione, secondo cui la semplificazione non equivale a deregolamentazione. È evidente che la nuova tendenza in Europa sia di assecondare le richieste delle grandi imprese, anche a costo di smantellare le leggi stesse dell’Unione.

«Le condizioni delle lavoratrici del settore tessile continuano a essere drammatiche, non solo nei paesi del sud globale, ma anche in Europa e in Italia. Gli stipendi sono bassissimi e le catene di fornitura dominate dai grandi marchi che accumulano profitti sfruttando risorse e persone», afferma Deborah Lucchetti, coordinatrice nazionale della Campagna Abiti Puliti, che aggiunge: «Non si può affidare alle imprese il compito di risolvere i problemi che loro stesse creano».

«I diritti umani e la due diligence ambientale sono inutili per i lavoratori se non hanno effetti concreti», ha detto Kalpona Akter, fondatrice del Bangladesh Center for Workers Solidarity, membro della Clean Clothes Campaign. «I lavoratori e le lavoratrici che producono abbigliamento per i marchi europei contavano sull'UE per ottenere strumenti reali di  rimedio agli abusi da parte dei marchi della moda che devono subire ogni giorno. Eliminando le procedure per una efficace attuazione, l'UE sta dicendo alle grandi aziende che violare i diritti dei lavoratori è un modello di business accettabile», ha aggiunto.

Prossimi step

La proposta Omnibus sarà ora discussa dal Parlamento Europeo e dagli Stati membri dell'UE riuniti nel Consiglio, che dovranno concordare la loro versione della legge.

«Il processo che ha portato a questo pacchetto Omnibus sconfessa  il processo legislativo dell'Unione Europea e i principi democratici di cui essa si fregia. Si scrive semplificazione, si legge attacco ai diritti e all’ambiente. È molto grave che normative così importanti, che per la prima volta forniscono un quadro normativo sulla responsabilità d’impresa lungo la filiera, vengano ostacolate dalla politica. La mossa della Commissione, purtroppo appoggiata anche dal governo italiano, sembra dunque una excusatio non petita. Dopo le elezioni europee, il vento è cambiato e la Commissione fa da banderuola».

Così Priscilla Robledo, responsabile delle attività di lobbying e advocacy di Campagna Abiti Puliti.


lavoratrici senza stipendio

Lavoratrici migranti senza salario: da cinque anni un fornitore di Otto nega il pagamento

Nell’aprile 2020, nel pieno della pandemia di COVID-19, la direzione della Royal Knitting Factory in Thailandia ha licenziato Hnin Hnin e altri 208 lavoratori, senza preavviso e senza pagar loro i salari dovuti né le indennità di fine rapporto. Più del 90% dei lavoratori colpiti sono donne provenienti dal Myanmar.

lavoratrici senza salario«Voglio dire a Otto che abbiamo lavorato per loro per 10 anni», racconta Hnin Hnin, operaia tessile migrante che realizzava abiti per i marchi di Otto presso la Royal Knitting Factory. «Abbiamo subito un danno enorme e ci sentiamo senza speranza. Non chiediamo molto, solo di ricevere il compenso che ci spetta».

A quasi cinque anni di distanza, e nonostante una sentenza delle autorità thailandesi a loro favore, le 209 lavoratrici stanno ancora aspettando più di 1.000.000 di dollari tra salari arretrati e liquidazioni.

«Quando la fabbrica ha chiuso, la nostra vita è crollata. Da quando abbiamo perso il lavoro, io e mio marito mangiamo due volte al giorno», dice Yee, un’altra ex operaia tessile.

Otto non interviene

Di fronte al rifiuto della Royal Knitting Factory di pagare e all’assenza di strumenti per far rispettare la sentenza, i lavoratori si sono rivolti al Gruppo Otto in cerca di supporto. L’azienda tedesca, a conduzione familiare, si presenta come un leader nella due diligence sui diritti umani, affermando sul proprio sito di «assumersi la responsabilità lungo l’intera catena di fornitura» (fonte). Tuttavia, il mancato intervento nel caso dei lavoratori di Royal Knitting smentisce queste dichiarazioni, rivelandole per quello che sembrano: semplice retorica.

Contraddizioni e testimonianze

La Clean Clothes Campaign ha raccolto numerose testimonianze coerenti dei lavoratori, secondo cui gli abiti per Otto venivano prodotti nella Royal Knitting Factory. Otto, però, nega questa versione e sostiene che la collaborazione con la fabbrica sia terminata nel 2017, con la produzione successivamente spostata in un’altra fabbrica di proprietà della sua società madre, Yamaken Apparel.

Ma le prove raccontano una storia diversa. Le ex lavoratrici di Royal Knitting hanno fornito liste di imballaggio e istruzioni utilizzate per produrre capi per Otto anche dopo il 2017, documenti che corrispondono agli ordini di spedizione in nostro possesso. Inoltre, hanno mostrato etichette di marchi Otto – come Rick Cardona e Ambria – che cucivano sugli indumenti prima del loro licenziamento nel 2020.

Una vita sempre più difficile

«Mia figlia prima beveva latte spesso, ora ne ha a malapena», racconta Yee. Da quando ha perso il lavoro in fabbrica, lei e il marito si sono indebitati nel tentativo di pagare affitto, bollette e beni di prima necessità. Come lei, un terzo delle lavoratrici licenziate ha figli a carico e sta lottando per sopravvivere.

Da anni, la Clean Clothes Campaign chiede a Otto di usare la sua influenza per convincere il suo fornitore a rispettare la sentenza del tribunale thailandese e a pagare le lavoratrici. Se ciò non fosse possibile, chiediamo a Otto di assumersi la responsabilità e garantire il pagamento degli stipendi e delle indennità di licenziamento che Royal Knitting si è rifiutata di versare.

Invece di prendere in mano la situazione, Otto ha deciso di minacciarci con azioni legali. Dopo che CCC Germania ha pubblicato informazioni su questo caso nel maggio dello scorso anno, Otto ha inviato rapidamente lettere di diffida, accusando la campagna di diffamazione. Questa mossa ha avuto un effetto intimidatorio sulle lavoratrici e le organizzazioni di supporto, impedendo loro di denunciare pubblicamente la situazione.

La denuncia di Clean Clothes Campaign

Ora, la Clean Clothes Campaign sta preparando una denuncia al meccanismo di due diligence dell'Ufficio Federale per l'Economia e il Controllo delle Esportazioni (BAFA), sostenendo che Otto non ha ancora adottato misure per rimediare alle violazioni subite dai lavoratori, dimostrando una mancata conformità agli obblighi previsti dalla Legge tedesca sulla catena di approvvigionamento.

Il webinar del 19 febbraio

Il 19 febbraio, la Clean Clothes Campaign terrà un webinar durante il quale i partecipanti potranno ascoltare le testimonianze delle lavoratrici coinvolte e della MAP Foundation, l’organizzazione partner in Thailandia che sta guidando il caso. Registrati per il webinar qui.

Per maggiori Informazioni

Per ulteriori informazioni, comprese le testimonianze delle lavoratrici, contattare Priscilla Dudhia via email a priscilla@cleanclothes.org o al numero +44 7869 147 248.

I nomi delle lavoratrici migranti in questo comunicato sono stati cambiati per la loro sicurezza.


caso montblanc

Caso Montblanc, il reportage di 20 Minuten racconta le condizioni di sfruttamento dei lavoratori

Prato è il più grande polo tessile d’Europa. Tuttavia, quasi nessun grande marchio possiede più fabbriche proprie. Anche Montblanc produce nel distretto di Prato. Il team di 20 Minuten "Reporter!n" è andato a vedere da vicino la situazione e ha realizzato un video reportage sulle condizioni di sfruttamento dei lavoratori della filiera del noto marchio del lusso.

Montblanc​ -  parte del gruppo Richemont, che controlla anche Cartier e Van Cleef e ha sede nei pressi di Ginevra​ - pubblicizza le sue borse in pelle come frutto di una «maestria artigianale toscana». Molti modelli vengono venduti online a più di mille euro.

caso montblanc
Immagine tratta dal video reportage di 20 Minuten

Alcuni operai della città toscana di Prato hanno denunciato gravi condizioni di sfruttamento da parte del fornitore Z Production.

«Lavoravamo sei giorni alla settimana per dodici ore consecutive e venivamo pagati solo due o tre euro all’ora», racconta Zain, 23 anni, originario del Pakistan, che si occupava del controllo qualità dei prodotti in pelle. «Ogni giorno producevamo tra 700 e 1000 borse», spiega. «Non avevamo diritti, ferie né la possibilità di metterci in malattia. Era come essere schiavi».

Secondo la sindacalista Francesca Ciuffi, non si tratta di un caso isolato. Situazioni simili a quelle di Z Production si trovano in molte altre aziende del distretto tessile di Prato. «Hanno creato una piccola Cina o un piccolo Bangladesh», denuncia.

20 Minuten ha chiesto un’intervista alla fabbrica coinvolta e ha contattato Montblanc e Richemont per ottenere un commento sulle accuse, ma nessuno ha risposto. In autunno, Montblanc aveva dichiarato all’agenzia Reuters di aver rescisso il contratto con il fornitore, poiché le condizioni di lavoro non rispettavano gli standard etici del marchio.

Wang Li Ping, imprenditore tessile a Prato e membro del direttivo locale dell’associazione delle PMI CNA, conosce il caso ma sottolinea: «Si ipotizza che il proprietario della fabbrica non conoscesse le leggi italiane». Per questo motivo, CNA offre corsi per gli imprenditori affinché apprendano la normativa sul lavoro. Tuttavia, aggiunge: «Solo poche aziende cinesi fanno parte di un’associazione italiana».

Grazie al supporto del sindacato di Francesca Ciuffi, diversi operai di ZProduction erano riusciti a ottenere nuovi contratti con condizioni migliori. Poco dopo, però, Zain e altri colleghi sono stati licenziati. Ora stanno cercando di far valere i propri diritti in tribunale con l’aiuto del sindacato, ma non è chiaro se avranno successo.

Prato è il più grande polo tessile d’Europa. Tuttavia, quasi nessun grande marchio possiede più fabbriche proprie.

L’industria tessile domina la città, come ha potuto constatare il team di 20 Minuten. Non è difficile trovare piccole officine nascoste nei cortili. Dall’esterno, nessun segnale le indica, ma il rumore incessante delle macchine da cucire tradisce la loro presenza. A volte, porte o finestre aperte permettono di dare un’occhiata all’interno, dove si lavora fino a tarda sera. In un capannone lungo una strada principale, ad esempio, alle 21:30 ci sono ancora molti operai intenti a cucire.

Vedendo le immagini, Deborah Lucchetti, coordinatrice nazionale di Campagna Abiti Puliti, non si sorprende: è molto probabile che si tratti di quei piccoli subappaltatori dove spesso le condizioni di lavoro sono di sfruttamento. A occuparsi dei controlli dovrebbe essere l’ispettorato del lavoro locale, ma è sottofinanziato e con poco personale. Il team di 20 Minuten ha provato a contattarlo via e-mail e telefono, ma non ha ricevuto alcuna risposta.


daspo antisindacali

Firma l'appello per il rispetto della libertà di associazione e dimostrazione

AGGIORNAMENTO DEL 30/01/2025
  1. Montblanc ha ritirato il ricorso che aveva presentato al Tribunale Civile di Firenze per richiedergli di emettere nei confronti del sindacato Sudd Cobas un “daspo antisindacale”: il divieto a manifestare nel raggio di 500 metri dalla propria boutique.
  2. La notizia è arrivata a poche ore dalla pubblicazione dell'Appello Internazionale a difesa del diritto di sciopero. Un primo risultato importante della campagna di solidarietà sostenuta già da tantissime organizzazioni, reti e persone.
  3. Davanti a noi abbiamo ancora due obiettivi fondamentali: Montblanc continua a rifiutarsi di sedere a un tavolo negoziale con chi rappresenta i lavoratori della sua filiera per trovare una soluzione per operai rimasti senza lavoro, e non ha ancora ritirato la querela penale nei confronti del sindacato.


Leggi di seguito l'appello e sostienilo

In Italia lavoratori delle fabbriche cinesi di Prato (Toscana), hanno lottato con successo per ottenere orari di lavoro equi.

Poco dopo la loro vittoria, il gruppo svizzero di moda Richemont, produttore di borse di lusso nella regione, ha trasferito la produzione e i lavoratori hanno perso il lavoro.

In risposta i lavoratori, insieme al sindacato dei SUDD Cobas, hanno intrapreso diverse azioni attirando l’attenzione di molti media. Ora il sindacato affronta un’ingiunzione da parte di Montblanc (gruppo Richemont), cercando di impedire ai SUDD Cobas di intraprendere ulteriori azioni davanti ai negozi Montblanc.

Questo rappresenta un attacco senza precedenti ai principi di libertà di associazione e di manifestazione. Esprimiamo la nostra solidarietà al sindacato SUDD Cobas e sosteniamo questo appello.

daspo antisindacali

Appello alla solidarietà internazionale

Scioperare è un diritto.
No ai daspo antisindacali. No al bavaglio per i lavoratori della filiera Montblanc

Il settore del lusso è sempre più spesso sotto i riflettori per le numerose violazioni dei diritti umani che caratterizzano la filiera. Il cosiddetto made in Italy è un concetto solo teorico che spesso nasconde produzioni ottenute in Paesi dove non sono rispettati i diritti fondamentali oppure in Italia, dove nelle pieghe oscure del sub-appalto lavoratori spesso immigrati lavorano senza diritti e per salari da fame.

Il caso dei lavoratori della filiera Montblanc licenziati dopo essersi iscritti al sindacato è un esempio plastico.

Vogliamo esprimere la nostra preoccupazione e indignazione in merito al daspo antisindacale richiesto dal brand Montblanc nei confronti del sindacato SUDD Cobas. Montblanc chiede al Tribunale Civile di vietare al sindacato manifestazioni nel raggio di 500 metri dalla boutique di Firenze, pena multe da 5.000 euro l’una.

L'idea stessa di impedire ogni forma di protesta operaia nel raggio di 500 metri dalle vetrine del brand non ha precedenti e minaccia alle fondamenta la libertà di manifestazione e le libertà sindacali. Si tratterebbe di un divieto senza precedenti nella storia della Repubblica italiana, che messo accanto al DDL 1660 in discussione in parlamento, con cui il governo Meloni vuole rendere reato i picchetti davanti ai cancelli delle aziende, compone un quadro gravissimo e preoccupante.

Con questo appello di solidarietà chiediamo alla Montblanc di rispettare la libertà di associazione e di manifestazione e di abbandonare immediatamente tutte le azioni legali contro il sindacato SUDD Cobas.

Al sindacato SUDD Cobas e a lavoratori e lavoratrici della Z Production e della Eurotaglio, rispettivamente fornitore e sub-fornitore per il brand Montblanc, va la nostra solidarietà. La loro lotta ha avuto il merito di fare emergere una realtà inaccettabile: turni massacranti tra le 12 e le 14 ore per 6 giorni alla settimana, e salari che non superavano i tre euro l’ora, per produrre borse vendute a migliaia di euro l'una. Per loro, dopo aver ottenuto l'applicazione del CCNL e turni di otto ore per cinque giorni la settimana, è arrivata la cancellazione delle commesse e il conseguente licenziamento.

Presumibilmente la produzione è stata delocalizzata, cosa che il sindacato ha denunciato fin dal primo momento e che è stata documentata dal video-docInside Italy's Designer Sweatshop prodotto da Al Jazeera. Si presume delocalizzazione in loco: un trasferimento di commesse a pochi chilometri che però ha riportato le stesse condizioni di sfruttamento contro cui il sindacato si era battuto alla Z Production e alla Eurotaglio.

Il fatto stesso che Montblanc richieda una tale misura antisindacale con l'azione ingiuntiva rappresenta un fatto preoccupante per lo stato di salute della democrazia in Italia, ed è grave di per sé: non possiamo rimanere in silenzio mentre aziende multinazionali e fondi finanziari tentano di intervenire sempre più direttamente nella vita politica e sociale, imponendo provvedimenti, scelte e direzioni per affermare interessi privati contro l'interesse pubblico e collettivo, e contro la democrazia stessa.

L'idea di città e spazio pubblico proposta da Montblanc e Richemont (il fondo finanziario plurimiliardario proprietario del brand) deve essere respinta: non possiamo accettare un’idea di città in cui agli operai sia proibito manifestare lì dove le merci che producono sono messe in vetrina, un’idea di città in cui una multinazionale possa ottenere la limitazione della libertà di espressione di pezzi della società considerati scomodi, perché vogliono attraversare quegli spazi pubblici con un fine non improntato al consumo e all’interesse privato.

Per aderire all’appello scrivi a montblancappeal@gmail.com indicando nome, cognome, organizzazione o adesione individuale.

Primi firmatari

ITALIA
  • ADL Cobas
  • Altraqualità
  • Associazione 11 Agosto
  • Associazione Via Milano 59, Brescia
  • Campagna Abiti Puliti
  • CAU - Collettivi Autorganizzati Universitari
  • Centro Nuovo Modello di Sviluppo
  • Collettivo di Fabbrica ex-GKN
  • Collettivo K1, Liceo Machiavelli Capponi di Firenze
  • CUB Firenze
  • CSA nEXt Emerson, Firenze
  • Ecologia Politica Network
  • Ex Opg "Je so' pazzo"
  • Equo Garantito
  • FAIR
  • Firenze Città Aperta
  • Fondazione Finanza Etica
  • FuoriBinario, giornale dei senza dimora
  • Laboratorio politico per Unaltracittà, Firenze
  • Movimento Consumatori
  • Movimento Migranti e Rifugiati Napoli
  • Non Una di Meno, Empoli
  • OEW Organizzazione per Un mondo solidale
  • Potere al Popolo
  • RSU SialCobas Piaggio e Ceva
  • Settembre Rosso
  • Studenti Autorganizzati Campani
  • Società Operaia di Mutuo Soccorso Insorgiamo
  • Un Tetto sulla Testa APS
INDIVIDUI
  • Marco Antonelli, Scuola Normale Superiore
  • Viviana Asara, Università di Ferrara
  • Simona Baldanzi, scrittrice
  • Antonella Bundu, Sinistra Progetto Comune
  • Stefania Barca, Universita de de Santiago de Compostela
  • Filippo Barbera, Università di Torino
  • Maura Benegiamo, Università di Pisa
  • Andrea Bottalico, Università degli studi di Napoli Federico II
  • Stefano Boni, docente universitario
  • Andrea Bottalico, Università degli studi di Napoli Federico II
  • Fabio Bracci, sociologo
  • Massimo Bressan, antropologo IRIS Ricerche
  • Massimo Carlotto, scrittore
  • Antonella Ceccagno, Università di Bologna
  • Giuliana Commisso, Università degli Studi della Calabria
  • Stefano Gallo, CNR- Istituto di Studi sul Mediterraneo
  • Roberto Budini Gattai, architetto
  • Paola Imperatore, Università di Pisa
  • Emanuele Leonardi, Università di Bologna
  • Cristiano Lucchi, direttore Fuori Binario
  • Vincenzo Maccarrone, Scuola Normale Superiore
  • Tomaso Montanari, Rettore Università per Stranieri di Siena
  • Sandro Mezzadra, Università di Bologna
  • Annalisa Murgia, Università di Milano
  • Dmitrij Palagi, consigliere comunale Firenze
  • David Parri, scrittore
  • Michele Passione, avvocato
  • Domenico Perrotta, Università di Bergamo
  • Matteo Puttilli, docente universitario
  • Christian Raimo, scrittore e insegnante
  • Marco Ravasio, Università degli Studi di Padova e Ca' Foscari Venezia
  • Vincenzo Russo, prete
  • Devi Sacchetto, sociologo
  • Virginia Salerno, Università degli Studi di Padova e Ca' Foscari di Venezia
  • Helmut Szeliga, sacerdote di Prato
  • Massimo Torelli, Comitato Salviamo Firenze
  • Sabrina Tosi Cambini, Università di Parma
  • Lorenzo Zamponi, Scuola Normale Superiore

 

INTERNAZIONALE
  • ActionAid, France
  • Asia Floor Wage Alliance (AFWA), Global
  • Association for action against violence and trafficking in human beings Open Gate, North Macedonia
  • Association for social, cultural and creative development ZORA, Bosnia and Herzegovina
  • Center for Policies, Initiatives and Research ”Platforma”, Moldova
  • Centre for the Politics of Emancipation, Serbia
  • Clean Clothes Campaign International Office
  • Collectif Ethique sur l’Etiquette, France
  • Labour Behind The Label, United Kingdom
  • Maquila Solidarity Network, Canada
  • National Trade Union Federation, Pakistan
  • NaZemi, Czechia
  • Novi Sindikat, Croatia
  • ROZA Association for Women’s Labor Rights, Serbia
  • Schone Kleren Campagne, the Netherlands
  • Temiz Giysi Kampanyası, Turkey
  • War on Wanted, United Kingdom

[L'elenco aggiornato dei firmatari è consultabile sul sito dei SUDD Cobas].


sfashion weekend

Sfashion Weekend - Ripensiamo la moda per ricucire il futuro

A Milano il festival per parlare di transizione giusta nella moda​

La moda come la conosciamo oggi è insostenibile: si produce e si consuma in eccesso, a ritmi troppo elevati, con conseguenze umane e ambientali intollerabili. Per riflettere su questa crisi sistemica, dal 21 al 23 febbraio 2025 si terrà a Milano la prima edizione dello Sfashion Weekend, il festival sulla transizione giusta nella moda, che ribalta la narrazione mainstream e fa luce sull'impatto del tessile sulle persone, sul pianeta e sulle nostre comunità.

Organizzato da Fair e dalla Campagna Abiti Puliti, in collaborazione con numerose organizzazioni della società civile, l’evento ad accesso libero è coprodotto e ospitato dal centro culturale mosso, non a caso pochi giorni prima della Milano Fashion Week. L'obiettivo è offrire un momento di confronto plurale e costruttivo per attivare reti e strategie di trasformazione collettiva, superando retoriche di facciata e false promesse di sostenibilità.

Una mostra, talk, spettacoli e momenti di scambio coinvolgeranno attivistə, espertə, lavoratrici, operatorə del settore, ma anche persone che vogliono cambiare le proprie scelte di consumo.

Al cuore del programma, i quattro dibattiti che approfondiscono argomenti cruciali come lavoro e diritti, greenwashing e paradigmi economici, mettendo al centro una visione di moda compatibile con i limiti del pianeta e con la giustizia sociale.


SCARICA IL PROGRAMMA COMPLETO

Sfashion Weekend - Mostra, talk, performance e swap party

MOSTRA - SALA CAPRIATE

giusta transizione nella moda

Handmade: le lavoratrici della moda

Per tutti i tre giorni del festival sarà allestita Handmade: le lavoratrici della moda, una mostra che offre al visitatorə l'opportunità di scoprire le storie delle persone che, dietro ai vestiti che indossiamo ogni giorno, vivono condizioni spesso invisibili e drammatiche.

L'esposizione, prodotta dalla ong olandese SCHONE KLEREN CAMPAGNE (SKC) (membro di Clean Clothes Campaign) mette in luce il lavoro di sette giovani sarte provenienti da Indonesia e Bangladesh, che raccontano le loro esperienze di vita dentro e fuori dalle fabbriche di abbigliamento.

Ogni pezzo di vestito, infatti, passa attraverso circa 172 mani prima di arrivare nei nostri negozi. Attraverso le loro storie, il pubblico avrà l'opportunità di scoprire le storie delle persone, troppo spesso invisibili, che sono dietro ai vestiti che indossiamo ogni giorno, esplorando le loro sfide, lotte e speranze. La mostra invita anche a riflettere su cosa possiamo fare per rendere il settore più giusto e sostenibile, offrendo spunti di riflessione per un cambiamento positivo.

Venerdì 21 febbraio, dalle 18 alle 22
Sabato 22 e domenica 23 febbraio, dalle 11 alle 20

 

TALK - BAR PORTIERATO

Venerdì 21 febbraio

* Alle 19.00
MODA E NARRAZIONI
Siamo allo Sfashion: come vestirsi in un pianeta in crisi?
  • Deborah Lucchetti, Campagna Abiti Puliti
  • Paolo Storari, PM Procura di Milano
  • Salvatore Marra, CGIL Internazionale
  • Nogaye Ndiaye, scrittrice, divulgatrice e attivista
  • Roberto Cruciani, attivista e divulgatore
    Marica di Pierri, portavoce A Sud

Sabato 22 febbraio

* Alle 16.30
MODA DAL BASSO
Solidarietà e produzioni alternative: trasformare la lotta per il lavoro in lotta per la felicità
  • Stefania Prestopino e Elena Castano, Patrizia Bondanelli, Unicheunite
  • David Cambioli, Altraqualità
    Modera: Laila Bonazzi, Lifegate
* Alle 19.00
MODA E ATTIVISMO
Intersezioni e alleanze per una transizione giusta
  • Diletta Bellotti, attivista e ricercatrice
  • Simona Bussi, Ultima Generazione
  • Yuvi, Bruciamo Tutto
  • Priscilla Robledo, Campagna Abiti Puliti
    Modera: Claudia Vago, Valori

Domenica 23 febbraio

* Alle 18.00
PRESENTAZIONE DEL LIBRO
L'Odyssée d’Abdoul
  • con l'autrice Audrey Millet
  • Francesca Ciuffi, SUDD Cobas
    Modera: Duccio Facchini, Altreconomia 

PERFORMANCE - SALA CONCERTI

Noi come l’altrə: apprendere dai gesti

Vivien Tauchmann

Di e con Vivien Tauchmann

Per la prima volta a Milano, la performance collettiva Noi come l’altrə: apprendere dai gesti (Self-As-Other-Training: Textiles) di Vivien Tauchmann. Uno spettacolo che ricrea le attività quotidiane di milioni di lavoratrici della filiera tessile, usando il corpo per far emergere le dinamiche di oppressione legate al capitalismo imperialista. Attraverso il coinvolgimento esperienziale e corporeo, lə partecipanti sono portatə a riflettere in modo critico sulle relazioni di potere e sulle diseguaglianze nell’industria della moda. Un invito all’auto-riflessione sui privilegi personali, suscitare un senso di solidarietà e proporre nuovi modi di agire collettivamente. La performance si ripete in 4 appuntamenti. Ingresso libero, capienza limitata (massimo 30 posti per slot), prenotazione consigliata

Sabato 22 febbraio (12.00 e 15.00)
Domenica 23 febbraio (16.00 e 17.00)


Riserva il tuo posto

Siete un gruppo di 10 o più persone? Inviate un'e-mail a info@abitipuliti.org.

Giralamoda - Teatro, danza, cartomanzia

Giralamoda

Una produzione di Trama Plaza

Giralamoda è un’opera performativa multidisciplinare che parla di moda sostenibile. Un evento di divulgazione che utilizza l’arte e proposte culturali per sensibilizzare tutti gli attori coinvolti nella filiera: cittadini, imprese, finanziatori ed enti pubblici. Teatro, danza, musica e linguaggio sono le forme artistiche di questo show, che vede alternarsi sullo stesso palco attori e danzatori professionisti, e un’esperta di moda sostenibile in veste di cartomante. Un viaggio all’interno di sette percorsi tematici diversi, che hanno  come obiettivo quello di creare maggiore consapevolezza sul valore di una produzione etica e circolare e incentivare il pensiero critico sulla relazione tra consumatorə e prodotto, promuovere l’inclusione sociale e il rispetto delle risorse naturali. Ingresso libero, capienza limitata (massimo 60 posti), prenotazione consigliata.

Sabato 22 febbraio (17.45)


Riserva il tuo posto

SWAP PARTY - SALA CONCERTI

Quanti capi hai nell’armadio che non indossi più? Forse mai messi, oppure usati ma ancora in ottime condizioni. Un’idea per dar loro una nuova vita è partecipare a uno swap party per liberarti di ciò che non ti serve e trovare qualcosa che ti piaccia davvero e di cui hai bisogno. 

Lo Sfashion Weekend sarà l’occasione perfetta per partecipare all’evento di scambio vestiti organizzato da Gabriella Sisinni e Chiara Pieri, fondatrici nel 2023 di Declout, una giovane startup nata con l obiettivo di promuovere il riutilizzo responsabile del guardaroba. Presto maggiori informazioni.

Evento a ingresso libero su prenotazione.

Domenica 23 febbraio dalle 19.30 alle 22.00

 

Riserva il tuo posto

INFO POINT

All'interno degli spazi di mosso, sarà allestito un info point dove potersi registrare e ricevere il gadget dello Sfashion Weekend. Durante i tre giorni di festival sarà allestito il banchetto con i prodotti realizzati dall'associazione Unicheunite, delle lavoratrici di La Perla, per sostenerle nel proseguire la loro vertenza. Sarà inoltre possibile conoscere meglio l'app Equa, la nuova guida digitale al consumo responsabile realizzata da Osservatorio sui Diritti Umani ETS.

 

Sfashion Weekend è una delle azioni di Fashioning a Just Transition
Progetto

transizione giusta nella moda

E con il patrocinio del Comune di Milano

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Sfashion Lab - La moda cambia se cambiamo noi

Scuola di attivismo per giovani under 30

Sfashion Lab è una scuola di attivismo ideata per stimolare il cambiamento nell’industria della moda, che oggi è uno dei settori più inquinanti e dove lo sfruttamento di lavoratrici e lavoratori è sistematico a ogni livello della filiera.

Attraverso il contributo di espertə in diversi ambiti, offre strumenti teorici e pratici in chiave intersezionale per approfondire la consapevolezza sull’impatto socio-ambientale della moda e degli attuali modelli di consumo e per attivarsi concretamente per la transizione giusta.

Lo Sfashion Lab è anche uno spazio dedicato al confronto, all’apprendimento e all’elaborazione collettiva, per favorire la creazione di connessioni e comunità.

La Campagna Abiti Puliti si impegna per un cambiamento radicale nel settore della moda, promuovendo modelli di produzione e di consumo che rispettino i diritti umani e l’ambiente perché non può esistere una moda sostenibile su un Pianeta in crisi, ed è per questo che serve l’impegno di tuttə per accelerare una riconversione ecologica che non lasci indietro nessunə.

Lo Sfashion Lab - che rientra nel più ampio progetto Just Fashion - si inserisce in questo orizzonte, offrendo l’opportunità a 30 giovani di partecipare a una serie di workshop formativi per contribuire attivamente a questa transizione giusta.

Il percorso si snoderà su tre weekend del 2025:

  • 8-9 marzo
  • 12-13 aprile
  • 17-18 maggio

Le attività si svolgeranno dalle 10:00 alle 18:00 per un totale di circa 50 ore che alterneranno presentazioni e keynote, laboratori, momenti interattivi e di azione.

La sede degli incontri sarà mosso (via Angelo Mosso 3, Milano).

Hai tempo fino al 9 febbraio 2025 per candidarti, compilando questo form. Il 14 febbraio comunicheremo gli esiti, sia alle persone selezionate che a quelle non selezionate, via email.


SCARICA IL PROGRAMMA


SCOPRI COME CANDIDARTI

scuola di attivismo

Sabato 8 marzo

PIACERE DI CONOSCERCI

9.45 - 10.00 Accoglienza
10.00 - 11.00

Presentazione della CAP e delle campagne principali

Presentazione del programma complessivo del percorso

Presentazione Youth Advisory Board

11.15 - 13.15

Conosciamoci - attività di gruppo di CASAPACE MILANO

13.30 - 15.00 Pausa pranzo
15.00 - 18.00

Il "poliziotto" nella testa - attività di gruppo a cura di CASAPACE MILANO

Quali sono le oppressioni e i blocchi interni che ci impediscono di attivarci per la transizione giusta?

La sera tuttə in corteo!
Domenica 9 marzo

TRANSIZIONE GIUSTA

9.30 - 10.00 Accoglienza

Il cerchio delle domande e delle risonanze - attività di gruppo di CASAPACE MILANO

10.00 - 11.00

Moda e ambiente: i nodi aperti - a cura di CAMPAGNA ABITI PULITI

11.15 - 13.00 

Transizione giusta ed ecologia politica - a cura della ricercatrice PAOLA IMPERATORE (Università di Pisa)

13.00 - 14.30 Pausa pranzo
14.30 - 15.15

Fabbricare con il corpo - attività di gruppo a cura di CASAPACE MILANO 

15.30 - 17.45 

Non prendere quell'aereo - laboratorio sulla campagna Stop Moda Volante a cura di PUBLIC EYE e FONDAZIONE FINANZA ETICA

Lə partecipanti lavorano in gruppi alla campagna, immaginando strategie, contenuti, azioni ricercando nuovi target.

18.00 - 18.30

Debrief del weekend

Sabato 12 aprile

ATTIVIAMOCI

9.30 - 10.00

Il cerchio delle domande e delle risonanze - attività di gruppo di CASAPACE MILANO

10.00 - 11.00

Come fare pressione sui brand - a cura di CAMPAGNA ABITI PULITI

11.15 - 13.00

Dissenso e protesta oggi - il DDL Sicurezza, implicazioni e rischi - a cura dell'avvocato GILBERTO PAGANI

13.00 - 14.30 Pausa pranzo
14.30 - 18.00 

Costruire azioni di dissenso - laboratorio a cura di ULTIMA GENERAZIONE e CASAPACE MILANO

Dalle 19.30 [evento aperto al pubblico]

Presentazione del libro PFAS. Gli inquinanti eterni e invisibili nell'acqua. Storie di diritti negati e cittadinanza attiva di GIUSEPPE UNGHERESE (Greenpeace)

A seguire

Proiezione del film Le ali non sono in vendita con la partecipazione del regista PAOLO CAMPANA

Domenica 13 aprile

PARLIAMO DI LAVORO

9.00 - 9.30

Il cerchio delle domande e delle risonanze - attività di gruppo di CASAPACE MILANO

9.30 - 10.00

Moda e diritti umani e del lavoro - a cura di CAP

10.00 - 10.30

Organizzare gli invisibili - Con SARAH CAUDIERO di SUDD COBAS PRATO E FIRENZE

10.45 - 12.00

Aware activism - laboratorio a cura di CASAPACE MILANO
Come mantenere efficacia, motivazione e salute mentale nei gruppi e nelle reti di attivistə e come assicurare spazi safe in assemblea

12.00 - 13.00

Cronache dal retail. Vita e lavoro di chi vende fast fashion - con la sociologa ANNALISA DORDONI (Università Milano Bicocca) 

13.00 - 14.30 Pausa pranzo
14.30 - 17.30

Make Up antisorveglianza: c’è sia il trucco sia l’inganno - laboratorio a cura del COLLETTIVA AMBROSIA

17.30 - 18.00

Debrief del weekend

Sabato 17 maggio

DAL DIRE AL FARE

9.30 - 10.00

Il cerchio delle domande e delle risonanze - attività di gruppo di CASAPACE MILANO

10.00 alle 11.00

Come si fa (e come si finanzia) il lobbying civico - a cura di CAMPAGNA ABITI PULITI e MOVIMENTO CONSUMATORI

11.30 - 13.00

Clima e lavoro: la stessa lotta - con il COLLETTIVO DI FABBRICA EX GKN e il giornalista LORENZO TECLEME

13.00 - 14.30 Pausa pranzo
14.30 - 18.00 

Scriviamo insieme il Manifesto - attività di gruppo a cura di CASAPACE MILANO

Domenica 18 maggio

AVANTI TUTTA!

9.30 - 10.00

Il cerchio delle domande e delle risonanze - attività di gruppo di CASAPACE MILANO

Mattino
  • Restituzione collettiva
  • Meta-riflessione: come esercitare ruoli e potere all’interno di gruppi e movimenti politici 
  • Spazio call to action di ingaggio della community
  • Spazio Manifesto
Pomeriggio
  • Ridiscussione dell’azione diretta immaginata dal sottogruppo
  • Spazio di programmazione di future azioni insieme
  • Elezione o identificazione della YAB person (insediamento settembre 2025)

Sfashion Lab è una delle azioni di Fashioning a Just Transition

transizione giusta nella moda

Progetto realizzato grazie ai fondi otto per mille della Chiesa Evangelica Luterana in Italia - CELI

CELI - Logo 8x1000 Main pos


Fast fashion Inditex

Inditex dice di essere sostenibile, ma lo è davvero?

Un nuovo reportage di Context, il canale video della Thomson Reuters Foundation, rivela il vero volto della sostenibilità del colosso spagnolo della fast fashion Inditex (marchi Zara, Pull&Bear, Massimo Dutti, Bershka, Stradivarius e Oysho), messa a rischio da strategie commerciali che vanno nella direzione opposta.

Fast fashion Inditex

Il vero costo della fast fashion Inditex

L’utilizzo eccessivo e in aumento di trasporti aerei per alimentare il mercato tossico della fast fashion non solo contribuisce ad infiammare la crisi climatica ma aumenta sensibilmente la pressione sulle lavoratrici, costrette a lavorare a ritmi insostenibili per paghe da fame e sotto la costante minaccia di molestie. Un circuito vizioso che collega i danni ambientali e sul clima allo sfruttamento del lavoro imposto dall’accelerazione dei tempi di produzione.

Una moda sempre più veloce e a basso costo, esattamente il contrario di quanto viene sbandierato nei report di sostenibilità, come spiega il giornalista Albert Han nel nuovo video documentario sulla moda volante.

Campagna moda volante

Frutto di un lungo e straordinario lavoro di indagine, il reportage si basa sulla ricerca di Public Eye pubblicata in italiano da Campagna Abiti da cui è partita una campagna di pressione sul marchio spagnolo perché ponga fine all’uso irresponsabile del trasporto aereo, la cui impronta è circa 35 volte superiore a quella del trasporto via mare.

Azionariato critico

La voce delle attivistə della Clean Clothes Campaign è arrivata fino alle orecchie degli azionisti, quando lo scorso anno Fondazione Finanza Etica, socia fondatrice della rete di azionisti attivi Shareholders for Change (SfC) e membro della Cəmpagna Abiti Puliti, è intervenuta per la prima volta come azionista critica all’assemblea di Inditex a La Coruña, chiedendo un piano per abbattere le emissioni di gas serra generate dagli aerei,

Basta moda aerea

La Campagna Abiti Puliti continuerà a fare pressione su Inditex perchè ponga fine alla pratica insostenibile della moda volante, che uccide il clima e il pianeta mentre esaspera lo sfruttamento delle lavoratrici costrette a ritmi insostenibili. Continuate a seguirci e tenetevi prontə a sostenere le nostre prossime iniziative verso una giusta transizione nella moda.

 


sostenibilità

Campagna Abiti Puliti: i piani della nuova Commissione rischiano di indebolire le tutele sociali e ambientali

La Campagna Abiti Puliti (CAP) insieme al network della Clean Clothes Campaign esprime viva preoccupazione per l'annuncio della Commissione europea di voler semplificare le norme approvate di recente in materia di sostenibilità delle imprese, in particolare la Direttiva sulla rendicontazione della sostenibilità delle imprese (CSRD) e la Direttiva sulla due diligence aziendale di sostenibilità (CS3D), ed esorta la Presidente della Commissione Ursula von der Leyen e il Collegio dei Commissari a non retrocedere su una legislazione così importante.

Nella lettera di missione firmata dalla Presidente Ursula Von der Leyen, il Commissario alla Giustizia McGrath viene incaricato di «garantire che le norme esistenti siano adatte allo scopo e di concentrarsi sulla riduzione degli oneri amministrativi e sulla semplificazione della legislazione. Dovrà contribuire a ridurre gli obblighi di rendicontazione di almeno il 25% - e per le PMI di almeno il 35%».

La grande attenzione prestata alle norme sulla sostenibilità arriva all'indomani della relazione di Mario Draghi sulla competitività nell'Unione europea (UE), a cui la Presidente Von der Leyen ha fatto riferimento nelle sue osservazioni.

 

sostenibilità
Manifestazione della Clean Clothes Campaign e dei suoi alleati davanti al Parlamento Europeo durante le votazioni plenarie sulla direttiva per la due diligence aziendale di sostenibilità (CSDDD), nell'11° anniversario del crollo del Rana Plaza (Foto: Ben Lacey)

 

Analisi critica della relazione Draghi

Eppure, nella sua relazione Draghi sembra indicare, tra l'altro, regole non ancora applicate per spiegare l'attuale lentezza dell'economia dell'UE, e fa solo un riferimento superficiale al quadro di due diligence. Inoltre, le critiche di Draghi si inseriscono in un contesto in cui nelle imprese gli investimenti sono rimasti bassi, mentre i profitti hanno continuato ad aumentare, convogliati nelle tasche degli azionisti anziché investiti nella capacità produttiva dell'Europa. In breve, l'analisi di Draghi e la sua traduzione in azioni politiche da parte dell'attuale Commissione sembrano essere usate come pretesto per sacrificare i diritti umani e del lavoro e la sostenibilità ambientale in nome dei profitti aziendali. La diagnosi di Draghi sulla malattia che attraversa l'economia dell'UE è fondata, ma non è la medicina che propone che potrà curarla.

Sostenibilità e diritti a rischio

La semplificazione non può e non deve essere fine a se stessa, ma deve servire all'obiettivo del Green Deal di realizzare un'economia giusta, equa e sostenibile. Gli obblighi di due diligence aziendale e di rendicontazione della sostenibilità esistono al fine di garantire il rispetto dei diritti umani e dell'ambiente da parte delle imprese, che dovrebbe rimanere il principio guida delle azioni del Commissario. L'attenzione della Commissione dovrebbe spostarsi dalla semplificazione della regolamentazione allo stimolo degli investimenti in beni pubblici, compresa la protezione sociale e la trasformazione dell'economia dell'UE in un'economia sostenibile per i lavoratori e il pianeta.

Competitività vs tutele

Tuttavia, la rincorsa sfrenata alla competitività, motore del nuovo programma di governance 2024-2029 della Commissione, rischia di perpetuare una svalutazione della manodopera e i materiali a basso costo e di mettere a repentaglio i mezzi di sussistenza dei lavoratori e delle lavoratrici nell'UE e all'estero. Se la massimizzazione dei profitti continuerà a prevalere sugli obblighi di tutela sociale e ambientale, la competitività continuerà a premiare esclusivamente i detentori di capitali, impoverendo la classe lavoratrice e i consumatori e indebolendo le nostre società nel loro complesso. Non a caso, ma in modo allarmante, Draghi e Von Der Leyen sembrano riciclare le argomentazioni avanzate dalle lobby delle grandi imprese.

Protezione per lavoratori e lavoratrici

Per i lavoratori e le lavoratrici che producono gli abiti venduti sul mercato dell'UE e per le loro comunità, la regolamentazione delle catene del valore dei grandi marchi e delle aziende produttrici è una questione di sopravvivenza. La CS3D e la CSRD hanno il potenziale di fornire alla classe lavoratrice un'opportunità di trasparenza, protezione e riparazione.

No a una marcia indietro

CAP è lieta che la Commissione abbia avviato rapidamente il processo di consultazione pubblica sulle Linee Guida della direttiva e incoraggia i commissari competenti a continuare a lavorare sul diritto derivato. Campagna Abiti Puliti esorta la Commissione a non fare marcia indietro su una legislazione storica che offre speranze ai lavoratori e alle loro comunità in tutto il mondo e il cui recepimento e attuazione in alcuni paesi sono già iniziati. Le norme sulla sostenibilità guardano al futuro e saranno fondamentali per garantire catene del valore solide, sostenibili ed eque - un'opinione condivisa da esperti/e, dalla società civile, dai difensori dei diritti umani, dalle istituzioni delle Nazioni Unite, dai/dalle cittadini/e dell'UE e anche dalle imprese stesse.


transizione giusta nel settore moda

(2024) REPORT One-Earth Fashion: per una transizione giusta nel settore moda

One-Earth Fashion: 33 obiettivi di trasformazione per un’industria della moda giusta entro la soglia dei confini planetari

Come vestirsi in un pianeta che sta morendo? Questa è la domanda che apre il One-Earth Fashion, il nuovo rapporto di Public Eye sul futuro della moda di cui pubblichiamo la versione sintetica in italiano. 

Frutto di un lungo lavoro di analisi e confronto interno ed esterno alla rete internazionale della Clean Clothes Campaign, il rapporto mira ad aprire una discussione globale che sarà condotta anche online in una serie speciale di dibattiti che si terranno da gennaio ad aprile 2025.

Chi è interessatə puoi prenotarsi compilando il seguente form.


PARTECIPA AI DIBATTITI ONLINE

Sappiamo che la moda è una delle industrie più inquinanti e tra quelle più a rischio di violazione di diritti umani del mondo. Eppure il modello di business prevalente è ancora guidato dall’imperativo del produrre di più, più velocemente, a minor costo, come se fosse possibile una crescita infinita in un pianeta allo stremo.

La giusta transizione nell’industria della moda

L’industria della moda ha bisogno di un cambiamento radicale, verso un sistema equilibrato, non lineare ed estrattivo, che riformuli completamente le risposte alle domande chiave che la comunità umana si deve porre per qualunque settore: perché produrre un certo bene e in che quantità, quale è il suo scopo sociale e come produrlo.

One-Earth fashion è il primo rapporto prodotto da una organizzazione della Clean Clothes Campaign che prova a mettere sul tavolo obiettivi trasformativi per una giusta transizione nell’industria della moda, indicando target concreti per un sistema compatibile con un pianeta vivibile.

Si tratta del primo di una serie di contributi strategico-operativi che la Campagna Abiti Puliti pubblicherà nei prossimi mesi sul tema centrale della transizione ecologica che per essere giusta deve porre al centro l’agency dei lavoratorə, a partire da quellə in condizione maggiore vulnerabilità alle periferie delle catene globali del valore.

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EXECUTIVE SUMMARY (TRADUZIONE ITALIANA)


RAPPORTO COMPLETO (VERSIONE IN INGLESE)


policy paper raccomandazioni direttiva due diligence

(2024) POLICY PAPER relativo al recepimento della direttiva sul Dovere di diligenza

La Direttiva 2024/1760 sul Dovere
di diligenza delle imprese ai fini
della sostenibilità - Raccomandazioni
per un recepimento efficace

La Campagna Abiti Puliti (CAP) presenta un policy paper di raccomandazioni rivolto al legislatore italiano per il recepimento della Direttiva 2024/1760 sul Dovere di Diligenza delle Imprese ai fini della Sostenibilità.

Pubblicata sulla Gazzetta ufficiale dell’Unione europea il 5 luglio 2024 e entrata in vigore il successivo 25 luglio, la normativa ha l'obiettivo di garantire il rispetto dei diritti umani e ambientali lungo l'intera catena di fornitura. Un passo storico nell'impegno verso un'economia globale più equa, sebbene mitigato da un processo negoziale che ha prodotto una norma decisamente meno ambiziosa.

La genesi della Direttiva

La Direttiva è stata approvata, simbolicamente, proprio il giorno dell'anniversario del crollo del Rana Plaza in Bangladesh nell’aprile 2013, dove persero la vita 1.138 operaie tessili. Questa tragedia, simbolo delle criticità di un sistema produttivo opaco e privo di responsabilità, ha contribuito alla spinta verso una riforma legislativa che oggi obbliga le imprese a garantire condizioni di lavoro dignitose e a prevenire danni all’ambiente, con un regime di responsabilità civile per i casi di inosservanza.

Il recepimento in Italia

L’Italia, così come gli altri Stati Membri dell’Unione europea, ha tempo fino al 26 luglio 2026 per recepire la Direttiva nel proprio ordinamento. La normativa affronta molte questioni che hanno permesso il persistere di abusi ambientali e dei diritti umani legati alle imprese per decenni, ma gli spazi di miglioramento rispetto al dettato normativo comunitario non sono pochi. È necessario, dunque, che essa sia recepita adeguatamente al fine di garantirne un’applicazione efficace. La Campagna Abiti Puliti sottolinea l'importanza di un processo partecipato e trasparente e propone una serie di interventi per rafforzare l’efficacia della normativa:

  • Estendere la platea delle imprese coinvolte, includendo tutte quelle operanti nei settori ad alto rischio come il tessile.
  • Ampliare la definizione di diritti umani da tutelare e garantire che la due diligence copra tutte le fasi del ciclo di vita dei prodotti.
  • Rafforzare il coinvolgimento degli stakeholder, inclusi i sindacati, e prevedere misure di formazione e supporto per i fornitori.
  • Prevedere norme più rigorose sulla responsabilità civile, invertendo l’onere della prova e garantendo la rappresentanza delle vittime da parte di ONG e sindacati.

Autorità di controllo

Il documento raccomanda inoltre l’istituzione di un'Autorità di controllo amministrativo, immaginando un modello che valorizzi le competenze di enti già esistenti, come un rinnovato Ispettorato Nazionale del Lavoro, con l’obiettivo di approdare a un'istituzione unica e rafforzata.

Nuovo modello di sviluppo

La Direttiva 2024/1760 sul Dovere di diligenza delle imprese ai fini della sostenibilità rappresenta un passo decisivo per ripristinare il primato dei diritti sui profitti e per aprire la strada verso un modello di sviluppo inclusivo. Essa si colloca nel quadro dello European Green Deal e si ispira ai Principi Guida delle Nazioni Unite su Impresa e Diritti Umani e alle Linee guida OCSE per le imprese multinazionali.

La Campagna Abiti Puliti auspica a contribuire a un recepimento che sia all’altezza delle ambizioni della Direttiva, che promuova un dialogo costruttivo tra istituzioni, aziende e società civile. Solo attraverso un'attuazione attenta ed efficace si potrà garantire che questa normativa realizzi il suo pieno potenziale nel costruire un futuro più giusto per le persone e il pianeta.


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EXECUTIVE SUMMARY


POLICY PAPER COMPLETO


donne

Quante donne ancora?

donne

L’ombra che si allunga su questo 25 novembre 2024,  Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, è sempre più nera. Nera come l’eco delle parole del ministro Giuseppe Valditara secondo il quale il patriarcato non esiste. Caro ministro, il patriarcato si dispiega ogni giorno davanti ai suoi occhi, in ogni angolo e in ogni margine di questo paese, ma se le politiche sue e del governo di cui fa parte inondano il paese di nero, certo che non lo vedrà. Lo scorso sabato le piazze di Roma e Palermo e di altre città hanno fugato ogni ombra. Con le fiamme della rabbia.

Diritti delle donne, ancora solo numeri

In Italia e nel mondo i numeri della violenza capitalista e patriarcale sono gettate di sale su ferite che sanguinano costantemente. Anche i diritti delle donne e delle altre soggettività marginalizzate (persone migranti, lgbtqia+, con disabilitià, razzializzate) sono ancora, solo e soltanto, numeri. E purtroppo numeri per sottrazione: quante donne ancora non lavorano, quante donne ancora non denunciano la violenza domestica, quante donne ancora non guadagnano quanto un uomo di pari livello e competenze, quante donne ancora non accedono all’istruzione, ai posti di potere (capitalisticamente intesi), alla salute riproduttiva, alla libertà di movimento, all’indipendenza economica. Sono queste sottrazioni che tengono insieme l’Italia del 2024, resa a brandelli da anni di politiche cieche alle istanze sociali, di cui l’ultima finanziaria è solo un epigono, con gli ennesimi, drammatici tagli a welfare, servizi pubblici e prestazioni di assistenza che aumentano il piano inclinato delle diseguaglianze.

Donne e divario salariale

Non ripeteremo i noti numeri della violenza patriarcale perché non vogliamo essere considerate un numero. Ci preme però notare l’ennesima, amara ipocrisia: solo dieci giorni prima del 25 novembre, Giornata mondiale per il contrasto alla violenza contro le donne, si è denunciato il 15 novembre, Giornata mondiale del divario salariale di genere. Il giorno in cui convenzionalmente le donne iniziano a lavorare gratis, fino alla fine dell’anno. Ciò accade sia negli uffici stile sia nelle fabbriche, sia in Italia sia in Bangladesh e ovunque nel mondo. L’ipocrisia ancora maggiore è che l'Unione europea lo abbia chiamato Equal Pay Day: scusate, ma equal in che senso? 

Donne, disoccupazione e salari bassi

Le soluzioni per contrastare tutti i tipi di violenza di genere (economica, fisica, culturale, politica, psicologica) sono note. Per raggiungere la piena uguaglianza è necessario “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. Questa l’ha già sentita, Ministro Valditara? Forse può ricordarla lei alla sua Presidente? 

Rimuovere i fattori di cui è composta la violenza patriarcale per eliminare la condizione di disuguaglianza: di fatto si tratta di soluzioni note e studiate per cui noi, insieme ad altre reti attiviste e movimenti, chiediamo da anni l'introduzione di politiche attive efficaci. La violenza passa anche dalla distribuzione ineguale delle risorse e del valore lungo quella catena che lo ha generato. È una catena violenta e prepotente, che toglie il fiato, uccide. Una catena che obbliga a lavorare senza pause e senza giorno di riposo, alle dipendenze di supervisori molesti, in cui il salario da diritto diventa ricatto. Ma senza un lavoro o con salari da fame non ci si libera. Lavori precari e inesistenti come quelli che ancora sono offerti alle donne e alle soggettività marginalizzate portano a vite altrettanto precarie e invisibili. 

Le richieste di Abiti Puliti

È per questi motivi che la Campagna Abiti Puliti chiede da tempo non solo l’approvazione del salario minimo legale dignitoso, e l’avvio di un percorso di riduzione collettiva degli orari di lavoro, a parità di salario dignitoso di base, ma anche l’introduzione di strumenti di integrazione e sostegno dei redditi da lavoro più bassi, i cosiddetti in-work benefit, e del reddito universale di base. La diciamo brutale: per salvarsi dalla violenza capitalista ci vogliono (ancora) i soldi. Il divario salariale incide sulla mancata emancipazione delle donne e sulla loro costante dipendenza dal sistema retto dal potere maschile. Allo stesso tempo, per poter uscire di  casa e salvarsi dalla violenza domestica è necessario poter contare su un appoggio economico. Anche per quelle che non lavorano (che nel nostro paese sono una donna su due. Sipario). 

Campagne in rete a sostegno delle donne

Sono molte le campagne che rilanciano l’opportunità di tali strumenti e gli studi che li approfondiscono: dal reddito di liberazione proposto da Bruciamo Tutto come complemento al reddito di autodeterminazione richiesto da Non Una Di Meno, la necessità di introdurre politiche attive di integrazione dei salari bassi o inesistenti mediante l'erogazione di sostegni finanziari a compensazione della mancanza di reddito causata dal sistema capitalista e patriarcale è acclarata. 

Per uscire dall’invisibilità e dalla violenza è necessario che ad ogni persona oppressa siano garantiti gli strumenti che le restituiscano la dignità. Intanto le donne continuano a morire ammazzate, al lavoro e fra le mura di casa. Se c’è ancora (un) domani, va costruito con nuovi mezzi. 


montblanc al jazeera

Montblanc: Al Jazeera svela i meccanismi di sfruttamento

A Campi Bisenzio (Firenze), Montblanc ha messo in atto un vero e proprio sistema di delocalizzazione punitiva in loco. A farne le spese i lavoratori e le lavoratrici della filiera, prima sfruttati e poi licenziati in tronco per il solo fatto di aver rivendicato il diritto di lavorare otto ore al giorno per cinque giorni alla settimana.

Lo dimostra il documentario “Designer Sweatshop”, uscito il 21 novembre su Al Jazeera, prodotto da 101 East e diretto da Lynn Lee e James Leong (disponibile online sul canale YouTube di Al Jazeera). 

montblanc al jazeera
Un frame del documentario di Al Jazeera "Designer Sweatshop"

Inchiesta nel distretto di Prato

Grazie a un'accurata inchiesta sotto copertura, i due giornalisti sono riusciti a entrare nelle aziende subappaltatrici, svelando i meccanismi che permettono ai brand del lusso come Marni, Gucci, Dior e Montblanc, di contrarre al massimo i costi di produzione a spese dei lavoratori.

Nel caso del brand di proprietà del gruppo Richemont, gli operai della Z Production e della Eurotaglio, rispettivamente fornitore e sub-fornitore di Montblanc a conduzione cinese alle porte di Firenze, hanno sopportato per anni turni massacranti tra le dodici e le quattordici ore e salari che non superavano i tre euro l’ora, a fronte di borse vendute a 1.500 euro l’una.

Delocalizzazione punitiva in loco

Dopo che la sindacalizzazione degli operai ha imposto il rispetto del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CNNL) e il superamento dello sfruttamento selvaggio, Montblanc ha prima ridotto e poi sospeso del tutto gli ordini, dirottando la produzione su un’altra fabbrica a pochi chilometri di distanza, dove c’erano ancora lavoratori da sfruttare. 

Questo è quello che i Sudd Cobas denunciano da undici mesi. E di cui oggi si hanno le evidenze grazie all’inchiesta di Al Jazeera, trasmessa - ironia della sorte - a un giorno esatto dall'arrivo delle lettere di licenziamento agli operai iscritti al sindacato. 

Abbas è un operaio pakistano che dal 2015 è impiegato nel settore tessile del distretto di Prato.

«Per due anni ho lavorato quattordici ore per tre euro al giorno, con una pausa al massimo di quaranta minuti durante tutta la giornata». Oggi è un attivista del sindacato Sudd Cobas. «Ci sono ancora tanti operai qui che lavorano dodici ore al giorno, sette giorni su sette». 

Lo sfruttamento nel lusso è una realtà

È ormai sempre più evidente che lo sfruttamento dei lavoratori e delle lavoratrici non riguarda solo il fast fashion ma anche il comparto del lusso e del tanto sbandierato Made in Italy, come Abiti Puliti ha denunciato nell’ultimo rapporto “Una luce sulle pratiche commerciali sleali”. Un sistema estrattivo che dirotta i profitti ai manager e priva gli operai dei loro diritti come ha dimostrato un’altra recente inchiesta - “L’alta moda italiana lascia sul lastrico i lavoratori in Romania” - firmata da Stefano Liberti su Internazionale. 

«Sono i brand che determinano le condizioni di prezzo alle quali i fornitori lavorano. Queste condizioni sono talmente sleali che costringono i fornitori a ricorrere al subappalto, cioè ad altri terzisti e piccole imprese che possono consentirgli di produrre quel prodotto, che sia di abbigliamento o di pelletteria, ai costi più bassi possibili mantenendo un livello di ambigua opacità», dichiara Deborah Lucchetti, coordinatrice nazionale della Campagna Abiti Puliti. 

Abiti Puliti chiede giustizia per i lavoratori

Dopo la grande giornata europea di mobilitazione del 26 ottobre a favore degli operai Montblanc, oggi la Campagna Abiti Puliti torna a denunciare le gravi violazioni dei diritti dei lavoratori nella filiera degli appalti, chiedendo con forza il ricollocamento dei lavoratori e la fine delle politiche antisindacali che da anni rendono precarie le loro condizioni di lavoro. 

Alla base della richiesta, vi è l’urgenza di introdurre una clausola sociale di garanzia che tuteli i lavoratori anche in caso di cambio di appalto, evitando che vengano sacrificati sull'altare di logiche di mercato che non rispettano i diritti fondamentali. 

Pratiche di acquisto sleali e due diligence

La campagna denuncia, inoltre, lo sfruttamento che affligge le filiere del lusso, frutto delle pratiche di acquisto sleali adottate dai marchi committenti, che impongono condizioni di lavoro inaccettabili a causa di politiche di ribasso dei costi. È ora che i marchi del lusso, come Montblanc, si assumano la responsabilità di garantire - realmente e non solo a parole - standard di dignità e rispetto dei diritti in tutta la filiera produttiva, rispondendo delle scelte commerciali che generano sfruttamento e precarietà. 

«La nostra lotta è per un sistema più giusto e trasparente, dove i diritti dei lavoratori siano al centro delle politiche aziendali. La nuova Direttiva europea sul dovere di diligenza delle imprese ai fini della sostenibilità, approvata lo scorso aprile, offre inoltre una grande opportunità al legislatore chiamato a recepirla nell’ordinamento italiano entro il 2027. Essa sarà un valido strumento per obbligare finalmente le imprese a rispettare i diritti umani non solo sulla carta», conclude Lucchetti.


Convergenza europea per i lavoratori Montblanc: solidarietà contro lo sfruttamento

Il 26 ottobre 2024, le proteste dei lavoratori della Montblanc di Campi Bisenzio hanno oltrepassato i confini italiani, creando un movimento di convergenza in diverse città europee. Da Ginevra a Basilea, da Zurigo a Berlino fino a Lione e alle principali città italiane, l'eco della protesta si è amplificato, rivelando una rete di solidarietà, a cui ha contribuito anche la Campagna Abiti Puliti, per contrastare le pratiche di sfruttamento che minano la dignità del lavoro.

Montblanc sfrutta e poi scappa

Per anni i lavoratori della Z Production e della Eurotaglio, rispettivamente fornitore e sub-fornitore di Montblanc a conduzione cinese alle porte di Firenze, hanno sopportato turni massacranti tra le dodici e le quattordici ore e salari che non superavano i tre euro l’ora, a fronte di borse vendute a 1.500 euro l’una.

Solo per i lavoratori iscritti al sindacato, il 23 ottobre si sono aperte le porte del licenziamento, perché arrivati alla scadenza della dell’accordo di solidarietà. Nello stesso giorno, gli azionisti Richemont hanno incassato i dividendi dell'ultimo anno finanziario. L’azionista di maggioranza, il sudafricano Johann Rupert la cui famiglia si è arricchita con la schiavitù nelle piantagioni di tabacco, ha incassato 11,5 milioni di  euro.

La procedura è scattata dopo mesi di scioperi e trattative scaturite dalla sospensione degli ordini da parte di Montblanc, dopo la regolarizzazione dei contratti e quindi degli stipendi dei lavoratori. Un costo del tutto assorbibile dalla maison svizzera, che però pare abbia sposato la produzione dove le condizioni di lavoro sono ancora sotto i minimi sindacali e, soprattutto, i lavoratori non sono organizzati.

Delocalizzazione in loco punitiva

Una delocalizzazione “in loco” punitiva, è stata definita dai Sudd Cobas di Prato e Firenze, ormai da mesi al fianco dei lavoratori, che ha fatto da detonatore una mobilitazione senza precedenti, in cui il sostegno alla causa si è rapidamente esteso oltre i confini nazionali. La richiesta condivisa è chiara: Richemont, proprietaria del brand, deve ricollocare questi lavoratori con il mantenimento dei diritti sindacalmente ottenuti.

Risposta europea contro lo sfruttamento

La Clean Clothes Campaign, insieme a sindacati, associazioniattiviste e attivisti, si è unita ai lavoratori in un unico appello: fermare lo sfruttamento e restituire dignità a chi, per troppo tempo, è stato invisibile nelle filiere del lusso. In Svizzera, il deputato cantonale Matthieu Jotterand ha preso posizione presentando il 30 ottobre un'interrogazione parlamentare per sospendere gli accordi fiscali tra il Cantone di Ginevra, dove ha sede Richemont, e l’azienda, fino al rispetto dei diritti dei lavoratori italiani.

«A Ginevra, beneficiamo delle imposte pagate sui profitti dei grandi gruppi il cui lavoro è svolto in tutto il mondo, talvolta senza rispetto per i lavoratori. Non possiamo chiudere gli occhi sulle condizioni in cui viene svolto il lavoro nel 'retrobottega', con la scusa che abbiamo solo la 'vetrina' a Ginevra», ha dichiarato il parlamentare.

L’iniziativa di Jotterand rappresenta un segnale forte: la convergenza è riuscita a sensibilizzare le istituzioni politiche verso un impegno per la giustizia sociale.

Solidarietà oltre le frontiere

Ormai è palese che lo sfruttamento delle lavoratrici e dei lavoratori nella moda non è più solo un problema del sud globale, ma una questione sistemica che riguarda anche l’Italia e l’Europa. Nelle strade di Milano, Berlino e Zurigo, davanti alle boutique Montblanc, i manifestanti hanno denunciato una filiera che produce ricchezza per pochi a costo della dignità di molti. La convergenza europea diventa così un potente strumento di pressione, che dà voce ai lavoratori spesso invisibili, molti dei quali provenienti da Pakistan, Cina, Afghanistan e dal continente africano.

Una convergenza che chiede giustizia

Questa nuova forma di mobilitazione congiunta è molto più di una semplice manifestazione di solidarietà: rappresenta un nuovo modello di lotta che vuole spingere le istituzioni europee a prendere provvedimenti concreti per tutelare i diritti dei lavoratori. Grazie a una strategia coordinata, la Clean Clothes Campaign e altre organizzazioni, stanno spingendo verso una regolamentazione più severa per combattere lo sfruttamento anche nei settori del lusso, tradizionalmente esclusi dalle critiche rivolte al "fast fashion".

La forza della convergenza europea

Con questa mobilitazione transnazionale, i lavoratori di Campi Bisenzio non sono più soli. Al loro fianco, c'è una rete di sostegno pronta a fare pressione su Richemont e sugli altri grandi gruppi del lusso affinché rispettino la dignità e i diritti di chi contribuisce alla loro ricchezza. Grazie a questa convergenza, le parole "Shame in Italy" risuonano ora in tutta Europa, come richiamo a una giustizia che non può essere ignorata.


levi's accordo pakistan

Levi’s mette la firma: più sicurezza per lavoratrici e lavoratori in Pakistan

Dopo anni di intense campagne e pressioni, il marchio statunitense ha finalmente firmato un accordo vincolante per garantire la sicurezza delle persone impiegate nelle fabbriche che producono i suoi jeans in Pakistan. Clean Clothes Campaign accoglie con favore la decisione e ringrazia sindacati e attivisti che hanno collaborato per ottenere il risultato.

Levi’s ha firmato l’International Accord sulla salute e sicurezza nell’industria tessile e dell’abbigliamento, un accordo legalmente vincolante tra marchi e sindacati nato in seguito al tragico crollo dell’edificio Rana Plaza in Bangladesh nel 2013. L’Accordo garantisce che le fabbriche fornitrici dei marchi di abbigliamento che hanno firmato il patto vengano ispezionate e che i rischi per la sicurezza identificati vengano risanati. Dal 2023, l'Accordo ha avviato un programma nazionale in Pakistan, e si prevede che nei prossimi anni verranno lanciati ulteriori programmi in altri paesi. Le ispezioni dell’Accordo, il rigoroso programma di risanamento, un meccanismo di denuncia e le formazioni per i lavoratori e le lavoratrici garantiranno che le fabbriche in cui Levi’s produce saranno rese sicure. 

Anni di campagne contro Levi’s

Per molti anni, Levi’s è stata oggetto di forti campagne da parte dei sindacati in Bangladesh e Pakistan, nonché di organizzazioni sindacali e per i diritti dei lavoratori in tutto il mondo. La morte di quattro operai in una fabbrica fornitrice di Levi’s nel 2022 ha smascherato le affermazioni dell’azienda, che sosteneva che i suoi sistemi di monitoraggio fossero sufficienti a proteggere i lavoratori. Diversi rapporti e appelli pubblici da parte di Clean Clothes Campaign hanno dimostrato come il marchio si stesse avvantaggiando del lavoro di altre aziende, senza assumersi la responsabilità verso i propri operai. Azioni nei negozi, campagne online e offline e una petizione pubblica, che ha raccolto quasi 70.000 firme, hanno costantemente ricordato al marchio negli ultimi anni la necessità di unirsi allo sforzo collettivo che ha coinvolto oltre 240 aziende per migliorare la sicurezza nelle fabbriche.

L’incidente che ha sollecitato Levi’s

L'urgenza per un grande marchio come Levi’s di firmare questo programma e i veri costi per i marchi che tardano a prendere provvedimenti sono stati ancora una volta messi in evidenza dalla tragica morte di un lavoratore a causa di un'esplosione nella fabbrica fornitrice di Levi’s, Combined Fabrics, in Pakistan, avvenuta lunedì. Altri quattro lavoratori sono rimasti feriti. Il settore tessile in Pakistan è tristemente noto per la sua pericolosità, e il programma per il Pakistan dell'International Accord può coprire tutti i lavoratori e le fabbriche solo con il supporto di tutti i principali marchi che qui si riforniscono. Ma molti grandi marchi continuano a rifiutarsi di firmare l'accordo, come Nike, Amazon, Decathlon e IKEA. Per questo la Clean Clothes Campaign continuerà a fare pressione su queste aziende affinché firmino l'accordo.

Un appello urgente agli altri marchi

Zehra Khan, segretaria generale della Home-Based Women Workers Federation in Pakistan, ha dichiarato: «Siamo felici che Levi’s abbia finalmente ascoltato le voci dei lavoratori e degli attivisti di tutto il mondo che chiedono all'azienda di assumersi la responsabilità della sicurezza dei propri lavoratori. Ma i nostri pensieri vanno anche alle persone che sono morte, sono state ferite o hanno temuto per la propria vita mentre Levi’s si rifiutava ancora di aderire all'Accordo, incluso l’incidente mortale di questa settimana. Altri marchi dovrebbero imparare da questo: non c'è tempo da perdere, firmate l'Accordo ora e assicuratevi che le vostre fabbriche fornitrici non sicure in Pakistan siano ispezionate e messe in sicurezza».

Workers United soddisfatto per l'accordo

Edgar Romney, segretario-tesoriere di Workers United-SEIU, un sindacato che rappresenta i lavoratori di Levi’s e che ha condotto una campagna intensa per anni affinché il marchio firmasse questo accordo, fianco a fianco con le organizzazioni della rete Clean Clothes Campaign, ha dichiarato: «Workers United plaude la decisione di Levi’s di aderire a questo programma salvavita. Per troppo tempo, i lavoratori in Pakistan che producono articoli per Levi’s hanno rischiato la vita semplicemente andando a lavorare. D’ora in avanti, questi lavoratori godranno di protezioni fondamentali per la loro sicurezza e i loro sindacati potranno svolgere un ruolo centrale con le ispezioni nel processo di risanamento delle fabbriche. È importante sottolineare che l'Accordo protegge anche il diritto dei lavoratori alla libertà di associazione in materia di salute e sicurezza, permettendo ai lavoratori di denunciare i pericoli senza timore di ritorsioni. Ci congratuliamo con l'azienda per aver dimostrato l'impegno a rendere sicure le sue fabbriche fornitrici in Pakistan e la invitiamo a fare lo stesso in Bangladesh».

Ora manca la firma in Bangladesh

Deborah Lucchetti coordinatrice della Campagna Abiti Puliti ha dichiarato: «La firma di Levi's è un passo avanti importante verso la tutela delle lavoratrici e dei lavoratori. Tuttavia, è fondamentale che ora l'azienda sottoscriva anche l’Accordo per il Bangladesh, abbandonando Nirapon, un'iniziativa guidata dall’industria e quindi poco trasparente».


salario dignitoso

25 settembre, prima Giornata mondiale del salario dignitoso

Il 25 settembre 2013, in Bangladesh, più di cento operaie tessili sono rimaste ferite mentre protestavano per l’aumento dei salari dopo il crollo del Rana Plaza, il più grave disastro industriale nella storia della moda. La Clean Clothes Campaign (CCC) ha scelto questa data per celebrare, in oltre trenta paesi, la prima Giornata mondiale del salario dignitoso. L’invito a unirsi alla lotta e a dare avvio a un movimento globale dal basso è rivolto a organizzazioni, sindacati, attivisti e a chi crede che sia arrivato il momento di istituire il salario dignitoso per tutti e tutte. L’obiettivo è ottenere il riconoscimento di un diritto universale al momento negato.

Oggi in Italia nella metà delle famiglie in povertà relativa vi è almeno un componente che ha un lavoro, ma non uno stipendio sufficiente a soddisfare i bisogni del nucleo familiare. Che tradotto significa non riuscire a fare la spesa, pagare l’affitto, non avere i soldi per il materiale scolastico, le cure mediche, i trasporti e l’abbigliamento. Solo negli ultimi tre anni l’inflazione ha aumentato i prezzi al consumo del 17,3%, mentre i salari sono rimasti pressoché stabili.

Un’ingiustizia profonda se si considera che nel 2020 lo stipendio di un manager tra i più pagati era di 649 volte maggiore rispetto a quello di un operaio della stessa ditta. Eppure quando i lavoratori chiedono un aumento salariale, la risposta è sempre negativa e la giustificazione è che rappresenta una minaccia ai profitti aziendali. Ma la realtà è un’altra.

Per Deborah Lucchetti, coordinatrice della Campagna Abiti Puliti, «l’industria della moda produce ingenti profitti grazie alla massima compressione dei costi di produzione, principalmente dei salari, anche nelle filiere del lusso. Questa situazione non è più accettabile. Le operaie del tessile non possono continuare a lavorare in condizioni di sfruttamento e violazione dei diritti fondamentali, ricevendo in cambio salari da fame. Per questo è arrivato il momento di istituire un salario minimo dignitoso per ogni lavoratrice in qualunque parte della filiera operi».

La svolta sta nel legare il salario giusto alla dignità umana e non più alla produttività. Secondo la metodologia di calcolo proposta da Clean Clothes Campaign, che si basa sul costo della vita e prende come riferimento un ménage familiare anziché individuale, un salario dignitoso per una persona che lavora 40 ore a settimana nel 2024 dovrebbe essere non meno di 2.000 euro netti al mese (€11,50 netti all’ora). Una crescita di almeno €95 netti mensili rispetto al calcolo del 2022 che riflette la perdita, inesorabile, di potere d’acquisto. Se questa fosse la soglia per l’individuazione di bassi salari, in Italia avremmo tre lavoratori su quattro sotto soglia, cioè con un reddito annuale netto al di sotto di 24mila euro.

Il modo di fare impresa che punta esclusivamente alla massimizzazione dei profitti di pochi non fa altro che affamare gran parte del pianeta e questo non solo è ingiusto, ma anche insostenibile. Su pressione dell’opinione pubblica, molte aziende fanno della sostenibilità e dell’impegno per una giusta transizione i loro marchi di fabbrica tramite seducenti campagne di greenwashing. Ma è evidente che senza salario dignitoso non ci sarà mai nessuna transizione giusta, perché solo quello è la base per uno sviluppo socio-economico veramente equo.


Ricordiamo a Inditex di fermare i voli cargo

Inditex, la società madre di marchi come Zara, continua a trasportare per via aerea enormi volumi di prodotti di fast fashion, causando notevoli danni al clima. Nel 2023, le emissioni di CO2 dei suoi trasporti aerei sono aumentate del 37%, raggiungendo un massimo storico. Poiché la dirigenza dell’azienda ignora la richiesta di oltre 26.000 persone a cambiare rotta, ci rivolgiamo ora agli azionisti del grande gruppo spagnolo di fast-fashion.

testo di DAVID HACHFELD, Public Eye
edizione italiana a cura di Campagna Abiti Puliti

8 Luglio 2024

Il trasporto di articoli di moda per via aerea produce una quantità di gas serra tanto enorme quanto inutile. Per questo motivo Public Eye, Campagna Abiti Puliti e altre organizzazioni europee della Clean Clothes insieme a 26.192 persone hanno chiesto a Inditex, nel febbraio 2024, di interrompere la folle pratica di trasportare i vestiti in aereo in tutto il mondo, per porre un freno ai danni al clima che ne derivano. Purtroppo, il gruppo non ci sente. Anzi, nella sua ultima relazione annuale Inditex non ha presentato alcun piano per riportare la moda sulla terra. Nell'ultimo anno finanziario, le emissioni dei trasporti sono aumentate drasticamente del 37%.

In vista dell'assemblea generale di Inditex del 9 luglio 2024, stiamo ricordando a Inditex le nostre richieste. Allo stesso tempo, ci rivolgiamo a tutti gli azionisti dell'azienda: Assumetevi la responsabilità per il clima e portate la vostra azienda su un percorso sostenibile ed ecologico

Le nostre richieste a Inditex:
Siate trasparenti sul vostro impatto ambientale e pubblicate i dati sui vostri voli cargo e sulle emissioni.
Iniziate una rapida e completa eliminazione della moda via aerea. Stabilite obiettivi chiari ed elaborate una strategia di eliminazione graduale.
Riprogettate i vostri sistemi logistici in modo che possano funzionare senza questi voli dannosi per il clima. Migliorate, allungandoli, i tempi di consegna che chiedete ai vostri fornitori e pagate loro prezzi che coprano i costi di una produzione sostenibile, compresi salari dignitosi. Utilizzate i vostri profitti record per finanziare la trasformazione di Inditex.

2023: Aumento record delle emissioni dei trasporti

In risposta alla nostra ricerca, Inditex ha evidenziato due dati in particolare. Dal 2018, le sue emissioni legate al trasporto sono diminuite del 13% e, nel 2022, l'azienda ha ridotto il volume del suo trasporto aereo del 25%. Se tutto questo suona bene, purtroppo è perché è troppo bello! Inditex ha semplicemente scelto l'anno in cui ha trasportato minori quantità di merci per via aerea, il che è probabilmente dovuto principalmente alle sanzioni economiche introdotte in seguito all'invasione dell'Ucraina da parte della Russia. In realtà, la tendenza a lungo termine mostra un continuo aumento (si veda il grafico). Nel 2023, le emissioni di gas serra legate al trasporto incluse nel rapporto annuale di Inditex sono aumentate del 37% rispetto all'anno precedente ed è probabile che il trasporto aereo ne costituisca la maggior parte. Con quasi 2.000 chilo-tonnellate di CO2 equivalenti (CO2e), le emissioni hanno raggiunto un massimo storico. Solo in parte ciò è dovuto all'aumento del volume dei prodotti venduti, perché anche le emissioni per chilo prodotte dal trasporto sono cresciute del 32% nell'ultimo anno. Il trasporto è ora responsabile di oltre il 12% delle emissioni totali dell'azienda.

Emissioni di gas serra di Inditex derivanti da trasporti e vendite
I nostri calcoli sono stati effettuati utilizzando i dati dei rapporti annuali di Inditex per il periodo 2018-2023.

 

Nel polo logistico Inditex di Saragozza il trasporto in aereo non è diminuito.
I volumi di merci all'aeroporto di Saragozza (si veda il grafico) indicano chiaramente che il calo del numero di voli di Inditex per il trasporto aereo di merci nel 2022 è stato, purtroppo, solo una battuta d'arresto temporanea. La stragrande maggioranza delle merci movimentate all'aeroporto è destinata a Inditex. Se il gigante della moda non cambierà rotta e non inizierà a prendere misure per proteggere il clima, i volumi di trasporto aereo sono destinati ad aumentare. Nel 2025 entrerà in funzione un nuovo centro logistico vicino all'aeroporto con una superficie di 286.000 m2. Secondo i media, il numero di voli cargo settimanali è attualmente di circa 50 e tutto lascia pensare che questa cifra sia destinata a crescere.

 

Merci in arrivo all'aeroporto di Saragozza

Merci in partenza dall'aeroporto di Saragozza

Dati: Eurostat (avia_gor_es, merci e posta).

 

Inditex sostiene che il trasporto aereo è riservato soprattutto alle rotte intercontinentali, quando non sono possibili alternative quali il trasporto ferroviario e stradale, oppure quelle esistenti sono inefficienti in termini di tempo, quali il trasporto via mare. Tuttavia, Inditex produce e spedisce anche dalla Turchia.
Un segnale positivo è che nel suo ultimo Rapporto annuale Inditex ha dedicato molto spazio al cambiamento climatico e ai rischi che ne derivano. Tuttavia, per valutare effettivamente la serietà con cui il gruppo tratta le tematiche ambientali basti pensare che l'argomento non è nemmeno incluso nell’analisi dei rischi climatici contenuta nel Rapporto e il trasporto aereo di merci è solo accennato. Inditex esalta le virtù di una nuova misura per ridurre le emissioni degli aeromobili, sotto forma di un programma che coinvolge la compagnia petrolifera Repsol e che prevede la sostituzione con biocarburanti del 5% del cherosene utilizzato negli aeromobili di una compagnia di trasporto aereo che trasporta merci per Inditex (Atlas Air). Si tratta solo di una goccia nell'oceano. E soprattutto ci chiediamo perché la limitata capacità di produrre carburante da rifiuti biodegradabili venga utilizzata per voli fast-fashion del tutto inutili.
Inditex può tranquillamente smettere di trasportare moda in aereo, come alcune aziende operanti nell’industria della moda già hanno fatto, dimostrando che l'industria della moda globale può funzionare perfettamente senza il trasporto aereo. Il consiglio di amministrazione e gli azionisti di Inditex devono solo deciderlo.


A un anno dall'omicidio di Shahidul Islam

Il 25 giugno 2023 l'attivista sindacale Shahidul Islam veniva aggredito e ucciso davanti alla fabbrica Prince Jacquard Sweater Ltd, in Bangladesh. La sua famiglia non ha ricevuto nessuna forma di aiuto dai marchi che in quella fabbrica producevano e producono le loro merci. “Oggi commemoriamo la vita e l’attivismo di Shahidul Islam e invitiamo tutti i marchi coinvolti ad assumersi le loro responsabilità. Chiediamo anche che tutti i marchi che si approvvigionano dal Bangladesh decidano di adottare misure significative per garantire il diritto dei lavoratori ad organizzarsi”. Lo dichiara la rete Clean Clothes Campaign (CCC) che, dopo l'omicidio, ha “esortato il governo del Bangladesh a indagare in modo approfondito e trasparente sull’assassinio, identificandone gli autori e i mandanti, compresi possibili collegamenti tra gli aggressori e la direzione della fabbrica. Un anno dopo, le indagini procedono molto lentamente. Sebbene 14 persone, tra cui un funzionario della gestione amministrativa della Prince Jacquard Sweater’s Ltd., siano state formalmente accusate, i gruppi per i diritti dei lavoratori e la famiglia di Shahidul sostengono che andrebbero indagate anche altre persone, legate all’azienda”.

I membri della stessa rete hanno identificato e contattato oltre 50 marchi che si rifornivano dalla fabbrica tra un anno prima dell'omicidio e i mesi successivi, chiedendo loro di contribuire al risarcimento per la famiglia. Finora, degli oltre 50 brand, solo uno ha stanziato una quota per risarcire la famiglia, pari al 2% di quanto i cari del sindacalista avrebbero diritto di ricevere.

La campagna Clean Clothes monitorerà se e in che misura i marchi hanno contribuito ai risarcimenti. Sei i marchi più importanti – e ricchi - ai quali si chiede di risarcire la famiglia del sindacalista ucciso: RD Styles (che fornisce Saks Off Fifth, Anthropologie e altri), il marchio tedesco New Yorker e il marchio svedese Lager 157 (che hanno effettuato il maggior numero di ordini in fabbrica nell'anno prima dell'omicidio e nel caso di RD Styles e Lager 157 anche nell'anno successivo), la società sudafricana Ackermans-Pepkor, il marchio italiano Piazza Italia e la danese DK Company (proprietaria di decine di marchi, tra cui InWear e ICHI). La cifra auspicata non è casuale ma è pari a circa 212mila dollari, una somma stabilita secondo la Convenzione 121 dell'ILO: rappresenta i guadagni attesi di Shahidul Islam e sarebbe l'importo minimo che dovrebbe ricevere la sua famiglia, mentre il risarcimento potrebbe essere più alto se si considerasse il “danno morale”, cioè dolore e sofferenza emotiva.

“Continuiamo a chiedere verità e giustizia per una persona che è simbolo di una lotta ben più ampia e drammaticamente attuale, in un Paese come il Bangladesh dove aziende del Nord del mondo agiscono senza alcuno scrupolo, in assenza di tutele per lavoratori e lavoratrici – dichiara Deborah Lucchetti, coordinatrice della campagna Abiti Puliti, che fa parte della rete internazionale Clean Clothes Campaign -. In giorni come questi, in cui in Italia si torna a parlare di schiavismo e caporalato, di fronte ad un’altra tragica morte, quella di Satnam Singh, ricordiamo tutte le vittime del lavoro e di logiche produttive che in nome del profitto mietono vittime. Dal settore dell’agricoltura a quello della moda, fino all’edilizia, queste persone sono infatti secondo noi vittime strutturali del sistema: finché non sarà messo radicalmente e profondamente in discussione l’attuale modo di produrre e consumare le merci, purtroppo continueremo a contare i morti”.

 

 


La Clean Clothes Campaign è solidale con i lavoratori e le lavoratrici palestinesi nell'anniversario della Nakba 2024

In qualità di rete globale formata da oltre 220 organizzazioni in 45 Paesi che operano per migliorare strutturalmente le condizioni di lavoro e rafforzare il potere dei lavoratori nelle catene globali di fornitura tessili e di abbigliamento sportivo, rispondiamo all'appello della Palestinian General Federation of Trade Unions (PGFTU) nel Giorno della Nakba ad “alzare la voce e agire per interrompere i flussi commerciali e gli scambi che sostengono la colonizzazione militare di Israele dei Territori Palestinesi Occupati e lo sfruttamento dei lavoratori e delle lavoratrici palestinesi” 

Come rete che sostiene la lotta dei lavoratori e combatte l'impunità delle imprese nel settore tessile, per rispondere a questo appello di solidarietà assumiamo una posizione netta contro i marchi che traggono profitto dall'occupazione israeliana dei territori palestinesi e intraprenderemo azioni contro la produzione, il trasporto e la manipolazione degli indumenti utilizzati dallo Stato israeliano per la guerra, l'occupazione e l'apartheid.

In qualità di difensori dei diritti umani, ci uniamo al movimento sindacale internazionale e ad altri nel sollecitare Israele a rispettare l'ordine della Corte Internazionale di Giustizia di adottare misure immediate per prevenire gli atti di genocidio, punire l'incitamento al genocidio e facilitare la fornitura di servizi di base e di assistenza umanitaria ai palestinesi di Gaza. Siamo inoltre profondamente preoccupati per l'escalation di violenza dei coloni nei Territori Palestinesi Occupati. Sosteniamo le richieste di un cessate il fuoco immediato e permanente, la protezione di tutti i civili e il rilascio dei prigionieri, tra cui migliaia di palestinesi detenuti da Israele. Sosteniamo inoltre l'indagine e la punizione dei crimini di guerra e dei crimini contro l'umanità.

Il deterioramento e la devastazione della situazione dei lavoratori e delle lavoratrici palestinesi devono cessare. Israele deve adempiere ai suoi obblighi legali internazionali e rispettare il diritto dei palestinesi all'autodeterminazione. Gli Stati terzi devono smettere di aiutare e favorire Israele nelle sue continue violazioni del diritto internazionale. Gli Stati hanno l'obbligo di non riconoscere la colonizzazione dei Territori Palestinesi Occupati e di adottare tutte le misure in loro potere per garantire il rispetto del diritto internazionale umanitario da parte di Israele. Devono inoltre adottare tutte le misure in loro potere per impedire il genocidio in corso a Gaza e per garantire la protezione di tutti i palestinesi. 

Le aziende che forniscono attrezzature o materiali che facilitano l'espansione, lo sviluppo o il mantenimento del colonialismo israeliano sono complici di un crimine di guerra e devono essere ritenute responsabili. Le aziende che forniscono indumenti militari rientrano in questa categoria, così come le aziende che traggono profitto dal regime istituzionalizzato di oppressione e dominazione sistematica che sfrutta i lavoratori palestinesi e utilizza le risorse naturali in violazione del diritto palestinese all'autodeterminazione. Anche le fabbriche di abbigliamento che impiegano lavoratori palestinesi a basso salario sono complici dei crimini israeliani. 

La nostra azione è in linea con l'appello del PGFTU e dei lavoratori palestinesi per una vita dignitosa, libera dal colonialismo e dall'occupazione militare.


Due diligence di sostenibilità aziendale: il Parlamento europeo approva il testo di compromesso

In breve

  • Con un voto storico, il Parlamento europeo ha approvato la Direttiva sulla due diligence (dovuta diligenza) per la sostenibilità delle imprese (CSDDD), una legge che rappresenta un primo passo verso filiere di produzione attente agli impatti sui diritti umani e del lavoro e sull’ambiente e responsabili per eventuali violazioni.
  • Il testo approvato dal Parlamento coprirà solo una piccola minoranza di aziende dell'UE.
  • La legge prevede inoltre diverse opzioni di applicazione per gli Stati membri e vie di ricorso e risarcimento per le vittime. Tuttavia, la direttiva non supera gli ostacoli che le vittime incontrano nell’accesso alla giustizia nei tribunali europei.
  • Una criticità importante consiste nell’esclusione dagli obblighi di due diligence delle attività post-consumo come lo smantellamento, il riciclaggio e la messa in discarica; una scelta anacronistica in una direttiva che mira a realizzare la cosiddetta giusta transizione.
  • Il testo finale non include le fondamentali convenzioni dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) sulla sicurezza e la salute sul lavoro, lasciando i lavoratori in condizioni pericolose e potenzialmente letali.
  • La Campagna Abiti Puliti continuerà a sostenere la necessità di norme ambiziose durante il recepimento della legge da parte degli Stati membri.

In occasione dell'11° anniversario del crollo industriale del Rana Plaza, che causò la morte di 1138 lavoratori e lavoratrici e il ferimento di altre migliaia, il Parlamento europeo ha approvato con un voto storico la Direttiva sulla due diligence / dovuta diligenza per la sostenibilità delle imprese (CSDDD). Questa legge rappresenta un primo passo verso imprese attente agli impatti sui diritti umani e del lavoro e sull’ambiente e responsabili per eventuali violazioni lungo le catene di fornitura. L'Unione Europea è ora il più grande mercato globale che impone alle grandi imprese, che operano sia a livello nazionale che internazionale, l'obbligo di due diligence in materia di diritti umani e ambiente.

L’approvazione di questa normativa è un passo importante, tuttavia la direttiva approvata dal Parlamento è molto meno ambiziosa di quella concordata al termine dei negoziati di trilogo del dicembre 2023. In particolare, il testo approvato oggi dal Parlamento coprirà solo una minima parte delle aziende dell'UE, lascia fuori parti cruciali della catena del valore e contiene lacune significative per quanto riguarda i diritti dei lavoratori e i diritti delle vittime.

"Questa legge rappresenta un cambiamento molto significativo per il modo in cui le grandi aziende che operano nell'UE, compresi i marchi di moda e i distributori dovranno ora operare", ha dichiarato Priscilla Robledo, coordinatrice delle attività di lobby e advocacy della Campagna Abiti Puliti. "Tuttavia, il suo impatto sarà purtroppo limitato, poiché molti operatori intermedi (ma comunque grandi) potranno sfuggire alle loro responsabilità e continuare a operare impunemente", ha aggiunto.

È fondamentale che la legge preveda anche diverse vie di ricorso e risarcimento per le vittime, incluso un regime di responsabilità civile. Tuttavia, la direttiva non supera gli ostacoli che le vittime incontrano quando cercano di accedere alla giustizia nei tribunali europei. "Resta da vedere se nella pratica le vittime saranno in grado di utilizzare il meccanismo di responsabilità civile e se gli Stati membri decideranno di affrontare tali questioni durante la trasposizione del testo nel diritto nazionale", secondo Deborah Lucchetti, coordinatrice nazionale della Campagna Abiti Puliti.

Nella versione finale del testo viene anche ridotta la portata di applicazione della legge lungo l'intera catena del valore di un'azienda, escludendo le attività post-consumo come il riciclaggio, lo smantellamento e lo smaltimento in discarica. Continua Deborah Lucchetti, “questa esenzione non risponde alle richieste di coloro che chiedono una transizione giusta, che rispetti i lavoratori che già svolgono mansioni cruciali per il passaggio a un'economia circolare".

Inoltre, nonostante gli sforzi per ampliare la gamma di strumenti internazionali inclusi nella legge, il testo finale non include ancora esplicitamente le convenzioni cruciali dell'Organizzazione internazionale del lavoro (OIL) sulla sicurezza e la salute sul lavoro. Questo metterà a rischio migliaia di persone che lavorano in condizioni pericolose con potenziali gravissime conseguenze per le loro vite, come ha dimostrato il disastro di Rana Plaza undici anni fa.

Nonostante i suoi difetti, la CSDDD segna un momento decisivo nella lotta per il riconoscimento dei diritti umani e dell'impatto ambientale delle attività aziendali e per la riduzione del danno che l'industria dell'abbigliamento arreca ai lavoratori e all'ambiente. La Campagna Abiti Puliti continuerà a sostenere la necessità di norme ambiziose durante il recepimento della legge da parte degli Stati membri.


A 11 anni dal crollo del Rana Plaza le fabbriche sono più sicure ma le cause della tragedia persistono

Il 24 aprile 2024 ricorre l'11° anniversario della peggiore tragedia dell'industria della moda: il crollo dell'edificio Rana Plaza, che ha causato la morte di 1.138 persone. Il catastrofico bilancio di morti e feriti è stato causato da un mix letale di fattori, determinati dai marchi della moda: aver ignorato le condizioni pericolose delle fabbriche, i salari da fame e, soprattutto, le limitazioni alla capacità dei lavoratori di organizzarsi collettivamente. 

Sebbene siano stati compiuti progressi senza precedenti per rendere le fabbriche più sicure, la brutale repressione dei diritti dei lavoratori, ancora in atto, in risposta alle proteste per l'aumento del salario minimo, ha dimostrato che i marchi che producono in Bangladesh non riescono ancora a garantire il rispetto dei diritti fondamentali dei loro lavoratori e lavoratrici, impedendogli di fatto di sentirsi al sicuro. 

  • La catastrofe ha spinto i marchi a firmare un accordo vincolante con i sindacati, che ha reso le fabbriche del Bangladesh molto più sicure e ha evitato incidenti di massa. Tuttavia, brand importanti come Levi's, IKEA, Amazon e altri si rifiutano di aderire, lasciando gli appelli di lavoratori e attivisti inascoltati. 
  • Nel 2023, le aziende multinazionali  non hanno sostenuto in modo esplicito l'aumento del salario legale a un livello sostenibile per i lavoratori e le loro famiglie, con la conseguenza che nonostante le vigorose proteste dei lavoratori in Bangladesh i salari in questo paese continuano ad essere i più bassi nel mondo
  • Mentre i lavoratori rivendicavano i loro diritti fondamentali a manifestare contro il processo antidemocratico di definizione dei salari, i marchi non si sono adoperati per impedire una repressione prevedibile e premeditata, dando tacito consenso a tattiche violente che hanno causato la morte di quattro lavoratori e il ferimento di molti altri. 
  • Brand come H&M, Inditex (Zara), Next, C&A, tra gli altri, non fanno nulla mentre le loro fabbriche fornitrici tengono i lavoratori e i sindacalisti sotto minaccia di arresto, a causa di denunce penali infondate contro decine di migliaia di persone “senza nome” associate alle proteste. 
  • Il 24 aprile 2024, il Parlamento europeo ha in calendario il voto sulla proposta di direttiva sulla due diligence (dovuta diligenza) per la sostenibilità delle imprese, che rappresenta un passo avanti verso la responsabilizzazione dei marchi rispetto alle violazioni dei diritti umani e del lavoro nelle proprie catene di fornitura. I recenti avvenimenti in Bangladesh dimostrano quanto lavoro hanno ancora davanti a sé i brand della moda globale per essere all'altezza di questi nuovi obblighi legali.

Il Rana Plaza, che ospitava cinque fabbriche tessili, è crollato la mattina del 24 aprile 2013. L'edificio era stato evacuato il giorno prima perché i lavoratori avevano segnalato la presenza di pericolose crepe nei muri. Mentre i negozi al piano terra sono rimasti vuoti quel giorno, le fabbriche si sono rifiutate di fermarsi e hanno costretto i lavoratori e le lavoratrici a entrare con la minaccia di trattenere i salari. Lottando per sopravvivere con paghe da fame e senza un sindacato che difendesse collettivamente i loro diritti, la maggior parte di loro è entrata in fabbrica. Una catastrofe prevedibile e prevenibile. I marchi sapevano della pericolosità degli edifici a più piani in tutto il Bangladesh, ma non sono mai intervenuti. Sapevano anche che la coercizione implicita nei salari di povertà limitava fortemente le scelte dei lavoratori e, soprattutto, che gli ostacoli al diritto di organizzarsi lasciavano i lavoratori e le lavoratrici esposti a gravi rischi. 

Fabbriche più sicure

I sindacati e i gruppi di attivisti per i diritti dei lavoratori hanno sollevato questi problemi per oltre un decennio e hanno sviluppato un accordo vincolante che i marchi e i sindacati avrebbero dovuto firmare per rendere le fabbriche più sicure. Nonostante i numerosi confronti con i maggiori brand acquirenti del Bangladesh, solo due di loro hanno firmato questo accordo prima della scadenza. Altri hanno continuato ad affidarsi allo stesso sistema di audit sociale che non era riuscito a prevenire molti disastri precedenti, e non hanno riconosciuto i rischi dell'edificio Rana Plaza.  Appena tre settimane dopo il disastro, un gruppo di grandi marchi ha firmato l'Accordo internazionale per la salute e la sicurezza nell'industria tessile e dell'abbigliamento, rendendo evidente la necessità di tali misure.

Questo accordo e quelli successivi sono il motivo per cui il Bangladesh, che prima del 2013 registrava spesso incidenti con numerose vittime nelle fabbriche tessili, non ha più vissuto disastri simili. Miglioramenti che vanno dall'installazione di attrezzature antincendio alla rimozione dei lucchetti alle porte, fino a ristrutturazioni su larga scala di edifici strutturalmente insicuri, oltre alla formazione dei lavoratori sul tema della sicurezza e a un meccanismo di reclamo, hanno portato un cambiamento concreto, soprattutto nei primi sette anni di applicazione dell’Accordo, prima, cioè, che i datori di lavoro iniziassero a esercitare un'influenza indebita sul programma. 

Il successo dell'Accordo è riconosciuto dai 200 marchi di tutto il mondo che lo hanno firmato con i vari aggiornamenti, tra cui alcuni dei brand più grandi e noti come H&M, Uniqlo, Inditex (Zara) e PVH (Calvin Klein). Tuttavia, ci sono ancora grandi nomi che continuano a nascondersi dietro controlli fai da tè o iniziative commerciali senza la partecipazione dei sindacati. Tra questi Levi's, IKEA, Kontoor Brands (Lee, Wrangler), Decathlon, Tom Tailor, VF Corporation, Walmart, Amazon, Columbia Sportswear e altri. 

Amin Amirul Haque, presidente della National Garment Workers Federation (NGWF), ha dichiarato: "Il rifiuto di marchi come Levi's e IKEA di firmare l'Accordo significa che sono disposti a rischiare la vita dei loro lavoratori per la produzione dei loro prodotti. Continuano a fare affidamento sugli stessi sistemi aziendali che non sono riusciti a prevenire il crollo del Rana Plaza. È una vergogna assoluta, così come è vergognoso che ci siano circa una dozzina di marchi che hanno fabbricato i loro prodotti nel Rana Plaza e non hanno mai pagato alcun risarcimento alle famiglie dei 1.138 lavoratori uccisi e degli oltre 2.500 lavoratori feriti. Questo è più che indecente, è un doppio crimine: sono colpevoli di morte per negligenza e di aver lasciato le famiglie colpite senza alcun risarcimento".

Tuttavia, l'Accordo ispeziona e copre solo il livello finale della produzione di abbigliamento. Ciò significa che anche i lavoratori e le lavoratrici delle catene di fornitura dei marchi già firmatari dell'Accordo potrebbero rischiare la vita mentre lavorano nelle tessiture e nelle tintorie senza che vengano adottate le stesse misure di sicurezza. È importante che i marchi firmatari prendano provvedimenti per garantire che anche queste aziende rientrino nel campo di applicazione dell'Accordo.  

Salari di povertà

Il disastro del Rana Plaza, tuttavia, non è stato causato solo da un edificio non sicuro. Uno dei motivi per cui i lavoratori si sono sentiti costretti a entrare nell'edificio è stata la minaccia di perdere i salari, così bassi da costringerli spesso a indebitarsi in maniera significativa. I trascurabili aumenti del salario minimo del 2013, 2018 e 2023 hanno mantenuto il livello di povertà, intaccato ulteriormente dall’inflazione considerando questi intervalli così lunghi (5 anni). L'ultimo processo di revisione salariale del 2023, altamente antidemocratico, ha portato a un nuovo salario minimo di 12.500 BDT (113 USD), poco più della metà di quanto richiesto dai sindacati sulla base del calcolo del costo della vita. Si tratta di una mera frazione di quello che sarebbe un salario dignitoso. 

I sindacati e le organizzazioni per i diritti dei lavoratori hanno ripetutamente contattato i marchi durante questo processo per esortarli a esprimersi a sostegno delle richieste dei lavoratori e a garantire che avrebbero pagato ai fornitori prezzi più alti per i loro prodotti per far fronte all'aumento salariale. I marchi, il cui potere di imporre prezzi bassi influenza direttamente i salari e le condizioni nelle fabbriche fornitrici, hanno espresso impegni vaghi e non sono riusciti a infondere nei proprietari delle fabbriche la fiducia che un aumento salariale sarebbe stato finanziariamente fattibile. Invece, quando marchi come H&M hanno annunciato di fare il minimo indispensabile inserendo nei propri prezzi il salario di povertà appena approvato, hanno ricevuto il plauso dei media di tutto il mondo, dimostrando quanto siano basse le aspettative sul comportamento dei marchi della moda. Questa compressione dei prezzi ha limitato l'aumento dei salari e ora sembra addirittura influenzare l’applicazione di questo aumento molto limitato. Diverse fabbriche, tra cui i fornitori di grandi marchi internazionali, non hanno comunque applicato il nuovo salario, il che significa che i lavoratori e le lavoratrici non riceveranno nemmeno il salario di povertà a cui hanno diritto per legge. 

Babul Akhter, Segretario generale della Federazione dei lavoratori dell'abbigliamento e dell'industria del Bangladesh (BGIWF), ha dichiarato: "Il nuovo salario minimo è poco più della metà di quello che i sindacati chiedevano durante il processo di definizione. La richiesta si basava su calcoli elementari del costo della vita ed era ancora molto lontana da un vero e proprio salario dignitoso in grado di sostenere adeguatamente una famiglia. Il nuovo salario minimo è un salario di povertà che mantiene i lavoratori sull'orlo dell'indigenza per i prossimi cinque anni".

Libertà di associazione

I lavoratori non sono rimasti in silenzio mentre veniva deciso un nuovo salario di povertà attraverso un processo che escludeva la loro voce. I sindacati hanno iniziato a organizzarsi per una proposta salariale che soddisfacesse il costo della vita all'inizio del 2023. Ad ottobre, quando i datori di lavoro hanno condiviso una proposta salariale inaccettabile, molti altri lavoratori sono scesi in piazza per protestare, aumentando ancora a novembre quando la commissione salariale del Paese ha presentato la sua raccomandazione finale di soli 12.500 BDT (113 USD). Su richiesta dell'industria, la polizia, l'esercito e le unità speciali sono state dispiegate per reprimere le manifestazioni spontanee. Le fabbriche non sono riuscite a proteggere i lavoratori dalla violenza; anzi, con l'aumentare della tensione, molte hanno chiuso e mandato i lavoratori in strada senza preavviso o assistenza, esponendoli a gravi pericoli. I lavoratori che protestavano e quelli che non avevano intenzione di farlo sono stati accolti da una repressione violenta e dall'uso arbitrario della forza, che ha causato quattro morti e molti altri feriti. 

I quattro lavoratori morti (Rasel Howlader, 26 anni, Jalal Uddin, 40 anni, Anjuara Khatun, 23 anni, Imran Hossain, 32 anni) producevano per marchi internazionali come H&M, Zara, C&A, Bestseller e Walmart. Una situazione che riflette un chiaro disinteresse nei confronti dei lavoratori. Visti i risultati identici nel 2018, anche lì con la morte dei lavoratori, la violenza che ha circondato le proteste può essere considerata premeditata e prevedibile; eppure i marchi non hanno intrapreso alcuna azione significativa prima o durante il processo sull’approvazione del salario minimo per evitare che si ripetesse una simile tragedia. Ciascuno di questi marchi si è rifiutato di risarcire le famiglie, al di là del misero indennizzo di circa 4.500 dollari che le famiglie hanno ricevuto finora, che è molto al di sotto dello standard risarcitorio ampiamente accettato, stabilito sulla scia del disastro del Rana Plaza e basato sulla Convenzione ILO 121. 

Le denunce della polizia e le cause legali, presentate contro i lavoratori e i leader sindacali dai proprietari delle fabbriche e dalla polizia, hanno portato ad arresti, detenzioni a lungo termine e accuse penali. Poiché la maggior parte delle accuse sono rivolte a "lavoratori senza nome", la minaccia di un'azione legale pende ora sulla testa di qualsiasi operaio “esca dai ranghi” e che potrebbe essere improvvisamente "identificato" come parte di un caso in corso, come è già accaduto a diversi importanti leader sindacali. Le organizzazioni per i diritti dei lavoratori hanno esortato i principali marchi internazionali, nelle cui fabbriche delle catene di fornitura si sono verificati questi episodi, a usare la loro influenza sui fornitori per garantire il ritiro delle accuse. Sebbene ciò abbia portato al ritiro di diversi casi, la maggior parte dei marchi non ha agito, permettendo a circa due dozzine di processi di rimanere attivi. Forti del loro potere contrattuale, marchi come H&M, Inditex (Zara), Next e C&A avrebbero potuto chiedere l'archiviazione di questi casi, ma non lo hanno fatto. 

Rashadul Alam Raju, segretario generale della Bangladesh Independent Garment Union Federation (BIGUF), ha dichiarato: "Le denunce legali inventate contro lavoratori senza nome incutono paura, perché chiunque potrebbe essere identificato come colpevole in un caso. Diversi sindacalisti, anche della mia organizzazione, hanno trascorso del tempo in prigione per un presunto crimine avvenuto mentre si trovavano dall'altra parte della città. Marchi come H&M, Zara e Next devono fare tutto il possibile per garantire che queste denunce siano archiviate".

I casi legali sono particolarmente gravi perché hanno un ulteriore effetto raggelante sull'organizzazione dei lavoratori in Bangladesh. Nonostante alcuni miglioramenti iniziali negli anni immediatamente successivi al crollo, resta estremamente difficile registrare un sindacato in Bangladesh e le violenze e le molestie contro i sindacalisti sono comuni. Nel giugno 2023, il rappresentante della Bangladesh Garment and Industrial Workers Federation Shahidul Islam è stato picchiato a morte dopo aver abbandonato le trattative salariali con la fabbrica Prince Jacquard Sweater. All'inizio di quest'anno, due sindacalisti della Akota Garment Worker Federation sono stati aggrediti e ricoverati in ospedale dopo aver lasciato una fabbrica che stavano cercando di organizzare. 

Una nuova legge per responsabilizzare i marchi

Il crollo del Rana Plaza ha aperto gli occhi ai cittadini e ai politici dei Paesi consumatori sul ruolo delle aziende nelle violazioni dei diritti umani e del lavoro nelle catene globali del valore e sulla necessità di regolamentare il comportamento delle aziende. Da anni attivisti, sindacati e gruppi per i diritti dei lavoratori evidenziano la necessità di obblighi vincolanti per le aziende e chiedono una maggiore responsabilità in capo alle imprese. 

Questi appelli hanno avuto un primo successo nel 2017, quando in Francia è stata approvata la prima legge sulla due diligence, soprannominata "legge Rana Plaza". La Germania ha seguito l'esempio nel 2023. Esattamente 11 anni dopo il crollo, il Parlamento europeo dovrebbe votare, proprio il 24 aprile, la direttiva sulla due diligence di sostenibilità aziendale. 

Questa legge obbligherà le aziende a svolgere un processo di due diligence sui fornitori delle loro filiere, incluse le relazioni commerciali indirette, volto a identificare, prevenire, mitigare e rimediare alle violazioni dei diritti umani e del lavoro che si verificano nelle fabbriche che compongono la loro catena di fornitura. In alcuni casi, le aziende potrebbero essere ritenute legalmente responsabili delle proprie azioni e dell'impatto sui lavoratori. La legislazione proposta riguarderà solo le più grandi aziende attive nell'UE, ma è comunque un passo importante per rendere i marchi responsabili del loro impatto nelle catene globali del valore e contribuirà a prevenire il verificarsi di nuovi disastri. 

Priscilla Robledo, coordinatrice delle attività di Lobby e Advocacy della Campagna Abiti Puliti, afferma: "Questo anniversario deve diventare anche un giorno di speranza e non solo di commemorazione. Nel momento in cui ricordiamo le vite distrutte nel crollo del Rana Plaza, questa direttiva rappresenta una tappa significativa per i lavoratori, le comunità e gli attivisti di tutto il mondo e un passo concreto verso l’affermazione della responsabilità delle imprese".

La complicità dei marchi nella recente repressione in Bangladesh dimostra che hanno ancora molta strada da fare per rispettare pienamente i diritti umani e del lavoro nelle loro catene di fornitura. Per rispettare gli impegni assunti e svolgere un adeguato processo di due diligence, riteniamo che i marchi internazionali della moda debbano: 

  1. Chiedere ai loro fornitori di ritirare immediatamente tutte le denunce penali presentate contro i lavoratori in relazione alle proteste; 
  2. Richiedere l'annullamento di qualsiasi altra azione di ritorsione intrapresa dai fornitori nei confronti dei lavoratori, compresa la reintegrazione dei lavoratori licenziati allo stesso livello di anzianità, con la piena retribuzione arretrata;  
  3. Condannare pubblicamente l'ondata di repressione contro i lavoratori dell'abbigliamento del Bangladesh, sottolineando il sostegno ai diritti fondamentali di associazione e di riunione dei lavoratori e l'immediata caduta di tutte le accuse di massa contro i lavoratori. 
  4. Garantire un risarcimento finanziario coerente con gli standard internazionali alle famiglie dei lavoratori nelle proprie catene di fornitura che sono stati uccisi nel corso delle proteste; 
  5. Usare la propria influenza e modificare le proprie pratiche di acquisto al fine di garantire il pagamento di salari dignitosi; 
  6. Firmare l'Accordo internazionale e tutti i programmi nazionali pertinenti e, nell'ambito dell'Accordo, impegnarsi attivamente per l'effettiva attuazione del programma e l'espansione a un maggior numero di fabbriche all'interno della propria catena di fornitura. 

 

Risorse

  • Per ulteriori informazioni sulla repressione dei diritti dei lavoratori e sull'inattività dei marchi, consultare https://cleanclothes.org/news/2024/bangladesh-crackdown. La rete della Clean Clothes Campaign ha contattato 45 marchi che si riforniscono da fabbriche che hanno intentato cause contro i lavoratori in protesta. I marchi con la maggior parte di questi casi nella loro catena di fornitura sono H&M, Inditex e Next. Questi casi hanno effetti reali sui lavoratori e sui sindacalisti e il fatto che molti degli accusati siano "senza nome" permette di usare queste denunce infondate contro qualsiasi lavoratore o sindacalista. In un caso particolarmente grave, due promotori sindacali della Akota Garment Workers Federation e del National Garment Workers Union sono stati accusati di tentato omicidio e incarcerati per 66 giorni, anche se nessuno di loro è stato nominato nel rapporto o si trovava nelle vicinanze della fabbrica in quel particolare giorno. Questo dimostra come la minaccia di accuse senza nome incomba su ogni lavoratore e sindacalista in Bangladesh. Questa denuncia penale, che riguarda atti di vandalismo, incendi dolosi e la morte di un operaio, è ancora attiva nei confronti di diverse persone nominate e oltre 700 non nominate e ha portato all'incarcerazione di una dozzina di persone. I marchi che hanno influenza sulla fabbrica che ha presentato questa denuncia sono Bestseller, H&M, Aldi South, Next, Gap, Kmart Australia e Tom Tailor. Diversi marchi, come KIABI, Esprit, Kmart Australia, Decathlon e Target Australia, hanno rifiutato di assumersi ogni responsabilità e non hanno risposto affatto. 
  • La timeline di Rana Plaza Never Again documenta gli eventi e gli sviluppi più importanti degli ultimi 11 anni nell'industria dell'abbigliamento in Bangladesh e include le date chiave degli anni precedenti al crollo del Rana Plaza: ranaplazaneveragain.org/timeline.
  • Anche se in Bangladesh le vittime di incidenti di massa nelle fabbriche appartengono al passato, continuano a verificarsi piccoli incidenti che costano la vita alle persone. È importante che l'ambito di applicazione dell'Accordo venga ampliato per coprire anche le strutture che si trovano più in profondità nelle catene di fornitura dei marchi, come le filature e i laboratori di tintura. Per saperne di più: cleanclothes.org/keep-all-workers-safe
  • Ulteriori informazioni sull'Accordo internazionale sono disponibili sul sito web dedicato. Un elenco dei marchi che hanno firmato e non hanno firmato è disponibile qui. Una petizione che invita i marchi a firmare l'Accordo è disponibile qui.
  • Azioni e commemorazioni in collaborazione con la Clean clothes Campaign avranno luogo a Chicago (16 aprile - foto), Strasburgo (23 aprile), Bruxelles (24 aprile), Londra (24 aprile), Amsterdam (24 aprile) e in altre località del mondo. 
  • Nel 2022 è stato avviato in Bangladesh un programma pilota di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (Employment Injury Insurance Scheme, EII o EIS), con l'obiettivo di garantire un risarcimento alle famiglie dei lavoratori uccisi sul posto di lavoro e a quelle degli infortunati sul lavoro. Questo progetto pilota dovrebbe portare a una legge che copra tutti i lavoratori dell'abbigliamento. La CCC incoraggia i marchi a partecipare al progetto pilota, ma questo non è sufficiente. In primo luogo, i marchi devono impegnarsi a praticare prezzi equi, includendo esplicitamente il costo dell'EII nel prezzo di acquisto. In secondo luogo, i marchi devono impegnarsi a rifornirsi, una volta entrata in vigore la legge, solo da fornitori che partecipano attivamente e fedelmente allo schema, secondo quanto previsto dalla legge. In terzo luogo, i marchi dovrebbero firmare un accordo giuridicamente vincolante a tal fine.




Direttiva Due Diligence: gli Stati scelgono il profitto

Due Diligence di sostenibilità aziendale: gli Stati membri scelgono di anteporre i profitti delle imprese al rispetto dei diritti umani e del lavoro. L’Italia fra i paesi che hanno affossato il voto

Il Consiglio dell'Unione europea ha fatto un altro regalo al mondo delle imprese, inclusa all’industria dell'abbigliamento e delle calzature, non approvando in sede Coreper l'accordo che aveva precedentemente concluso con il Parlamento europeo su una normativa per proteggere i diritti umani e l'ambiente dagli abusi delle imprese, tra cui salari da miseria, condizioni di lavoro pericolose e negazione di libertà di associazione sindacale. Un colpo basso inferto a lavoratori e lavoratrici di tutto il mondo e alla salute e stabilità del nostro pianeta.

Sebbene la proposta di direttiva sia stata oggetto di due anni di negoziati tra le tre istituzioni, una minoranza di Stati membri, guidata dalla Germania e sostenuta vigorosamente anche dall’Italia, ha deciso di fare marcia indietro rispetto all'accordo provvisorio raggiunto al termine di sei mesi di trilogo.

"Le lavoratrici che producono gli abiti che indossiamo sono state ancora una volta deluse da un sistema che protegge le aziende a scapito dei loro diritti, dei loro salari e del loro benessere", ha dichiarato Deborah Lucchetti, coordinatrice nazionale della Campagna Abiti Puliti. "La Germania e altri Stati membri che si sono opposti al voto, fra cui il nostro paese, hanno avanzato argomentazioni fuorvianti per far fallire un accordo che è stato il risultato di lunghi negoziati sotto due presidenze dell'UE, uno sviluppo preoccupante che in ultima analisi mantiene i più vulnerabili nell'economia globale bloccati in un ciclo di povertà e abusi".

Presentata dal Commissario per la Giustizia Didier Reynders, la direttiva sulla dovuta diligenza in materia di sostenibilità delle imprese (CSDDD) è stata la risposta ad anni di campagne condotte da organizzazioni della società civile, sindacati e movimenti sociali per prevenire e porre fine a comportamenti irresponsabili da parte di aziende con sede e operanti nell'Unione, attraverso le loro attività nelle catene globali del valore. Peraltro, anche molte aziende e associazioni di impresa si sono espresse con favore nei confronti di questa normativa, a partire in Italia da CNA Federmoda, che in una lettera aperta dello scorso 22 febbraio indirizzata al Ministero delle Imprese e del made in Italy ha ricordato come la direttiva due diligence aiuterebbe le PMI italiane ad essere più competitive.

La direttiva avrebbe affrontato questioni quali la povertà e i salari non pagati, le condizioni di lavoro pericolose e la discriminazione di genere, tra le altre. Nel settore dell'abbigliamento e delle calzature, le aziende che si vantano di essere sostenibili e inclusive utilizzano complicate catene del valore e pratiche commerciali abusive e sleali per estrarre profitti da lavoratori scarsamente retribuiti e talvolta non pagati.  

Alla Presidenza belga dell'UE resta ora poco tempo ma soprattutto poco spazio di manovra per riaprire i negoziati sul testo e trovare un accordo che possa essere approvato dal Consiglio e dal Parlamento, a settimane dalla fine dell'attuale mandato e dalle prossime elezioni europee.

"Non approvando questa direttiva, i governi europei mandano un messaggio molto chiaro: le aziende possono continuare a sfruttare i lavoratori e la politica le proteggerà. Il fatto che l’Italia si sia allineata alla posizione tedesca è molto grave: è evidente che anche il nostro paese preferisce continuare a tenere i lavoratori in povertà. Lo ha dimostrato facendo il funerale al salario minimo, lo dimostra ancora una volta con il voto di oggi", ha aggiunto Priscilla Robledo, coordinatrice lobby e advocacy di Campagna Abiti Puliti. "Continueremo a stare al fianco di lavoratori e lavoratrici alla conquista di diritti umani, dei redditi da lavoro e di condizioni di lavoro dignitose e chiediamo alla Presidenza belga di riaprire prontamente i negoziati in modo da concordare un nuovo accordo che mantenga gli elementi chiave del precedente prima della fine di questo mandato".

 


(2024) Aggiornamento rapporto salario dignitoso

IL SALARIO DIGNITOSO È UN DIRITTO UNIVERSALE - Aggiornamento 2024

Una proposta per l'Italia, a partire dal settore moda

Durante l’evento Povertà lavorativa: strumenti per l'emergenza, dall'UE all'Italia, svoltosi ieri a Roma in collaborazione con l’Università Roma Tre, in occasione dei 40 anni del decreto di San Valentino, che pose le basi per l’abolizione della scala mobile, la Campagna Abiti Puliti ha lanciato la scheda di aggiornamento del rapporto “Il salario dignitoso è un diritto universale. Una proposta per l’Italia, a partire dal settore moda” pubblicato lo scorso giugno 2022. 

Povertà e inflazione in Italia aumentano costantemente e alla politica istituzionale sembra non importare. Secondo l’Istat, nel 2022 5,6 milioni di persone in Italia vivevano sotto la soglia di povertà (dato in crescita rispetto al 2021). L’Italia è l’unico paese OCSE in cui i salari diminuiscono anziché aumentare, mentre ad aumentare è solo il costo della vita. Avere un lavoro non mette più al riparo dalla povertà, visto che il 50% delle famiglie in povertà relativa include un lavoratore con un reddito insufficiente a soddisfare i bisogni del nucleo familiare. Una ingiustizia profonda, considerato che nel nostro paese nel 2020 lo stipendio di un manager tra i più pagati era di 649 volte maggiore rispetto allo stipendio di un operaio della stessa azienda.

Ma guadagnare così tanto nemmeno serve: basterebbe potersi guadagnare da vivere con dignità. Secondo la metodologia di calcolo proposta da Clean Clothes Campaign, che si basa sul costo della vita e prende come riferimento per calcolare il salario di base un ménage famigliare anziché individuale, un salario dignitoso per una persona che lavora 40 ore a settimana si attesta a non meno di € 2.000 euro netti al mese (€11,50 netti all’ora). Una crescita di almeno €95 netti mensili rispetto al calcolo di un anno fa che riflette la perdita, inesorabile, di potere d’acquisto. Se questa fosse la soglia per l’individuazione di bassi salari, in Italia avremmo 3 lavoratori su 4 sotto soglia, cioè con un reddito annuale netto al di sotto di 24mila euro.

Lavorare e rimanere poveri è una assurdità e una ingiustizia inaccettabile. Lo è altrettanto ignorare le moltissime e autorevoli voci della società civile, dell’accademia, delle parti sociali che negli anni hanno contribuito allo studio della povertà lavorativa con approfondimenti, analisi e proposte concrete per eliminarla, di cui il salario minimo legale è solo una delle componenti, ma certamente fra le più significative. 

Per questo la mancata approvazione da parte del parlamento italiano di una buona legge sul salario minimo mentre molti CCNL attendono da anni di essere rinnovati o contengono minimi tabellari troppo bassi e persino incostituzionali manda un segnale chiaro: il governo non vuole veramente sconfiggere la povertà. Non vuole progredire. 

E invece l’attuale modello di produzione e consumo, basato su massima compressione dei costi e iper-produzione di merci spesso di scarsa qualità ad alto impatto per le persone, il clima e l’ambiente, come l’industria della fast fashion incarna perfettamente, non funziona più. Campagna Abiti Puliti propone una visione di un paese diverso, in cui una riduzione collettiva degli orari di lavoro, a parità di salario dignitoso di base, migliora la qualità della vita per i lavoratori e l’efficienza per le imprese.

A tal fine è necessario non solo approvare una buona legge nazionale sul salario minimo legale dignitoso, ma anche promuovere una cornice di diritto europea che introduca, a parità di condizioni per tutte le imprese che operano nell’UE, obblighi di verifica di tenuta delle condizioni di lavoro nelle proprie filiere, inclusi i livelli salariali. Mercoledì 21 febbraio è prevista una riunione dei rappresentanti del Consiglio dell’Unione europea sulla Direttiva sul dovere di diligenza delle imprese in materia di diritti umani e ambiente (la cd. Direttiva Due Diligence o CSDDD) ma, purtroppo anche a causa della posizione ambigua e mutevole del governo italiano, l’approvazione della norma è a rischio. Le argomentazioni contro la direttiva sono tuttavia pretestuose: si veda questa pagina di approfondimento che smonta punto per punto le fallaci argomentazioni contro la direttiva CSDDD. L’accordo politico era stato raggiunto dal Consiglio UE e dal Parlamento Europeo il 14 dicembre 2023. Venerdì 9 febbraio tale accordo avrebbe dovuto essere ratificato dagli Stati Membri ma il voto è stato rinviato per permettere alla presidenza di turno belga di trovare una soluzione all’astensione dichiarata dalla Germania e a quella ventilata dall’Italia. Per questo FAIR/Campagna Abiti Puliti, insieme alle organizzazioni riunite nella campagna Impresa2030 - Diamoci un regolata, chiede al governo italiano e in particolare ai Ministri competenti, Giorgetti e Urso, di mantenere l’impegno politico già negoziato e di non perdere questa opportunità storica. Non si tratta solo di regole comuni ma anche di tutela del tessuto produttivo italiano: le PMI si trovano spesso a dover subire contratti predatori e pratiche commerciali che possono indurre violazioni dei diritti umani, dei diritti del lavoro e dell'ambiente. La direttiva si preoccupa di prevenire e gestire tali dinamiche, chiedendo alle aziende di grandi dimensioni di rivedere le clausole contrattuali più vessatorie in questo senso.

AGGIORNAMENTO 2024


rapporto completo (ITA)


Sommario (ITA)


Full report (ENG)


SUMMARY (ENG)



EVENTO: Povertà lavorativa: strumenti per l'emergenza, dall'UE all'Italia

Campagna Abiti Puliti e Università degli Studi Roma Tre invitano tutti i cittadini e le cittadine, le organizzazioni, i sindacati, le imprese, i ricercatori e gli studenti interessati a una tavola rotonda sulla povertà lavorativa in Italia.

Quali sono i dati reali? Quali soluzioni è possibile mettere in campo? Quali sono gli strumenti disponibili a livello nazionale ed europeo?

All'evento ascolteremo il parere di espertə ed esponenti del mondo accademico e sindacale, delle imprese e della società civile che da anni lavorano sul tema, per cercare le giuste modalità per costruire una vertenza unitaria.

PROGRAMMA

✅ Laura Calafà, giuslavorista, Università di Verona
✅ Maurizio De Carli, responsabile dipartimento relazioni sindacali CNA Nazionale
✅ Marianna Filandri, sociologa, Università di Torino
✅ Giovanna Labartino, economista, Centro Studi Confindustria
✅ Deborah Lucchetti, campagna Abiti Puliti
✅ Mattia Pirulli, segretario confederale, CISL
✅ Francesca Re David, segretaria confederale CGIL
✅ Pasquale Tridico, economista, Università RomaTre

Modera: Pasquale De Muro, economista, Università RomaTre

14 Febbraio 2024 | 14.00

Spazio Europa - Rappresentanza Italiana Presso La Commissione Europea

Via IV Novembre, 149 - Roma


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Nuovo Accordo Internazionale sulla Sicurezza nelle fabbriche tessili: i marchi firmano un impegno di 6 anni

Sono 48 i marchi che hanno firmato ad oggi il nuovo Accordo vincolante sulla sicurezza nel settore dell'abbigliamento annunciato a novembre. L’impegno è di garantire che le fabbriche nella loro catena di fornitura siano sicure in almeno uno dei Paesi coperti dal programma. I sindacati e le organizzazioni per i diritti dei lavoratori della rete della Clean Clothes Campaign invitano tutti i marchi di abbigliamento che non l'hanno ancora fatto a non restare indietro: il nuovo Accordo va firmato subito poiché si basa su un modello che negli ultimi dieci anni ha dimostrato di essere il più alto standard del settore.

L'Accordo internazionale per la salute e la sicurezza nell'industria dell'abbigliamento e del tessile (Accordo internazionale) è stato sottoscritto dai sindacati e dai marchi globali il 6 novembre 2023, poco dopo la scadenza del precedente. Il programma si basa sull'esempio di tre accordi precedenti, il primo dei quali è entrato in vigore poco dopo il mortale crollo del Rana Plaza nell'aprile 2013. L'Accordo 2023 avrà una durata di tre anni, con un rinnovo automatico di altri tre, ed estenderà il numero di Paesi in cui sarà applicabile. Si tratta di un'iniziativa di enorme importanza, poiché morti e infortuni sul lavoro sono ancora troppo frequenti in tutto il settore. Attualmente, l'Accordo ha programmi nazionali in Bangladesh e Pakistan e i firmatari dell'Accordo internazionale devono sottoscrivere almeno uno di questi programmi nazionali. La Clean Clothes Campaign invita i marchi ad aderire ai programmi in tutti i Paesi da cui si riforniscono.

Questo nuovo programma a lungo termine permetterà ai brand, che nell'ultimo decennio non si sono assunti alcuna responsabilità, di garantire la sicurezza di chi fabbrica i loro prodotti. L’Accord in Bangladesh ha infatti ridotto significativamente il numero di incidenti nelle fabbriche del Bangladesh e attualmente sta portando grandi miglioramenti anche in Pakistan. Rifiutandosi di firmare l'Accordo, i marchi negano ai loro lavoratori l'accesso alla formazione e ai meccanismi di reclamo e continueranno a fare affidamento su un audit sociale inadeguato piuttosto che sulle ispezioni indipendenti e competenti dell'Accordo e sui programmi di riparazione.

"Levi's, IKEA, Amazon, Walmart, Decathlon e ASDA, sono solo alcuni fra i marchi che hanno una produzione considerevole sia in Bangladesh che in Pakistan e che si sono sempre rifiutati di firmare l'Accordo. Finché non lo firmeranno, chi lavora per loro rischia di morire ogni giorno", afferma Deborah Lucchetti, coordinatrice della Campagna Abiti Puliti.

Link di approfondimento:


Sulla scia di Zara: la moda aerea di altri marchi

Il Gruppo Inditex, con il suo marchio di punta Zara, spedisce in aereo enormi quantità di vestiti in tutto il mondo. Questa è la conclusione dell'indagine sulla moda aerea realizzata dal nostro partner Public Eye. Ma il gigante spagnolo del fast-fashion non è l'unico a farlo. Abbiamo trovato prove di migliaia di tonnellate di prodotti trasportati inutilmente in aereo a scapito del clima da altre aziende, tra cui Calzedonia, Lululemon, Uniqlo, sponsor principale di Roger Federer, e altri distributori.

Attualmente solo poche aziende riferiscono volontariamente le modalità di trasporto dei propri prodotti. E le statistiche pubbliche, soprattutto quelle provenienti dai maggiori mercati di importazione in Europa e Nord America o dai principali Paesi produttori come la Cina, non sono sufficientemente dettagliate per presentare un quadro accurato. Ma, sebbene la nostra indagine di follow-up sulla moda aerea non fornisca un quadro completo né rappresentativo della situazione attuale, segnala chiaramente quanto estensivamente venga usato il trasporto aereo nel settore. Se non diversamente specificato, i dati citati si riferiscono agli ultimi 12 mesi, periodo per il quale sono disponibili.

Quali sono le prove dell'utilizzo del trasporto aereo da parte di altri distributori di moda

Nella nostra indagine abbiamo già evidenziato quanto Inditex e Shein si affidino al trasporto aereo. Il modello che vediamo emergere dai dati doganali analizzati per gli altri marchi è piuttosto eterogeneo. 

  • Per quanto riguarda alcuni dei principali concorrenti diretti nel segmento del fast fashion, i dati disponibili indicano un tasso di trasporto aereo relativamente basso. Dal Bangladesh, ad esempio, il tasso attuale sembra essere inferiore al 2% per i principali clienti come H&M o Primark, e inferiore al 3% per Bestseller (Jack Jones, Vero Moda). A titolo di confronto, il dato di Inditex supera il 20% quest'anno.
  • Tuttavia abbiamo trovato prove di una maggiore incidenza della moda aviotrasportata da parte del gruppo Next. Circa il 10% delle sue importazioni dal Bangladesh avviene per via aerea e circa il 20% di quelle dall'India. Anche il terzo gruppo di moda al mondo, Fast Retailing (Uniqlo), fa viaggiare i suoi prodotti in tutto il mondo con quasi il 20% delle importazioni dal Vietnam che probabilmente arrivano in aereo.
  • Tra i principali gruppi di moda di abbigliamento sportivo spicca Lululemon, che trasporta in aereo circa il 30% dei suoi prodotti fabbricati in Vietnam e Sri Lanka. Per i concorrenti Nike e Adidas abbiamo osservato una percentuale minore dal Vietnam, inferiore al 5%. Puma ci ha informato che la percentuale di voli per i prodotti provenienti dal Vietnam è attualmente solo dello 0,5%. 
  • Anche la biancheria intima arriva in aereo: circa un quarto dei prodotti realizzati in Vietnam per Victoria's Secret e addirittura un terzo dei prodotti provenienti dallo Sri Lanka vengono trasportati in questo modo. Anche il gigante dell'intimo Calzedonia ha prodotti fabbricati sull'isola, con una percentuale di trasporto aereo compresa tra il 5 e il 10%.

Trasparenza? Quale trasparenza?

Questi dati ci dimostrano che il trasporto aereo dei prodotti tessili non è usato solo da Inditex e Shein, ma è una pratica diffusa. Tuttavia, il fatto che alcuni dei principali concorrenti diretti lo utilizzino solo in piccola parte offre un barlume di speranza. 

Per capire il modo in cui la moda trasportata per via aerea viene percepita nel settore è utile guardare a come le aziende comunicano su questo tema. Next e Victoria's Secret stanno prendendo esempio da Inditex e Shein e parlano solo in termini generali delle loro emissioni di trasporto. Stessa storia per Fast Retailing (Uniqlo). Questa azienda, che ha Roger Federer come ambasciatore del suo marchio principale Uniqlo, ha risposto alla nostra richiesta di chiarimenti, ma non ha fornito alcun dettaglio specifico. L'azienda fa riferimento ai suoi obiettivi climatici generali e al coinvolgimento in un'iniziativa per ridurre le emissioni dei trasporti. Un impegno che, tuttavia, non ha registrato alcun progresso finora; al contrario, le emissioni dei trasporti sono aumentate del 55% dal 2019.

Altre aziende stanno adottando un approccio più proattivo al problema. Bestseller dichiara che l'uso del trasporto aereo è in calo da quattro anni e che la sua percentuale sul totale delle merci trasportate è attualmente dell'1,04%. Di conseguenza, le emissioni legate al trasporto sono diminuite del 55% dal 2018. Anche il rapporto di sostenibilità di H&M mostra una significativa riduzione delle emissioni del trasporto aereo (-51%) nell'ultimo anno finanziario. Interpellata, Primark ha spiegato che in genere effettua ordini con tempi di consegna lunghi e concede tempo sufficiente per il trasporto via mare, utilizzando quindi di rado il trasporto aereo. Tuttavia, l'azienda non ha fornito cifre in merito. Nike menziona un leggero aumento del trasporto aereo utilizzato per l'afflusso di merci nel 2022, ma il volume sembra essere rimasto basso e inferiore al livello pre-pandemia. 

Lululemon identifica il trasporto aereo come il principale responsabile dell'altissima percentuale di emissioni totali (25%) e annuncia una task force per spostare il trasporto merci dalla via aerea a quella marittima. Ma è difficile interpretare questi dati senza avere a disposizione cifre esatte.  Solo poche aziende forniscono dettagli più precisi sull'attuale percentuale di merci trasportate per via aerea. Secondo Calzedonia si tratta di un enorme 20% del volume totale, il che significa che le emissioni di CO2 sono di conseguenza molto elevate. D'altra parte, la percentuale dichiarata da Adidas è significativamente inferiore: il 2% nel 2022.  Puma ha fornito le informazioni più dettagliate: l'azienda ha dichiarato di aver ridotto il tasso di trasporto aereo dal 3% prima della pandemia all'1% attuale, ha fornito dati dettagliati sulle emissioni per ogni modalità di trasporto ed è l'unica azienda che ci ha comunicato la quantità totale di trasporto aereo. Per non parlare del fatto che Puma ha fissato un obiettivo specifico di riduzione: dimezzare la percentuale di trasporto aereo allo 0,5% entro il 2025. 

Le grandi differenze di impatto e di strategia tra queste aziende sottolineano quanto la moda aerea sia inutile anche dal punto di vista commerciale. Chiediamo a tutti i marchi di eliminare gradualmente il trasporto aereo e di fornire informazioni trasparenti sui mezzi di trasporto utilizzati e sulle loro emissioni.

FIRMA LA PETIZIONE 
STOP ALLA MODA VOLANTE


Due diligence di sostenibilità aziendale: l’accordo per una direttiva raggiunto a Bruxelles è utile ma non sufficiente

La Campagna Abiti Puliti accoglie con favore l’accordo politico sulla direttiva sulla due diligence (dovuta diligenza) di sostenibilità delle imprese (CSDDD) raggiunto ieri da Parlamento europeo e Consiglio dell'Unione europea. 

È una notizia importante che responsabilizza le imprese nei confronti delle proprie filiere e permette l’accesso alle misure di tutela per le vittime di abusi aziendali. La direttiva afferma con chiarezza che le imprese devono preoccuparsi per come agiscono nel mondo e affrontare gli abusi sistemici dei diritti umani e dell'ambiente nelle catene globali di produzione del valore. Ora disponiamo di un quadro europeo utile a migliorare l’accesso a diritti e giustizia ai lavoratori e alle lavoratrici del settore dell'abbigliamento e delle calzature di tutto il mondo” ha dichiarato Deborah Lucchetti, coordinatrice della Campagna Abiti Puliti.

Tuttavia si tratta solo di un primo passo per cambiare il comportamento irresponsabile delle imprese e proteggere i titolari dei diritti a livello globale. Molti aspetti, che già avevamo segnalato, restano irrisolti e ancora molta strada c’è da fare: purtroppo le pressioni industriali hanno indebolito la legge nel suo complesso, ostacolando il necessario cambiamento “trasformativo” del modo in cui operano le società transnazionali. 

Imprese coinvolte e obblighi prescritti

Il testo introduce obblighi di due diligence ambientale e dei diritti umani per le grandi imprese, imponendo alle aziende di identificare, gestire e rimediare a gravi violazioni dei diritti umani che riscontrano nelle loro filiere, in linea con gli standard internazionali delle Nazioni Unite, dell'OIL e dell'OCSE. Rispetto alla proposta iniziale è stato inserito un forte riferimento al cosiddetto stakeholder engagement (il coinvolgimento delle parti interessate da una determinata operazione o dal business nel suo complesso, compresi i sindacati) ed è un buon miglioramento. 

Tuttavia il numero di aziende coinvolte direttamente da questi obblighi è limitato, poiché riguarda solo le imprese con almeno 500 dipendenti e un fatturato netto di 150 milioni di euro ed altre specificamente indicate. Inoltre, fra gli aspetti su cui esercitare la dovuta diligenza, non è stata inclusa la Convenzione sulla sicurezza e la salute sul lavoro e il relativo quadro promozionale: un aspetto molto grave, soprattutto per quei Paesi, tra cui anche l’Italia, caratterizzati da un insostenibile numero di morti sul lavoro. 

Applicazione e diritti delle vittime 

Il testo introduce anche sanzioni pecuniarie basate sul fatturato per le imprese che non rispettano i nuovi obblighi e istituisce una rete di autorità competenti negli Stati membri che potranno ricevere denunce e segnalazioni. Questa è una novità importante, poiché rappresenta l’occasione per introdurre finalmente anche in Italia una Autorità Nazionale che abbia il compito di vigilare sul rispetto dei diritti umani.

I lavoratori danneggiati potranno inoltre citare in giudizio un'azienda che non abbia applicato con la dovuta diligenza le misure di prevenzione.Ciò apre nuove possibilità per le vittime, ma come si evolverà l’applicazione giurisdizionale di queste norme ancora non è prevedibile”. ha aggiunto Priscilla Robledo, coordinatrice delle attività di lobbying della Campagna Abiti Puliti. Fra i temi più controversi, infatti, c’è proprio il regime di responsabilità civile, oltre al ruolo del settore finanziario e la scarsità di obblighi in ambito climatico.

Il percorso futuro della direttiva

Una volta pubblicato il testo finale, sia il Consiglio dell'UE che il Parlamento europeo dovranno approvarlo formalmente nei prossimi mesi. L’accordo è stato raggiunto dopo un lungo negoziato politico  tra il Parlamento europeo (guidato dalla relatrice Lara Wolters), il Consiglio UE (coordinato dalla presidenza spagnola), e la Commissione europea. Tuttavia, anche se i colegislatori dell’UE hanno raggiunto un compromesso politico, il testo finale che comporrà la CSDDD rimane in sospeso. Sono necessarie riunioni tecniche per perfezionare gli accordi e garantire che non vi siano lacune. Successivamente, il Consiglio, sotto la prossima presidenza belga, e in seguito il Parlamento europeo voteranno per approvare il testo finale, aprendo la strada all’attuazione della direttiva a livello nazionale.

La Campagna Abiti Puliti, insieme al network della Clean Clothes Campaign a livello internazionale e alle organizzazioni della rete Impresa2030 a livello nazionale, continuerà a monitorare questo processo perché si arrivi a un testo definitivo che garantisca pienamente i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici dell'abbigliamento.


Palestina: dichiarazione degli attivisti per un lavoro dignitoso contro l’apartheid

Come sindacalisti, attivisti e organizzatori di campagne del settore dell’abbigliamento impegnati contro l’ingiustizia, il razzismo e l’illegittimità del colonialismo, non accettiamo di stare in disparte e assistere inermi alla brutalità attuata dal colonialismo occupante.  E’una questione di diritto alla terra e di autodeterminazione.

La colonizzazione della Palestina da parte di Israele è avvenuta, e continua ad avvenire, per mezzo dell’apartheid, della pulizia etnica e del genocidio.

PERCHÉ QUESTO TEMA RIGUARDA L’INDUSTRIA DELLA MODA?

Lo sfruttamento nel settore dell’abbigliamento affonda le proprie radici in pratiche affaristiche che si basano sul lavoro non pagato in tutto il Sud globale. Il che perpetua l’eredità coloniale che si fonda sulla costante estrazione di ricchezza da parte del capitale a spese delle comunità che non hanno la pelle bianca.

Le pratiche di sfruttamento attuate nell’industria dell’abbigliamento in Palestina illustrano chiaramente la dura realtà dei lavoratori sotto occupazione israeliana. Le industrie manifatturiere di Israele appaltano la produzione a Gaza dove i lavoratori sono pagati molto meno dei loro colleghi israeliani di pari qualifica. Le industrie manifatturiere israeliane approfittano dell’alto tasso di disoccupazione presente a Gaza, per costringere i lavoratori ad accettare qualsiasi salario e qualsiasi condizione di lavoro.

Il che mostra come nell’industria dell’abbigliamento la questione razziale sia intrinsecamente connessa al capitalismo e come esso operi attraverso metodi coloniali. Le imprese israeliane traggono profitti dal crollo dei salari dei palestinesi e dalla loro condizione di popolo sottomesso

L’attività tessile della Palestina, un tempo fiorente, è stata duramente colpita dalle pratiche messe in atto dall’occupazione. Fra le tante difficoltà citiamo i ritardi nelle consegne dovute agli innumerevoli posti di blocco nei territori occupati, mentre l’assedio in corso a Gaza impedisce l’approvvigionamento di semilavorati e la fornitura di energia elettrica.

Di conseguenza, per poter sopravvivere, i proprietari dei laboratori sono costretti a fare scelte pesanti, compresa la riduzione dei salari. A tutto vantaggio dei marchi committenti che traggono beneficio dalla colonizzazione della Palestina attraverso pratiche illegittime come:

  1. L’approvvigionamento di prodotti finiti presso laboratori situati nei territori sequestrati e occupati illegalmente;
  2. L’apertura di negozi a marchio proprio su territori sequestrati e occupati illegalmente;
  3. La stipula di contratti che danno legittimità alla nascita di nuovi insediamenti illegali nel territorio palestinese (vedi ad esempio la pagina del movimento BDS su PUMA)

Aderendo alle richieste di solidarietà internazionale lanciate dai Palestinesi di Gaza, e non solo, chiediamo:

  1. Un immediato cessato il fuoco e la fine dei bombardamenti di Gaza;
  2. Il ripristino immediato delle forniture a Gaza, dei beni essenziali e degli aiuti umanitari;
  3. La fine degli ordini di evacuazione degli ospedali di Gaza da parte di Israele;
  4. La cessazione dell’invasione di Gaza;
  5. La fine delle esportazioni di armi e di tecnologie militari, nonché del sostegno economico ad Israele da parte dell’Occidente;
  6. La fine dell’occupazione illegale della Palestina.

In risposta all’appello lanciato dai sindacati Palestinesi che chiedono di intraprendere un’azione internazionale contro le imprese che si rendono complici dell’assedio brutale e illegale di Israele, noi ci impegniamo a:

  1. Prendere posizione pubblica e agire contro le imprese della moda che profittano dell’occupazione israeliana in Palestina;
  2. Prendere posizione pubblica e agire contro la produzione, trasporto e gestione di vestiario destinato al personale Israeliano impegnato nell’occupazione della Palestina, in particolare divise per poliziotti e guardie carcerarie.

Salari in Bangladesh: ignorate le richieste dei lavoratori

Il governo del Bangladesh propone un nuovo salario minimo di 12.500 BDT (105 euro) al mese, ignorando le richieste disperate dei lavoratori.
Martedì 7 novembre, il ministero del Lavoro del Bangladesh ha proposto un nuovo salario minimo per i 4,4 milioni di lavoratori e lavoratrici tessili del Paese, pari a 12.500 BDT (105 euro). L'importo è di gran lunga inferiore alla richiesta sindacale di 23.000 BDT, un salario che gli studi confermano essere il minimo necessario per assestarsi al di sopra della soglia di povertà.

Il nuovo salario minimo condannerebbe ancora una volta i lavoratori a una lotta per la sopravvivenza: dovrebbero continuare a fare affidamento sui guadagni ottenuti con turni extra (oltre alle normali 48 ore settimanali), sui prestiti e sul fatto di saltare i pasti per risparmiare. I salari miseri sono anche il motivo principale per cui i genitori si trovano talvolta costretti a chiedere ai figli di lavorare.

Il processo di determinazione dei salari, estremamente poco trasparente e parziale, è stato portato a termine dopo settimane di disordini. I lavoratori di tutto il Paese hanno iniziato a protestare dopo che il mese scorso la BGMEA aveva proposto di aumentare il salario minimo ad appena 10.400 BDT. Almeno 3 lavoratori sono stati uccisi durante le proteste, mentre decine sono rimasti feriti a causa delle violenze da parte della polizia con gas lacrimogeni, proiettili di gomma e munizioni vere. Sono state avviate cause contro i lavoratori che hanno protestato, sollevando serie preoccupazioni per gli arresti repressivi. L'annuncio di ieri potrebbe scatenare ulteriori disordini nella capitale.

I proprietari delle fabbriche del Bangladesh affermano di non potersi permettere un salario minimo superiore a 12.500 BDT, e alcuni sostengono che questo salario potrebbe addirittura mettere fuori mercato alcuni sub-fornitori. Sono gli acquirenti - i marchi internazionali della moda - a dettare i prezzi nel settore. In linea di principio, i loro prezzi di acquisto dovrebbero sempre consentire ai proprietari delle fabbriche di pagare ai lavoratori un salario dignitoso. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, i prezzi pagati dai marchi sono appena sufficienti a pagare i salari minimi di povertà.

Nonostante i numerosi appelli della Clean Clothes Campaign affinché gli acquirenti internazionali appoggiassero esplicitamente la richiesta sindacale di un salario minimo di 23.000 BDT e assicurassero ai fornitori che avrebbero aumentato i loro prezzi in base all'aumento del costo del lavoro, tutti i marchi, tranne uno, si sono rifiutati di farlo*.

Molti marchi che si riforniscono in Bangladesh, tra cui H&M, Next, C&A, Uniqlo e M&S, si sono impegnati da tempo a rispettare il salario dignitoso. Tuttavia, nel momento più cruciale in cui avrebbero potuto usare la loro grande influenza per garantire che i loro lavoratori non vivano in povertà, non hanno agito, dimostrando l’inconsistenza dei loro impegni in materia di salario dignitoso.

Il Primo Ministro non ha ancora implementato il nuovo salario. Spetta ora a questi marchi garantire che i lavoratori della loro catena di fornitura guadagnino almeno 23.000 BDT, che non è ancora un salario dignitoso, ma il minimo indispensabile per sbarcare il lunario.

I sindacati del Bangladesh, proprio come cinque anni fa, hanno sollevato aspre critiche sull'integrità del processo di determinazione dei salari. Chiedono revisioni annuali, anziché una volta ogni cinque anni, e che il referente dei lavoratori nel comitato salariale sia scelto tra i sindacati più rappresentativi. In questa e nelle precedenti trattative, denunciano, questa norma è stata disattesa nominando un referente "favorevole" agli interessi dei datori di lavoro e del governo. Infine, fanno notare come la loro proposta di 23.000 BDT sia coerente con i criteri previsti dalla legge sul lavoro del Paese (il Bangladesh Labor Act) e dagli standard internazionali (la Convenzione 131 dell'OIL sulla determinazione del salario minimo), diversamente dalla proposta dei datori di lavoro.

* Patagonia è stato l'unico marchio a sostenere esplicitamente la richiesta sindacale di 23.000 Taka, ma non si è impegnata ad aumentare i prezzi che avrebbe pagato al suo fornitore. Altri marchi hanno appoggiato vagamente le richieste di aumento dei salari, ma si sono rifiutati di sostenere esplicitamente la richiesta sindacale di 23.000 Taka o di impegnarsi ad aumentare i prezzi di acquisto.


(2023) REPORT: I voli dannosi della fast fashion

Con migliaia di tonnellate di capi trasportati in aereo, la società madre di Zara, Inditex, e i negozi online come Shein stanno aggravando la crisi climatica







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Condanniamo la repressione contro i lavoratori che protestano per l'aumento dei salari in Bangladesh

La Clean Clothes Campaign (CCC) condanna fermamente la violenta repressione in Bangladesh dei lavoratori tessili che chiedono un aumento salariale a 23.000Tk (193 euro) e invita il governo del Paese a garantire immediatamente il rispetto del diritto dei lavoratori a manifestare. Siamo solidali con tutti coloro che piangono la scomparsa di Rasel Hawlader, operaio colpito da un proiettile durante una protesta.

Mentre pubblichiamo questa dichiarazione, è stato confermato che almeno un'altra persona ha perso la vita durante i disordini, anche se la sua identità e le circostanze sono ancora in attesa di chiarimenti. È chiaro che la repressione sta raggiungendo livelli senza precedenti. Mentre i lavoratori e le lavoratrici rischiano la vita per dare voce alle loro rivendicazioni, i marchi che si riforniscono in Bangladesh si rifiutano di sostenere le loro richieste nelle trattative salariali, legittimando così l'ambiente antidemocratico in cui avviene la revisione salariale.

Le proteste a Gazipur sono iniziate la settimana scorsa, dopo che la Bangladesh Garment Manufacturers and Exporters Association (BGMEA) ha presentato la sua proposta di fissare il nuovo salario minimo nel settore dell'abbigliamento a 10.400Tk (87 euro), meno della metà della richiesta dei sindacati di 23.000Tk (193 euro). L'esigua proposta dei datori di lavoro dimostra ancora una volta quanto le legittime aspirazioni dei lavoratori e delle lavoratrici non vengano per nulla prese in considerazione, nonostante siano in linea con i criteri prescritti dalla Legge sul lavoro del Bangladesh e dalla Convenzione 131 dell'OIL in tema di salario minimo.

Le proteste di Gazipur si stanno diffondendo in altre aree del Bangladesh. L'uccisione di Rasel Hawlader testimonia la durezza della repressione nei confronti dei lavoratori e delle lavoratrici. Siamo preoccupati che si ripetano le pesanti ritorsioni già avvenute 5 anni fa proprio durante l'ultima revisione salariale.

Chiediamo al governo del Bangladesh di porre immediatamente fine alla violenza usata contro i lavoratori, che hanno il diritto di manifestare secondo la legge del Bangladesh, e di smettere di politicizzare le proteste salariali, riconoscendo invece le agitazioni come una reazione diretta all'oltraggiosa proposta della BGMEA, che semplicemente intrappolerebbe i lavoratori nella povertà per altri cinque anni, a prescindere dal panorama politico del Bangladesh.

Anche i marchi che si riforniscono nel Paese hanno un ruolo innegabile nei recenti sviluppi. La maggior parte si è rifiutata di rilasciare una dichiarazione pubblica a sostegno della richiesta dei sindacati di 23.000Tk, ignorando diverse sollecitazioni in tal senso da parte dei sindacati e della Clean Clothes Campaign. Nonostante i loro codici di condotta e gli impegni assunti nei confronti di meccanismi di determinazione di salari trasparenti e inclusivi, la maggior parte non è riuscita a garantire che la voce dei lavoratori fosse ascoltata durante le negoziazioni salariali.

Chiediamo quindi a tutti i marchi che si riforniscono in Bangladesh di condannare immediatamente la violenza usata contro i lavoratori che chiedono un salario minimo di 23.000Tk, di confermare il loro impegno per un prezzo equo, di chiedere che le rivendicazioni dei lavoratori e dei sindacati indipendenti siano ascoltate dal Comitato per i salari e di garantire che il diritto dei lavoratori alla libertà di associazione sia protetto.

Siamo solidali con gli amici e la famiglia di Rasel Hawlader e con i parenti del lavoratore la cui identità non è ancora stata confermata. Siamo solidali con tutti i lavoratori e le lavoratrici che mettono a rischio la propria vita nell'esercizio del proprio diritto alla libertà di associazione.


GenovaJeans: la nostra audizione in Consiglio Comunale

Stamattina (30 Ottobre) siamo stati auditi dalle COMMISSIONI IV - PROMOZIONE DELLA CITTA' e COMMISSIONE VI - SVILUPPO ECONOMICO del Comune di Genova, riunite in seduta congiunta per discutere dei costi e delle ricadute sulla città della iniziativa Genova Jeans, la kermesse dedicata al denim con un programma ambizioso ma del tutto privo di contenuti sociali (come se fosse possibile parlare di Jeans sostenibili senza dare voce alle istanze e alle proposte di chi li produce, dal campo al confezionamento, spesso per paghe da fame e in condizioni insicure) terminata lo scorso 8 ottobre.

Costi che, nonostante le ripetute richieste formali dei consiglieri di minoranza di avere accesso al bilancio preventivo, non sono mai stati resi noti. Fino ad oggi, quando l’assessore al Bilancio nonché Vice Sindaco Pietro Piciocchi, ha comunicato in aula VERBALMENTE i dati, provvisori. Li riportiamo qui, dai nostri appunti presi in aula:

  • Costi a carico del Comune di Genova: ca. 620mila euro, suddivisi in:
    • Strategia e coordinamento - 100mila euro
    • Hub, talk, collettive - 140mila euro
    • Accoglienza - 50mila euro
    • Eventi edutainment - 100mila euro
    • Allestimenti via del jeans e lab - 60mila euro
    • Comunicazione e promozione - 170mila euro
  • San Paolo: 50mila euro
  • ICE: 300mila euro

Costo complessivo evento: ca. 1 milione di euro

Leggi la nostra Relazione


EVENTO: Contro le pratiche commerciali sleali e il lavoro povero nella moda

Quando acquistiamo un abito, una borsa o l’ennesimo paio di scarpe a poco prezzo, ci chiediamo chi ne paghi le conseguenze? C’è da dire che anche comprando un prodotto di lusso non siamo sicuri che siano garantiti diritti, sicurezza e un salario giusto ai lavoratori che lo producono. Ciò avviene nel caso di produzioni internazionali ma anche il made in Italy non sfugge a certe logiche.

Ma quali sono le cause del generale impoverimento del settore moda? E quali le possibili soluzioni per una transizione giusta e inclusiva?

Ne parliamo con i protagonisti del mondo del lavoro, delle imprese, dell’attivismo e degli Enti Locali a partire da due recenti ricerche di Clean Clothes Campaign / Fair Trade Advocacy Office e di CNA Federmoda che affrontano il tema cruciale dei rapporti di potere nelle catene di fornitura in Italia.

Saluti introduttivi: Stefania Gasparini - Vicesindaca Comune Carpi

Intervengono: David Cambioli - Equo Garantito, Deborah Lucchetti - Fair/Campagna Abiti Puliti,  Paolo Pernici - CNA Federmoda Toscana, Gaetano Aiello - Università di Firenze, Daniele Dieci - CGIL Modena, Cristina Cotorobai- attivista, content creator, Vincenzo Colla - Assessore Regione Emilia Romagna

Modera: Giulia Bosetti, giornalista RAI

Al termine aperitivo sostenibile

Vi aspettiamo il 4.10 alle 17:00 in Via San Rocco 1 - Carpi

PRENOTA IL TUO POSTO: https://www.eventbrite.com/e/biglietti-contro-le-pratiche-commerciali-sleali-e-il-lavoro-povero-nella-moda-722606133397


La Clean Clothes Campaign sostiene i sindacati del Bangladesh nella loro richiesta di aumento del salario minimo di 23.000Tk

Per la prima volta dopo cinque anni il governo del Bangladesh ha formato una commissione salariale per la revisione del salario minimo del settore tessile del Paese, che impiega circa 4 milioni di lavoratori e lavoratrici. L'attuale salario minimo di 8.000 taka (circa 74 dollari) era già insufficiente per una vita dignitosa quando è entrato in vigore nel 2019. Da allora, i lavoratori e le lavoratrici hanno dovuto sopportare l'ulteriore pressione della pandemia di Covid-19 e il conseguente rialzo dell’inflazione senza vedere il loro salario aumentare.

La nuova richiesta di un salario minimo di 23.000 taka (212 USD) è stata calcolata sulla base di un ampio studio sul costo della vita condotto dall'Istituto per gli studi sul lavoro del Bangladesh ed è stata sostenuta all'unanimità dai sindacati del Paese e dal sindacato globale IndustriALL. I partner della CCC in Bangladesh non hanno seggi nel Comitato salariale, e nemmeno altri sindacati indipendenti, ma organizzeranno azioni di campagna locali per dare voce a questa richiesta.

La revisione del salario minimo di quest'anno avviene in un momento difficile per il movimento per i diritti dei lavoratori del Bangladesh. Il recente omicidio del sindacalista Shahidul Islam ci ricorda l'ambiente incredibilmente repressivo in cui si svolgono le trattative salariali. In passato, le revisioni del salario minimo hanno portato a una quantità sconvolgente di disordini. Nel 2018 un lavoratore è stato ucciso, decine sono rimasti feriti e migliaia hanno perso il lavoro. La Clean Clothes Campaign è solidale con i sindacati del Bangladesh che lottano per un salario minimo più alto e più giusto. Esortiamo tutte le parti coinvolte a rispettare il diritto dei sindacati di condurre campagne pacifiche e collettive per le loro richieste salariali.

Note:


Sfruttamento mondiale: Adidas e Nike #PayYourWorkers

MAIL BOMBING AD ADIDAS

COMPILA IL FORM CON I TUOI DATI PER MANDARE SUBITO UNA MAIL AI VERTICI DELL'AZIENDA

In Australia e Nuova Zelanda si disputano i Mondiali di Calcio Femminile 2023.

ADIDAS ha lanciato la sua campagna con lo slogan "Play Until They Can't Look Away". Quando tutto il mondo vi guarda, giocate finché non riusciranno a distogliere lo sguardo.
"Vogliamo ispirare anche la prossima generazione a perseguire il proprio sogno e spingerle verso nuove possibilità" sono le parole d'ordine.
Davvero?? Per questo Adidas ha sottratto 11,7 milioni di dollari in salari non pagati alle lavoratrici cambogiane? Quando le lavoratrici hanno protestato e sono state arrestate, verso quali "possibilità" le stavate spingendo?
Adidas e i suoi fornitori derubano le lavoratrici anche quando le licenziano: alle operaie della fabbrica Hulu Garment in Cambogia, licenziate nel 2020, non sono mai stati pagati 1,1 milioni di dollari di indennità di licenziamento, come previsto dalla legge.
Lo schema è chiaro. Quando le lavoratrici si esprimono per migliorare le loro condizioni, subiscono intimidazioni, discriminazioni e ritorsioni. Quando si organizzano, adidas dà la priorità ai suoi profitti e antepone il profitto alle persone, ogni volta. Adidas ha derubato le lavoratrici, sta ancora rubando e continuerà a farlo a meno che non si sieda al tavolo per negoziare un accordo.
Lo slogan corretto sarebbe "PAY Until They Can't Look Away"...


FIRMA ORA


MAIL BOMBING
A NIKE E MATALAN

COMPILA IL FORM CON I TUOI DATI PER MANDARE SUBITO UNA MAIL AI VERTICI DELLE DUE AZIENDE

Tra i principali sponsor tecnici dei Mondiali di calcio femminile c’è Nike. Milioni di dollari usati per pubblicizzare il proprio impegno a favore dello sport, sottratti alle lavoratrici che producono i loro capi.
Come le operaie della Hong Seng Knitting in Thailandia: quando la fabbrica è stata temporaneamente chiusa durante la pandemia, la legge imponeva di pagare alle lavoratrici parte del loro salario. Invece, sono state costrette ad accettare permessi non retribuiti, un furto salariale di oltre 800.000 dollari.
O come le lavoratrici della Ramatex, in Cambogia, di cui Nike è il principale cliente: 1284 persone licenziate senza una valida ragione e lasciate senza stipendio. Ora Nike e Ramatex, nonostante le leggi cambogiane sul lavoro e nonostante il Codice di Condotta della stessa Nike, si rifiutano di pagare a queste operaie ciò che è loro legalmente dovuto in termini di indennità di licenziamento e danni: 1,4 milioni di dollari.
Chiediamo a Nike di assumersi le sue responsabilità: #PayYourWorkers #RespectLabourRights


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Per i Mondiali di calcio femminile in Australia e Nuova Zelanda @adidaswomen ha lanciato la sua campagna con lo slogan "Play Until They Can't Look Away". Quando tutto il mondo vi guarda, giocate finché non riusciranno a distogliere lo sguardo.
"Vogliamo ispirare anche la prossima generazione a perseguire il proprio sogno e spingerle verso nuove possibilità" sono le parole d'ordine.
Davvero?? Per questo Adidas ha sottratto 11,7 milioni di dollari in salari non pagati alle lavoratrici cambogiane? Quando le lavoratrici hanno protestato e sono state arrestate, verso quali "possibilità" le stavate spingendo?
Adidas e i suoi fornitori derubano le lavoratrici anche quando le licenziano: alle operaie della fabbrica Hulu Garment in Cambogia, licenziate nel 2020, non sono mai stati pagati 1,1 milioni di dollari di indennità di licenziamento, come previsto dalla legge.
Lo schema è chiaro. Quando le lavoratrici si esprimono per migliorare le loro condizioni, subiscono intimidazioni, discriminazioni e ritorsioni. Quando si organizzano, adidas dà la priorità ai suoi profitti e antepone il profitto alle persone, ogni volta. Adidas ha derubato le lavoratrici, sta ancora rubando e continuerà a farlo a meno che non si sieda al tavolo per negoziare un accordo.
Lo slogan corretto sarebbe "PAY Until They Can't Look Away"...
#PayYourWorkers #RespectLabourRights



Tra i principali sponsor tecnici dei Mondiali di calcio femminile in Australia e Nuova Zelanda c’è @Nike. Milioni di dollari usati per pubblicizzare il proprio impegno a favore dello sport, sottratti alle lavoratrici che producono i loro capi.
Come le operaie della Hong Seng Knitting in Thailandia: quando la fabbrica è stata temporaneamente chiusa durante la pandemia, la legge imponeva di pagare alle lavoratrici parte del loro salario. Invece, sono state costrette ad accettare permessi non retribuiti, un furto salariale di oltre 800.000 dollari.
O come le lavoratrici della Ramatex, in Cambogia, di cui Nike è il principale cliente: 1284 persone licenziate senza una valida ragione e lasciate senza stipendio. Ora Nike e Ramatex, nonostante le leggi cambogiane sul lavoro e nonostante il Codice di Condotta della stessa Nike, si rifiutano di pagare a queste operaie ciò che è loro legalmente dovuto in termini di indennità di licenziamento e danni: 1,4 milioni di dollari.
Chiediamo a Nike di assumersi le sue responsabilità: #PayYourWorkers #RespectLabourRights




Sul salario minimo finalmente una proposta unitaria, ma 9 euro lordi non bastano

Finalmente le opposizioni hanno trovato la quadra sul salario minimo. Questa è una buona notizia. Nel merito l’accordo converge sui 9 euro lordi unitamente a diverse altre proposte, su cui val la pena soffermarsi.

Partiamo dalle note positive. Oltre alla premessa sempre più condivisa anche nel mondo sindacale che riconosce la necessità di intervenire per legge a riequilibrare un sistema di relazioni industriali evidentemente asimmetrico che ha portato negli anni ad un progressivo impoverimento dei lavoratori italiani, molto importante è l’estensione del trattamento economico complessivo previsto dai migliori CCNL a tutti i lavoratori, indipendentemente dallo status contrattuale e inclusi dunque gli autonomi e i parasubordinati, perché qualunque legge sul salario minimo deve costituire un rafforzamento della contrattazione collettiva, garanzia di istituti e diritti non solo monetari. Bene anche la previsione di istituire una Commissione composta da rappresentanti istituzionali e dalle parti sociali che avrebbe come compito principale quello di aggiornare periodicamente il trattamento economico minimo orario, a patto però che ciò non diventi un ostacolo all’effettivo e periodico aggiornamento del salario minimo rispetto all’indice dei prezzi al consumo, senza dimenticare anche l’adeguamento della composizione del paniere.

Decisamente non condivisibile invece è l’idea di sussidiare con contributi pubblici le imprese che non riescono ad adeguarsi al nuovo trattamento minimo. Questo è inaccettabile, visto che qui stiamo parlando di quel livello minimo che dovrebbe consentire ai lavoratori di vivere dignitosamente con la propria famiglia, mandando i figli a scuola, pagando affitto e utenze domestiche per una casa decente, oltre a procurare vestiario e cibo di qualità e quantità sufficiente, possibilmente non prodotto sottocosto sulla pelle di altri lavoratori, in genere migranti. Un salario che dovrebbe consentire a tutti i lavoratori di riparare l’auto o la lavatrice, se necessario, andare dal dentista o fare un esame diagnostico urgente, se i tempi biblici del (fu) Servizio Sanitario Nazionale rischiano di compromettere cure salvavita, di andare in ferie, al cinema, a un concerto. Di questo stiamo parlando, non di vezzi, sprechi o lussi. Se un’ impresa non è nelle condizioni di garantire questo livello salariale a tutti i suoi dipendenti e collaboratori, probabilmente le considerazioni da fare sono altre e più complessive sullo stato di salute dell’economia italiana.

Le imprese che non possono garantire questo livello minimo a tutti i dipendenti, o sono imprese nate e pasciute sullo sfruttamento endemico del lavoro povero, perciò disfunzionali al mantenimento di un tessuto produttivo sano, sostenibile e innovativo o sono fornitori di marchi committenti che accumulano ingenti profitti ed extra-profitti, alla base della inflazione fuori controllo i cui costi sono pagati, ancora una volta, da lavoratori e  lavoratrici.
I soldi per pagare il salario minimo devono arrivare da qui, da una diversa distribuzione del valore accumulato lungo le catene di fornitura, per una grande operazione di giustizia distributiva, ovvero di restituzione dall’alto verso il basso (le PMI e i lavoratori). È qui, entro relazioni commerciali di filiera (nel privato e nel pubblico) fondate su pratiche e prezzi di acquisto equi, che si devono cercare le risorse per garantire un salario dignitoso a tutti quelli che lavorano mandando avanti l’economia italiana in tutti i settori, da quelli essenziali come la cura, fino al turismo e alla moda.

Veniamo adesso ai 9 euro lordi ma prima chiariamoci sulle parole.
Se si vuole assicurare il diritto di ogni lavoratore,”ad una retribuzione sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa”, allora con 9 euro lordi non si va lontano.
Secondo i nostri calcoli pubblicati nel 2022, cifra oggi superata dalla fiammata inflattiva che in due anni ha ulteriormente eroso almeno del 15% salari da 30 anni in caduta libera (i peggiori d’Europa), il valore del salario che rispetti il dettato costituzionale dovrebbe essere di almeno 1.905 euro netti al mese, cioè 11 euro netti all’ora. Sono calcoli fondati su un metodo solido, semplice e comprensibile a chiunque, perché ancorato alla materialità del costo della vita, numeri che i lavoratori conoscono a menadito, lottando ogni giorno con il bilancio familiare in bilico.



La proposta

1. al lavoratore di ogni settore economico sia riconosciuto un trattamento economico complessivo non inferiore a quello previsto dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative, salvo restando i trattamenti di miglior favore;

2. a ulteriore garanzia del riconoscimento di una giusta retribuzione, venga comunque introdotta una soglia minima inderogabile di 9 euro all’ora, per tutelare in modo particolare i settori più fragili e poveri del mondo del lavoro, nei quali è più debole il potere contrattuale delle organizzazioni sindacali;

3. la giusta retribuzione così definita non riguardi solo i lavoratori subordinati, ma anche i rapporti di lavoro che presentino analoghe necessità di tutela nell’ambito della parasubordinazione e del lavoro autonomo;

4. conformemente anche a quanto previsto nella direttiva sul salario minimo, sia istituita una Commissione composta da rappresentanti istituzionali e delle parti sociali comparativamente più rappresentative che avrà come compito principale quello di aggiornare periodicamente il trattamento economico minimo orario;

5. sia disciplinata e quindi garantita l’effettività del diritto dei lavoratori a percepire un trattamento economico dignitoso;

6. sia riconosciuta per legge l’ultrattività dei contratti di lavoro scaduti o disdettati;

7. sia riconosciuto un periodo di tempo per adeguare i contratti alla nuova disciplina, e un beneficio economico a sostegno dei datori di lavoro per i quali questo adeguamento risulti più “oneroso”.

Lasciamo agli esperti i conti sul lordo necessario a garantire questa cifra che le persone devono capire al volo, senza avere necessariamente una laurea in economia per leggere le buste paga, quando ci sono. Per questo il salario minimo, a nostro avviso, deve essere un valore netto.

Quanti contratti collettivi, non solo quelli c.d. pirata siglati da organizzazioni di comodo, hanno minimi tabellari al di sotto di questa soglia?
Probabilmente molti anche se, e ciò è tremendamente importante, interviene il famoso trattamento economico complessivo e, ove possibile, la contrattazione integrativa a correggere paghe base a volte troppo basse. Per chi ne gode ovviamente, perché poi i contratti sappiamo che non valgono per tuttə e non basta siglarli, bisogna anche farli applicare. Per questo è fondamentale non ostacolare la libertà di associazione sindacale e rafforzare l’Ispettorato Nazionale del Lavoro per combattere la piaga dilagante del lavoro nero e dell’evasione contributiva e fiscale. Tuttavia tale necessario rafforzamento non sembra essere in testa all’agenda della Ministra del Lavoro Calderone. Nè la garanzia dell'esercizio dei diritti sindacali fondamentali, come dimostrano le stucchevoli azioni repressive esercitate nei confronti di sindacalisti e lavoratori stranieri sfruttati nella catena degli appalti made in Italy al servizio di Mondo Convenienza, da oltre 35 giorni in sciopero per chiedere il rispetto di diritti minimi, per citare un caso di attualità.

Per tutti gli altri e le altre, attualmente esclusi dalla platea dei beneficiari di rapporti di lavoro subordinato e che possono godere anche di contrattazione di secondo livello, 9 euro lordi, più o meno 7 euro e spicci, sono pari a circa 1.280 euro netti al mese*, troppo pochi per vivere con dignità, anche se al di sopra della soglia di povertà lavorativa stabilita dall’Istat per il 2022 pari a 11.155 euro. Per questo è cruciale sia l’estensione erga omnes del trattamento economico complessivo previsto dai migliori CCNL con istituti fondamentali come malattia, maternità TFR, 13ma e 14ma, sia aumentare la soglia del livello minimo.

Ma da dove nasce il valore di 9 euro lordi?
I parametri convenzionali situano la soglia di povertà al di sotto del 60% del salario mediano lordo oppure del 50% del salario medio lordo del paese di riferimento. Per l'Italia la media fra questi parametri corrisponde a circa 9 euro, considerando i dati INPS più recenti per chi ha continuità lavorativa.

Il problema è che in un paese con redditi da lavoro in picchiata libera da 30 anni come l’Italia, i valori medi o mediani rischiano di condannare milioni di lavoratori alla povertà. Questa è la critica che come Clean Clothes Campaign abbiamo sollevato a livello europeo in merito alla Direttiva sui salari adeguati con particolare riferimento ai Paesi dell’Europa Sud-Orientale. La garanzia di una esistenza libera e dignitosa per definizione non può essere subalterna alle logiche di mercato e deve invece rimanere ancorata ai bisogni reali dei lavoratori e delle loro famiglie. Per questo il costo della vita dovrebbe essere incluso tra i parametri chiave per attribuire il giusto valore al salario minimo, ciò che abbiamo provato a fare con la nostra proposta.
Un esercizio che suggeriamo ai partiti dell'opposizione di fare prima di depositare la proposta di legge unitaria che, nonostante le convinzioni in senso contrario della Ministra del Lavoro, è necessario che diventi presto oggetto di un genuino processo parlamentare.

*considerando una settimana di lavoro standard di 40 ore e 52 settimane all’anno (per chi ha continuità lavorativa) senza beneficio riduzione cuneo fiscale in vigore fino a dicembre 2023


Leggi il rapporto


Bangladesh: La Clean Clothes Campaign condanna l'uccisione del sindacalista Shahidul Islam

La Clean Clothes Campaign (CCC) ha appreso con sgomento la terribile notizia del brutale assassinio di Shahidul Islam, leader sindacale picchiato a morte per il suo attivismo per i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici a Tongi, Gazipur, Bangladesh. Membro della Bangladesh Garment and Industrial Workers Federation (BGIWF) per 25 anni, ha lottato per i diritti dei lavoratori come promotore sindacale ed è morto combattendo per le sue convinzioni. Desideriamo porgere le nostre sincere condoglianze alla sua famiglia, ai suoi amici e ai suoi compagni in lutto.

Il governo del Bangladesh dovrebbe indagare immediatamente e in modo imparziale sull'omicidio di Shahidul Islam e intraprendere azioni punitive contro gli autori di questo orrendo assassinio.

Shahidul, presidente del comitato distrettuale di Gazipur della BGIWF, e i suoi colleghi sono stati aggrediti dopo aver lasciato l'incontro con la direzione della fabbrica Prince Jacquard Sweaters Ltd promosso per aiutare i lavoratori a riscuotere le gratifiche e i salari dovuti. La dirigenza della fabbrica, infatti, si era rifiutata di adempiere ai propri doveri nonostante l'ufficio del vice commissario (DC) del distretto di Gazipur le avesse ordinato di pagare gli stipendi ai lavoratori e alle lavoratrici.

In base ai dati sulle importazioni, i marchi T.K. Maxx, Tessival, Global Fashion Icon, N.E Brands LCC, Suzy's Inc, RD Style e New Yorker sembrano rifornirsi dalla Prince Jacquard Sweaters Ltd. Stati Uniti, Canada, Italia, Spagna e Danimarca sono le principali aree di esportazione. La CCC sta raccogliendo in queste ore ulteriori dati sugli acquirenti dello stabilimento.

Quando hanno lasciato l'incontro, Shahidul e gli altri rappresentanti sindacali sono stati avvicinati da un gruppo che li ha aggrediti, prendendo ferocemente a pugni e a calci Shahidul e lasciandolo privo di sensi e gravemente ferito. È stato dichiarato morto in un ospedale vicino. Questa orrenda violenza rappresenta un'immensa perdita per il movimento sindacale del Bangladesh.

Gli altri rappresentanti hanno ricevuto cure mediche ma non sono stati ricoverati.

Kalpona Akter, presidente della BGIWF, ha dichiarato: "Shahidul ha convinto migliaia di lavoratori e lavoratrici ad aderire ai sindacati, mettendoli in grado di diventare solidi leader a livello di fabbrica. Nel corso della sua vita, ha aiutato migliaia di lavoratori a ricevere gli arretrati e le indennità di licenziamento ingiustamente negate dai loro datori di lavoro. Con i bisogni dei lavoratori sempre in mente, Shahidul e altri tre rappresentanti si sono incontrati la sera della sua morte per discutere una risoluzione pacifica di una disputa salariale e del bonus per la festa di Eid-ul-Azha. Il suo contributo al movimento sindacale è stato notevole e ci mancherà molto".

Non è la prima volta che la BGIWF è vittima di un attacco così fatale. Undici anni fa, nell'aprile 2012, un altro leader operaio, Aminul Islam, fu torturato e ucciso. Anche Aminul faceva parte della BGIWF, un attore chiave nel movimento del Paese per la promozione dei diritti dei lavoratori.

Gli omicidi dei sindacalisti servono a reprimere la libertà di associazione in Bangladesh. Temiamo che, proprio come l'uccisione di Aminul nel 2012, l'omicidio di Shahidul Islam contribuisca ad intimidire lavoratori e lavoratrici, rendendo ancora più difficile per i leader sindacali il compito di organizzarsi. I lavoratori e le lavoratrici del Bangladesh sono sistematicamente repressi dai datori di lavoro che utilizzano gruppi criminali e sindacati gialli per terrorizzare coloro che promuovono sindacati democratici indipendenti.

Ineke Zeldenrust, coordinatrice internazionale di Clean Clothes Campaign, ha dichiarato: "La rete CCC si unisce a tutti coloro che piangono la perdita di Shahidul Islam. Siamo anche solidali con la BGIWF, con tutti coloro che lottano per esercitare i loro diritti alla libertà di associazione e con i molti lavoratori e membri dei sindacati che continuano a mettere a rischio la propria vita per difendere i diritti e la sicurezza dei lavoratori nelle fabbriche di tutto il Bangladesh".

Shahidul lascia una moglie malata di cancro e due figli. Era l'unico a mantenere tutta la famiglia.

Note:

  • Maggiori informazioni sull'omicidio di Aminul Islam nel 2012
  • Guarda la Timeline del Rana Plaza per vedere la storia della lotta per la libertà di associazione in Bangladesh
  • La CCC sta attualmente confermando e raccogliendo dati sugli altri acquirenti che si riforniscono dalla Prince Jacquard Sweaters Ltd.

Lunga vita alla solidarietà internazionale: i lavoratori della Falc Est hanno vinto la loro prima battaglia.

Dopo due settimane di sciopero, venerdì 16 giugno è stato raggiunto un accordo che soddisfa le richieste dei lavoratori e delle lavoratrici. Inizia una nuova fase delle relazioni industriali e la Clean Clothes Campaign continuerà a monitorare il caso e a sostenere i lavoratori.

Dopo due settimane di sciopero e interruzione della produzione presso lo stabilimento Falc East di Knjaževac, in Serbia, il 16 giugno è stato raggiunto un accordo tra il sindacato Sloga e la direzione dell'azienda. L'accordo prevede un aumento del 10% dei salari a partire dal 19 giugno, oltre a un aumento dei buoni pasto e all'impegno a discutere un aumento degli incentivi a partire da settembre.

Si tratta di un'importante vittoria per i dipendenti di Falc East, filiale dell'italiana Falc e fornitore di prestigiosi marchi globali del lusso tra cui Balenciaga, Gucci (Gruppo Kering), Burberry e Hogan (Gruppo TODs), che da tempo lamentavano salari da fame, ulteriormente colpiti dalla crisi e dall'inflazione.

Circa l'80% dei lavoratori della fabbrica Falc East riceveva salari molto bassi, vicini alla soglia di povertà statistica per la Serbia, appena un terzo di quello che dovrebbe essere il salario di sussistenza per il 2021, come calcolato dall'European Floor Wage.

L'accordo è stato raggiunto grazie alla grande mobilitazione dei lavoratori e delle lavoratrici guidati dal sindacato Sloga, che hanno avuto la forza e il coraggio di esporsi, rinunciando a 11 giorni di salario per dimostrare l'insostenibilità della loro condizione. La coraggiosa lotta salariale dei lavoratori di Knjaževac è stata supportata da numerose organizzazioni della Clean Clothes Campaign che, oltre a firmare una dichiarazione pubblica di sostegno, hanno contattato i marchi clienti di Falc East affinché intervenissero per garantire una soluzione positiva alla vertenza salariale. Come stabilito dal diritto internazionale e come sarà presto introdotto nella direttiva sulla due diligence di sostenibilità delle imprese nei prossimi mesi, i marchi del lusso hanno la responsabilità di garantire che i lavoratori che producono i loro beni ricevano un salario dignitoso, un diritto umano fondamentale. Anche attraverso l'adozione di pratiche commerciali eque, tra cui il pagamento di prezzi adeguati.

Per lavoratori e lavoratrici che lottano ogni giorno per arrivare a fine mese, scioperare per undici giorni non è una scelta semplice. Per questo motivo la Clean Clothes Campaign ha deciso di avviare una campagna di raccolta fondi per contribuire a coprire gli 11 giorni di mancato guadagno dei 600 lavoratori e lavoratrici in sciopero. La stessa richiesta è stata fatta ai marchi internazionali del lusso, i veri datori di lavoro dei lavoratori della Falc East.

Chi desidera contribuire può farlo attraverso questa piattaforma: https://www.donacije.rs/projekat/podrska-radnicima-knjazevac/ .

La coraggiosa lotta dei lavoratori della Falc East è un esempio per tutti i lavoratori in Serbia e in Europa. La Campagna Abiti Puliti continuerà a sostenere questa e tutte le altre lotte per condizioni di lavoro dignitose nell'industria della moda globale, a partire dalla rivendicazione di salari dignitosi.


Sosteniamo la lotta salariale dei lavoratori della Falc East a Knjaževac in Serbia

Le organizzazioni della rete Clean Clothes Campaign hanno firmato la seguente lettera aperta in solidarietà con i lavoratori e le lavoratrici in sciopero della fabbrica Falc East in Serbia.

Scriviamo come organizzazioni parte dalla rete globale della Clean Clothes Campaign in solidarietà con i lavoratori e le lavoratrici in sciopero della fabbrica Falc East e della TU Sloga di Knjaževac, in Serbia. 

Tenendo conto del divario tra i salari percepiti dai lavoratori e il costo reale della vita in Serbia, crediamo che i lavoratori e le lavoratrici della Falc East chiedano il minimo per sopravvivere alla crisi che stanno affrontando. 

La fabbrica Falc East di Knjaževac è una delle filiali dell’italiana Falc Spa, che produce calzature per diversi marchi europei di lusso. Come rivelano i dati disponibili, la fabbrica di Knjaževac produce un milione di paia di scarpe all'anno generando enormi profitti, ma i lavoratori devono sopravvivere con salari da miseria. 

Circa l'80% dei lavoratori e delle lavoratrici della fabbrica Falc East riceve un salario minimo, il che significa che il loro stipendio mensile è vicino alla soglia di povertà statistica per la Serbia, come definita dai calcoli dell'UE - SILC. Il salario minimo in Serbia è di 340 euro al mese, circa un terzo di quello che dovrebbe essere il salario dignitoso per il 2021, secondo quanto calcolato dallo Europe Floor Wage[1].

Quando i lavoratori della Falc East chiedono un aumento del 10% del salario netto, un modesto aumento degli incentivi e un aumento del ticket pasto inferiore a 50 centesimi, non chiedono altro che il minimo indispensabile.

Siamo organizzazioni della Clean Clothes Campaign, una rete globale di oltre 200 sindacati, organizzazioni per i diritti dei lavoratori e ONG che si dedicano al miglioramento delle condizioni di lavoro e all'emancipazione dei lavoratori dell'industria globale dell'abbigliamento. Insieme al sindacato Sloga, ai lavoratori e alle lavoratrici della Falc East valuteremo ulteriori azioni necessarie per sostenere la loro lotta per un salario dignitoso. 

Solidarietà con i lavoratori della Falc East!

Firme (ordine alfabetico)

  • achACT asbl, Belgium
  • Buy Responsible Foundation, Poland
  • Campagna Abiti Puliti, Italy
  • Center for Alliance of Labor and Human Rights (CENTRAL), Cambodia
  • Centre for the Politics of Emancipation, Serbia
  • Center for Policies, Initiatives and Researches PLATFORMA, Moldova
  • Clean Clothes Campaign, Turkey
  • Collective for Social Interventions, Bulgaria
  • Fair, Italy
  • Gender Alliance for Development Center, Albania
  • Gifu General Union, Japan
  • Glasen Tekstilec, Macedonia
  • Globalisation Monitor, Hong Kong
  • Helsinki citizens’ Assembly Banja Luka, Bosnia and Herzegovina
  • Hong Kong Retail, Commerce and Clothing Industry General Union, Hong Kong
  • Hong Kong Women Workers' Association, Hong Kong
  • Institute for Critique and Social Emancipation, Albania
  • Korean House of International Solidarity, South Korea
  • Kilusang Mayo Uno, Philippines
  • Labour Action China, Hong Kong
  • Labour Behind the Label, United Kingdom
  • Mai Bine, Romania
  • MADPET, Malaysia
  • NaZemi, Czech Republic
  • Novi Sindikat, Croatia
  • Open Gate, North Macedonia
  • Pro Ethical Trade, Finland
  • Public Eye, Switzerland
  • REDU, Romania
  • Regional Industrial Trade Union, Croatia
  • Roudou Soudan.Com NPO, Japan
  • ROZA, Serbia
  • Setem, Spain
  • Schone Kleren Campagne, Netherlands
  • Südwind, Austria
  • Workers Hub for Change, Malaysia
  • Zora, Association for Social, Cultural and Creative Development, Bosnia and Herzegovina

[1] Per maggiori informazioni sul benchmark calcolato dalla CCC: https://cleanclothes.org/file-repository/2022-july-background-paper-efw-update-final.pdf/view. Per la versione italiana si veda https://www.abitipuliti.org/report/2022-report-il-salario-dignitoso-e-un-diritto-universale/ .


Il Parlamento Europeo approva la Direttiva sulla Due Diligence di Sostenibilità delle Imprese

1 giugno 2023 - Oggi il Parlamento europeo ha approvato (366 voti a favore, 225 contrari, 38 astenuti) la propria posizione sulla Direttiva sulla Due Diligence di Sostenibilità delle Imprese (CSDDD). La Clean Clothes Campaign / Campagna Abiti Puliti chiede da anni che le aziende siano soggette ad obblighi di dovuta diligenza (due diligence) nei confronti delle proprie filiere, dunque ritiene che questo voto segni un passo importante nella direzione di affermare la responsabilità di impresa.

Un mese fa abbiamo commemorato il decimo anniversario del crollo dell'edificio Rana Plaza in Bangladesh, incidente che causò la morte di almeno 1.138 lavoratori e migliaia di feriti. Questa tragedia raccapricciante ha sconvolto la vita di migliaia di lavoratori e delle loro famiglie. Ha portato l'attenzione mondiale sullo sfruttamento dilagante nell'industria dell'abbigliamento e sulla necessità di responsabilizzare le imprese. Nonostante le promesse di cambiamento, gli impegni volontari assunti dalle aziende non hanno apportato cambiamenti significativi nella vita dei lavoratori e delle lavoratrici dell'abbigliamento.

Negli ultimi anni, i lavoratori, i cittadini e la società civile di tutto il mondo hanno chiesto l’introduzione di normative che proteggessero i lavoratori e le lavoratrici, le comunità e l'ambiente in tutto il mondo e ritenessero le aziende responsabili dei propri impatti negativi.

Il testo approvato oggi dimostra che il Parlamento europeo valorizza il rispetto dei diritti umani e dell'ambiente in tutto il mondo. I membri del Parlamento europeo hanno in parte migliorato la proposta iniziale della Commissione europea e il successivo approccio generale del Consiglio su diversi elementi. Il testo richiede ora a un maggior numero di aziende di effettuare la due diligence lungo tutta la propria catena del valore, in conformità con gli standard internazionali delle Nazioni Unite e dell'OCSE. Le imprese dovranno prestare attenzione a una gamma più ampia di diritti umani e del lavoro, comprese le convenzioni dell'OIL sulla sicurezza e la salute sul lavoro e sulla violenza e le molestie nel mondo del lavoro, nonché il diritto a un salario di sussistenza. Alle aziende verrà chiesto di valutare come i loro modelli commerciali e le loro pratiche di prezzo possano causare danni, riconoscendo così il ruolo delle pratiche di acquisto sleali in molte violazioni. Le vittime di abusi aziendali vedranno inoltre eliminati alcuni degli ostacoli procedurali che devono affrontare per ottenere giustizia.

Ci rammarichiamo, tuttavia, che il Parlamento non abbia incluso la mappatura della catena del valore e la trasparenza tra gli obblighi di due diligence. Un processo completo di identificazione dei rischi dovrebbe includere la mappatura e la divulgazione dei singoli fornitori. Inoltre, nonostante gli innumerevoli rapporti sui fallimenti delle iniziative di audit sociale nel garantire il rispetto dei diritti umani, la relazione del Parlamento attribuisce ancora troppa importanza a tali iniziative. I meccanismi aziendali di reclamo avrebbero dovuto essere resi parte integrante della normativa. Ci preoccupano anche le limitazioni alla affermazione in giudizio della responsabilità civile, a partire dalla mancata inversione dell'onere della prova.

Milioni di lavoratori e lavoratrici dell'abbigliamento in tutto il mondo vedono attaccati ogni giorno i loro diritti alla libertà di associazione, alla salute e alla sicurezza sul lavoro e a salari dignitosi: è giunto il momento per l'UE di cambiare il modo in cui si fa impresa.

A seguito di questo voto, i negoziati tra le tre istituzioni dell'UE inizieranno a breve. Chiediamo ai co-legislatori di seguire l'esempio del Parlamento europeo e di incorporare questi miglioramenti chiave nella versione finale del testo legislativo.


Assemblea azionisti ADIDAS - Entra in azione

MAIL BOMBING AD ADIDAS

COMPILA IL FORM CON I TUOI DATI PER MANDARE SUBITO UNA MAIL AI VERTICI DELL'AZIENDA

Il giorno dell'Assemblea generale di adidas, 11 Maggio, terremo la nostra Giornata internazionale di azione. Faremo in modo che adidas e i suoi azionisti non possano evitare il nostro messaggio: Pay Your Workers, Respect Labour Rights

Mentre coloro che investono in adidas votano sul futuro dell'azienda, noi condividiamo il nostro voto: per i diritti dei lavoratori e la libertà di organizzazione.

Io voto per... la fine dell'abuso dei sindacati, la fine del furto dei salari e dei diritti dei lavoratori, la fine del furto della liquidazione. Voto per l'accordo #PayYourWorkers.

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ATTIVATI

Durante l'Assemblea degli azionisti, @adidas dovrebbe dare voce alle lavoratrici derubate della sua catena di fornitura! Io voto per la fine del furto di salari! #PayYourWorkers, #RespectLabourRights


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Oggi gli azionisti di adidas  si riuniscono per discutere i risultati finanziari dell'azienda e votare sui loro affari durante l'assemblea generale annuale (AGM).

A quanto dicono, "coltivare una cultura aziendale della diversità, dell'equità e dell'inclusione è una delle [loro] priorità ed è radicata nella [loro] strategia per le persone". Eppure…

Il fatturato di adidas nel 2022 è stato di 22,5 miliardi di euro, collocandosi tra i marchi europei con le migliori performance nel 2022 e al secondo posto tra i marchi sportivi più performanti al mondo.

Nel 2022, adidas ha restituito agli azionisti oltre 3,1 miliardi di euro attraverso dividendi e riacquisti di azioni. Inoltre, dopo il licenziamento dell'amministratore delegato Kasper Rorsted a novembre, adidas gli ha versato una buonuscita di 12 milioni di euro.

Nel frattempo, 500 lavoratori e lavoratrici cambogiani tessili, che cucivano prodotti adidas presso Hulu Garment, stanno lottando da tre anni per ottenere una indennità di 1 milione di euro. In Indonesia, migliaia di lavoratori di diverse fabbriche si sono visti negare milioni in indennità più di dieci anni fa, e adidas non è riuscita a porvi rimedio. E così per tante altre lavoratrici della sua catena di fornitura.

In occasione dell'assemblea generale di quest'anno, quando gli azionisti voteranno sulla direzione che prenderà l'azienda, chiediamo ad adidas e ai suoi azionisti di dare voce ai lavoratori e alle lavoratrici dell'abbigliamento: le persone che producono i loro profitti dovrebbero avere voce in capitolo sul futuro di questa azienda.

E, come consumatori, anche voi dovreste avere un voto.

Date il vostro voto ai lavoratori e alle lavoratrici tessili: Votate affinché adidas negozi con i sindacati e firmi l'accordo #PayYourWorkers

https://www.abitipuliti.org/payyourworkers/


(2023) REPORT: Una luce sulle pratiche commerciali sleali

Un nuovo rapporto pubblicato oggi dal Fair Trade Advocacy Office (FTAO) e basato su una ricerca sul campo condotta da Clean Clothes Campaign (CCC) dimostra chiaramente l'esistenza di pratiche commerciali sleali nell'industria europea dell'abbigliamento. Basato su interviste a fornitori, esperti e rappresentanti sindacali in sei Stati membri dell'UE - Bulgaria, Romania, Croazia, Repubblica Ceca, Italia e Germania - il rapporto "Fast Fashion Purchasing Practices in the EU. Business relations between fashion brands and suppliers" restituisce una panoramica chiara delle relazioni commerciali volatili, rischiose e squilibrate tra marchi e produttori.

La ricerca ha evidenziato una tendenza generale alla riduzione dei prezzi, all'accorciamento dei tempi di consegna, all'aumento dei cambi d'ordine, all'allungamento dei termini di pagamento e all'aumento dei costi "nascosti", come la produzione dei campioni iniziali, che vengono trasferiti ai produttori. Tutto ciò mette in difficoltà i fornitori, che non sono in grado di effettuare investimenti e pagare gli stipendi.

Il rapporto si concentra su due grandi cluster di produzione di abbigliamento in Europa: il sistema moda italiano e la produzione dell'Europa centro-orientale e sud-orientale. I marchi che si riforniscono dai produttori intervistati includono ASOS, Metro, MS Mode, Moncler e Otto Group. Presenti anche alcuni marchi di lusso, non citati esplicitamente su richiesta dei partecipanti alla ricerca.

I contratti scritti tra acquirenti e fornitori sono rari e, quando esistono, le loro condizioni sono fortemente sbilanciate a favore di marchi e distributori. "Il contratto con Moncler era come un libro, cioè proteggevano così tanto il loro marchio che se pensavano di aver perso un pezzo, potevi trovarti a offrire risarcimenti tali da andare in bancarotta", ha detto un intervistato. Un altro fornitore ha aggiunto: "Abbiamo voce in capitolo nelle trattative, ma spesso ci fanno pressione. Cerchiamo di resistere. Il processo di negoziazione è lungo e difficile".

La determinazione dei prezzi è fondamentale, ma di solito inizia con la stima del prezzo al dettaglio desiderato da parte del marchio o del distributore; i materiali, la manodopera e gli altri costi di produzione vengono presi in considerazione solo successivamente. Di conseguenza, la ricerca ha rilevato un divario tra quanto viene pagato ai fornitori per la manodopera e quanto sarebbe necessario per coprire i costi dei datori di lavoro, compresi i contributi previdenziali obbligatori e le tasse. In Italia, ad esempio, ciò significa 18 euro all'ora pagati ai fornitori contro i 24 euro all'ora del costo lordo per i datori di lavoro.

In alcuni casi, i fornitori accettano prezzi bassi solo per mantenere la relazione o per sopravvivere, a volte senza realizzare alcun profitto. Inoltre, quando i fornitori dipendono fortemente da un solo acquirente, il rischio di fallimento è molto alto. Un esempio è la fabbrica di Orljava in Croazia, costretta a chiudere quando il marchio tedesco Olymp ha ritirato gli ordini nel 2020.

La crisi di Covid-19 ha ulteriormente esacerbato gli impatti negativi degli squilibri di potere tra acquirenti e fornitori. Molti marchi hanno annullato o sospeso gli ordini lasciando lavoratori e lavoratrici senza reddito, soprattutto nei Paesi con reti di sicurezza sociale estremamente deboli.

Sono necessarie soluzioni urgenti per eliminare le pratiche commerciali sleali dalle catene di fornitura tessili. In particolare le organizzazioni, nella parte finale del rapporto "Fast Fashion Purchasing Practices in the EU", chiedono: il pagamento degli ordini entro 60 giorni; prezzi che coprano i costi di produzione e garantiscano salari dignitosi per i lavoratori; un indennizzo per i cambiamenti degli ordini; una chiara definizione dei termini di rischio e della proprietà dei beni. Le raccomandazioni includono anche un appello all'Unione Europea affinché adotti una direttiva che vieti le pratiche commerciali sleali nel settore dell'abbigliamento, come i ritardi nei pagamenti e i prezzi inferiori ai costi di produzione, garantisca un'applicazione efficace della normativa e fornisca indicazioni dettagliate su come i marchi e i distributori possano garantire e sostenere la libertà di associazione, la contrattazione collettiva e i salari dignitosi lungo le loro catene di fornitura.

Le questioni sollevate nel rapporto saranno discusse all'evento "Fair Fashion Day" (ibrido, link per registrarsi qui) che si terrà al Parlamento europeo il 25 aprile e sarà ospitato dalle europarlamentari Delara Burkhardt e Saskia Bricmont. Tra i relatori, Mario Iveković di Novi Sindikat, il sindacato che ha condotto la ricerca sul campo in Croazia.




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Rana Plaza: 10 anni dopo

Dieci anni dal crollo del Rana Plaza: a che punto sono le condizioni di lavoro in Bangladesh?

Quest'anno ricorrono i dieci anni dal crollo del Rana Plaza, avvenuto il 24 aprile 2013, in cui persero la vita 1.138 persone. I lavoratori e le lavoratrici delle cinque fabbriche di abbigliamento presenti nell'edificio sapevano che la struttura non era sicura, visto che erano stati evacuati il giorno prima. Ma sotto la minaccia di perdere un mese di salario e senza avere un sindacato che li rappresentasse, sono stati costretti a entrare. Molte questioni che hanno contribuito a questo disastro evitabile, come la povertà dei salari e la repressione del diritto di organizzarsi rimangono irrisolte. Solo nel campo della sicurezza nelle fabbriche, dove sindacati e marchi si sono uniti in un programma vincolante, i progressi sono stati notevoli e duraturi.


Cosa è successo dal 2013?

Sicurezza in fabbrica: Dal 2013 la sicurezza in Bangladesh è migliorata notevolmente, grazie all'Accordo internazionale per la salute e la sicurezza nell'industria tessile e dell'abbigliamento. L'Accordo ha avuto successo perché è legalmente applicabile, dà potere ai sindacati e ha al centro ispezioni indipendenti, formazione dei lavoratori e un meccanismo di reclamo.

Salari: Dal crollo del Rana Plaza, il salario minimo nel settore tessile in Bangladesh viene rivisto ogni cinque anni. Cinque anni fa il salario era stato fissato a 8.000 BDT (circa 75 USD), pari solo alla metà della richiesta unitaria dei lavoratori. Questo salario, che nel 2018 equivaleva a un salario di povertà, è ancora in vigore, nonostante l'inflazione e le diffuse proteste dei lavoratori.

Libertà di associazione: Nonostante un picco iniziale della nascita di nuovi sindacati nei primi anni dopo il crollo, la libertà di associazione è stata nuovamente sottoposta a forti pressioni, culminate in due massicce repressioni delle proteste salariali nel 2016-2017 e nel 2018-2019. Anche ora la libertà di associazione rimane a rischio.

Risarcimento in caso di infortunio sul lavoro: I sopravvissuti e le famiglie colpite dal disastro del Rana Plaza sono stati risarciti per la perdita di reddito e le spese mediche secondo gli standard dell'ILO. I fondi sono stati forniti dai marchi solo dopo due anni di intense campagne e non tutti i marchi che si rifornivano dalle fabbriche del Rana Plaza hanno pagato. Gli importi ricevuti dai lavoratori sono stati relativamente bassi, perché il risarcimento per la perdita di reddito si basava sui bassi livelli salariali del Bangladesh e non sono stati risarciti per il dolore e la sofferenza.

Cosa deve succedere ora?

Sicurezza nelle fabbriche: L'attuale mandato biennale dell'Accordo internazionale scadrà nell'ottobre 2023 e dovrà essere sostituito da un nuovo accordo con garanzie altrettanto forti. Sarà necessario il sostegno di tutti i 192 marchi che hanno firmato l'accordo e di quelli che non l'hanno firmato, come Levi's e IKEA.

Salari: Con l'imminente revisione del salario minimo, i sindacati chiedono che il processo includa un rappresentante sindacale che rappresenti i lavoratori tessili. Inoltre, i sindacati chiedono di triplicare l'attuale salario minimo, cosa che i marchi di abbigliamento che si riforniscono dalle fabbriche del Bangladesh potrebbero facilmente assicurare aumentando i prezzi di acquisto attualmente troppo bassi.

Libertà di associazione: Il governo del Bangladesh dovrebbe rivedere il diritto del lavoro per eliminare gli ostacoli alla registrazione dei sindacati. Il governo, i proprietari delle fabbriche e i marchi dovrebbero creare insieme un ambiente favorevole all'attività sindacale e alla contrattazione collettiva, che attualmente non esiste.

Risarcimento in caso di infortunio sul lavoro: La legislazione in Bangladesh e a livello globale dovrebbe cambiare in modo che tutti i sopravvissuti e le famiglie colpite possano accedere al risarcimento senza campagne o strutture ad hoc, nonché al risarcimento per il dolore e la sofferenza senza dover ricorrere al tribunale. L'attuale schema pilota per gli infortuni sul lavoro dovrebbe diventare legge e coprire anche tutti coloro che sono stati coinvolti in incidenti in fabbrica dal 2013.

cosa puoi fare tu

Firma la petizione

Dopo il Rana Plaza, decine di marchi hanno firmato l'Accordo vincolante per l'attuazione di un programma di sicurezza che ha impedito il ripetersi di disastri come quello.
L'Accordo ha reso i luoghi di lavoro più sicuri per 2,5 milioni di lavoratori e lavoratrici attraverso la ristrutturazione delle fabbriche e i programmi di formazione.
Oltre 40 tra i più grandi marchi della moda lo hanno sottoscritto: tra loro ASOS, H&M, Primark e Zara

12 marchi invece hanno deciso di anteporre i propri profitti alla vita dei lavoratori in Bangladesh e Pakistan, non firmando l'Accordo: Amazon, ASDA, Columbia Sportswear, Decathlon, Ikea, JC Penney, Kontoor Brands (Wrangler, Lee e Rock & Republic), Levi's, Target, Tom Tailor, URBN (Urban Outfitters, Anthropologie, Free People) e Walmart.

Unitevi a noi per dire a questa sporca dozzina che quando è troppo è troppo.
Il loro rifiuto di sostenere le ispezioni nelle fabbriche e i programmi per la sicurezza dei lavoratori non è accettabile


Firma ora


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A 10 anni dal crollo del #RanaPlaza, questa "sporca dozzina" di marchi ancora non ha firmato l'Accordo che ha reso più sicure le fabbriche in Bangadesh, anteponendo i profitti alla vita delle lavoratrici. Firma la petizione ora: www.eko.org/Rana-Plaza #SigntheAccord


Fai un tweet

https://youtu.be/Eea9suCnWvc

Guarda l'evento

Il 20 Aprile a Roma, presso la Sala Di Vittorio in Corso d'Italia 25, si è tenuto l'evento "Mai più Rana Plaza" promosso in collaborazione con CGIL, CISL e UIL.

Fabbriche sicure ovunque nel mondo, dal Bangladesh all’Italia

Per capire cosa è cambiato a dieci anni dall’incendio e crollo dello stabilimento tessile Rana Plaza, indagare l’efficacia dell’Accordo Internazionale e insistere sulla centralità di investire sulla salute e sulla sicurezza nella catena di forniture globali e in Italia, quindi sugli strumenti per garantirla a livello nazionale e internazionale

MODERA
✅ LUCA LIVERANI, Giornalista Avvenire

RANA PLAZA +10 E L’ACCORDO INTERNAZIONALE: BILANCIO, RISULTATI E SFIDE
✅ REPON CHOWDHURY, Segretario Generale del Congresso del sindacato libero del Bangladesh (BFTUC) - in collegamento
✅ DEBORAH LUCCHETTI, Coordinatrice Campagna Abiti Puliti

LA SALUTE E SICUREZZA IN ITALIA
✅ GIULIO ROMANI, Segretario Confederale CISL
✅ IVANA VERONESE, Segretaria Confederale UIL
✅ GIANNI ROSAS, Direttore Ufficio OIL Italia e San Marino
✅ MICHELE MONTEMAGNO*, Punto di Contatto Nazionale
✅ PAOLO PENNESI, Direttore Generale Ispettorato Nazionale del Lavoro

RIFLESSIONI E PROPOSTE CONCLUSIVE
✅ FRANCESCA RE DAVID, Segretaria Confederale CGIL

* In attesa di conferma


Oltre 30 dei più importanti marchi della moda sostengono il programma di sicurezza per il Pakistan

Oggi, a un mese esatto dall'inizio del processo di sottoscrizione dell'Accordo per il Pakistan, un programma di sicurezza nato sul modello dell'innovativo Accordo internazionale per la salute e la sicurezza nell'industria tessile e dell'abbigliamento in Bangladesh, si contano già 33 marchi firmatari per un totale di 300 fabbriche protette.

Tra i brand aderenti figurano H&M, Inditex (Zara), Primark, Asos, C&A, Next, PVH (Calvin Klein) e OVS

"Più di trenta marchi già firmatari dell'Accordo sul Bangladesh, inclusi quelli con i maggiori interessi commerciali in Pakistan, hanno firmato il nuovo accordo. Ci aspettiamo che tutti gli altri marchi che si riforniscono in Pakistan prendano la stessa decisione e annuncino presto la loro adesione" ha dichiarato Deborah Lucchetti, coordinatrice della Campagna Abiti Puliti

La Clean Clothes Campaign esorta i marchi che finora non si sono assunti la responsabilità per i loro lavoratori in Bangladesh, come Levi's e IKEA, a cogliere questa nuova opportunità per fare il bene dei loro lavoratori in Pakistan. Un rapporto pubblicato nel luglio 2022 dalla Clean Clothes Campaign e dal Wales Institute of Social and Economic Research and Data (WISERD) dell'Università di Cardiff ha rivelato che l'85% dei lavoratori intervistati ha dichiarato di non avere accesso a scale di uscita di emergenza adeguate in caso di incendio. Un lavoratore su cinque ha riferito che il proprio posto di lavoro non prevedeva esercitazioni antincendio e non era a conoscenza delle vie di fuga e delle uscite di emergenza.

"Sappiamo che marchi come Levi's e IKEA non si sono assunti le loro responsabilità in passato, quando sono stati chiamati a firmare l'Accordo per il Bangladesh. Speriamo che ci ripensino ora che i lavoratori pakistani li esortano a fare la cosa giusta. Insieme ai sindacati e alle organizzazioni per i diritti umani, chiediamo a tutti i marchi che producono in Pakistan, come Levi's, IKEA, Amazon e Kontoor, di impegnarsi per fabbriche sicure. Solo un anno fa, quattro persone sono morte in una fabbrica fornitrice di Levi's in Pakistan" ha dichiarato Nasir Mansoor, segretario generale della National Trade Union Federation in Pakistan.

I sindacati pakistani hanno lavorato molti anni per ottenere un accordo sulla sicurezza per il settore tessile e dell'abbigliamento che tenesse in conto le richieste e le preoccupazioni dei lavoratori e delle lavoratrici. L'Accordo per il Pakistan consentirà finalmente di poter attivare meccanismi di reclamo e di effettuare ispezioni di sicurezza trasparenti e approfondite.

"Siamo felici che presto i lavoratori dell'abbigliamento e del tessile in Pakistan non dovranno più temere per la loro vita sul posto di lavoro. I lavoratori di altri Paesi non dovrebbero aspettare altri dieci anni per beneficiare di questo programma sulla sicurezza" ha dichiarato Zehra Khan, segretario generale della Home Based Women Workers Federation

Contesto

Il 14 dicembre 2022 il Pakistan è diventato il primo Paese, dopo il Bangladesh, in cui opererà il modello dell'Accordo internazionale. Questo programma si è dimostrato efficace nel rendere sicure le fabbriche di abbigliamento e tessili grazie al suo carattere vincolante, al peso ai sindacati, alla trasparenza e all'obbligo per i marchi di garantire che le fabbriche fornitrici siano in grado di effettuare gli interventi di riparazione previsti. Dal lancio dell'Accordo in Bangladesh (2013), oltre il 90% di tutti i rischi per la sicurezza riscontrati nelle fabbriche coperte sono stati risolti, rendendo le strutture più sicure per oltre 2 milioni di lavoratori e lavoratrici. Inoltre, 1,8 milioni di lavoratori hanno usufruito di corsi di formazione sulla sicurezza e oltre 1.700 reclami in materia di salute e sicurezza sono stati presentati.

L'elenco dei firmatari dell'Accordo sul Pakistan e ulteriori informazioni sono disponibili su: https://internationalaccord.org/signatories


Lettera della Befana a Giorgia Meloni

Quest'anno la lettera del 6 gennaio ha deciso di scriverla la Befana in persona. Pubblichiamo il testo integrale e le esprimiamo tutta la nostra solidarietà.

Cara Presidente del Consiglio,

le scrivo questa lettera perché sono disperata. E come me almeno altri tre milioni di lavoratori e lavoratrici poveri di questo Paese.

Faccio un lavoro usurante, tutto il giorno in giro a consegnare pacchi, dolci e caramelle con ritmi serrati e disumani, per garantire la gioia di grandi e piccini. Neve, gelo e tramontana: senza pause e riposi. Calzo da anni scarpe rotte e sulle spalle un vecchio scialle: con quello che guadagno e l’inflazione dilagante non posso permettermi molto di più. Quando si rompe la scopa i costi di manutenzione sono a carico mio e tra aumenti dei prezzi e scarsità di risorse è diventato sempre più difficile. Non le dico quanto sia pericoloso saltare da un camino all’altro, a rischio continuo di infortuni, senza malattia o indennità di alcun genere. Il salario? Qualche briciola e un po’ di mance.

Mentre confezionavo i doni da consegnare, ho seguito con molta apprensione la discussione sulla sua Legge di Bilancio: ma, a dir la verità, l’ho trovato un dibattito poco appassionante e a tratti grottesco. Ha scelto in un sol colpo di privilegiare i ricchi e le multinazionali, che spesso sono proprio quelli che mi sfruttano e lucrano sul mio lavoro. “Non disturbare chi vuole fare” le ho sentito dire. Ha tagliato il Reddito di Cittadinanza, misura fondamentale che pur mi ha garantito un po’ di sollievo in questi ultimi mesi, senza un piano alternativo. Ha promosso condoni e perdoni, mascherandoli da pacificazioni, togliendomi perfino il piacere di lasciare qualche pezzo di carbone a chi in fondo se lo è meritato.  

Ho pensato sinceramente che fosse una cosa personale nei miei confronti. Forse una calza non ricevuta da bambina, un dono poco gradito, una promessa non mantenuta. Ma non spiegherebbe questo accanimento che dura da anni, da parte sua e di chi l’ha preceduta.

Eppure uno spiraglio nei mesi scorsi si era intravisto. Una debole, ma pur sempre importante, apertura al salario minimo. Invece avete avuto la brillante idea di affossarla con l’approvazione di due striminzite paginette (tecnicamente una mozione). In quelle poche righe ci avete raccontato che tutti i nostri problemi sono legati al costo del lavoro troppo elevato (chissà perché strizzando sempre l’occhio alla parte delle imprese), che la contrattazione collettiva va rafforzata, che bisogna contrastare i contratti pirata. Lo avete fatto? No. 

Nel frattempo avete condannato all’invisibilità me e almeno il 13% della forza lavoro del nostro Paese, tre milioni di persone che non ricevono abbastanza soldi per vivere dignitosamente, sebbene abbiano un impiego. Una situazione che in questi anni di pandemia di Covid non ha fatto che peggiorare. Da marzo 2020 a oggi siamo 400 mila persone in più in questa condizione. Le retribuzioni reali medie non aumentano da più di vent’anni e, grazie a voi e all’inflazione fuori controllo, continueranno a perdere potere d’acquisto.

Ma davvero credete che bastino due paginette per fermare anni di lotta e rivendicazioni? Per archiviare un tema così delicato e complesso? La povertà lavorativa è un fenomeno sociale che va oltre la pura questione salariale e dipende da diversi fattori (individuali, familiari, istituzionali) e dalla configurazione delle catene globali del valore. Io giro il mondo col mio lavoro, si fidi.

Per essere affrontata e aggredita nelle sue cause strutturali, sono necessarie misure diverse e complementari di politica economica e fiscale, di natura legislativa e contrattuale, a livello sia nazionale che internazionale. Il tema del salario è una questione non unica ma urgente su cui intervenire per aggredire il problema della povertà lavorativa e della diseguaglianza in Italia.

Ci state spingendo alla disperazione, volete costringerci a stare al nostro posto senza fiatare, e a sopportare in silenzio le ingiustizie economiche e sociali che già subiamo, pena la perdita anche di quelle briciole di pane che ci lasciate di fianco al caminetto. 

Eppure così invisibili non siamo: consegniamo i vostri pacchi e pacchetti, puliamo i vostri uffici e le vostre belle case, assistiamo i vostri anziani e le persone bisognose, serviamo nelle vostre mense, cuciamo e stiriamo i vostri abiti. Chissà cosa accadrebbe se domattina ci fermassimo tutte e tutti per un giorno. Se quelle calze che vi aspettate gonfie all’improvviso restassero vuote.

La povertà e le sue cause non sono una colpa, né una responsabilità individuale. Le soluzioni devono essere collettive perché la dignità o è di tutti o di nessuno. 

Allora mi permetta di farle un dono. Non il carbone che sporca, puzza e inquina: non vorrei mai che lo prendeste come un suggerimento per investire ancora sulle energie fossili… Piuttosto un consiglio di lettura: Il salario dignitoso è un diritto universale, rapporto della Campagna Abiti Puliti che formula suggerimenti legislativi concreti per combattere la povertà lavorativa nel nostro Paese, quello delle eccellenze Made in Italy cui lei ha addirittura dedicato un Ministero.

Se vuole discuterne non esiti a contattarmi: come sa, basta una letterina.

In fede
La Befana

 


Finalmente nasce l'Accordo sulla sicurezza nel settore tessile per il Pakistan

L'estensione dell’accordo internazionale vincolante sulla salute e la sicurezza dei lavoratori salverà migliaia di vite nelle fabbriche tessili pachistane.

Il nuovo accordo si ispira a quello del Bangladesh, firmato dopo il crollo del Rana Plaza nel 2013, che ha di fatto trasformato l'industria tessile del Paese, mettendo finalmente in sicurezza, con interventi critici di ristrutturazione, oltre 1600 fabbriche e 2,5 milioni di lavoratori e lavoratrici.

Più di 250 operai sono morti nell'incendio della fabbrica Ali Enterprises di Karachi nel 2012, il peggior incendio nella storia dell'industria tessile globale. Come in Bangladesh, anche in Pakistan i sistemi di audit volontari non sono serviti a niente: gli infortuni e i decessi nelle fabbriche continuano. Ecco perché un Accordo vincolante è fondamentale per mettere in sicurezza l’industria tessile pachistana.

L'Accordo del Pakistan:

  • è legalmente vincolante per i marchi;
  • dopo aver effettuato ispezioni complete e trasparenti su salute e sicurezza per individuare i pericoli, impone piani di ristrutturazione con scadenze precise per eliminarli;
  • garantisce che i fornitori abbiano le risorse per pagare i lavori di ristrutturazione;
  • protegge tutti i lavoratori della catena di fornitura dei marchi;
  • offre ai lavoratori una via confidenziale per far emergere problemi urgenti di sicurezza e salute e garantire una rapida azione correttiva;
  • documenta le proprie attività attraverso una straordinaria trasparenza pubblica.

L'Accordo internazionale conta 187 marchi firmatari, di cui almeno la metà si rifornisce dal Pakistan, includendo così nel meccanismo centinaia di fabbriche e stabilimenti.

Dopo una campagna decennale per la sicurezza nelle fabbriche condotta insieme ai lavoratori e alle lavoratrici pachistane, i sindacati e le organizzazioni firmatarie dell'Accordo internazionale si dicono soddisfatte per l'annuncio di questa estensione.

Nasir Mansoor, Segretario Generale della Federazione Nazionale dei Sindacati del Pakistan, ha dichiarato: "Dopo anni di lotta per l'estensione dell'Accordo al Pakistan, i nostri lavoratori possono finalmente rientrare nei suoi meccanismi di monitoraggio e denuncia. Se un numero sufficiente di marchi firmerà, i lavoratori non dovranno temere per la propria vita quando si recano al lavoro e sapranno a chi rivolgersi quando la loro fabbrica non è sicura. La forza dell'Accordo sta nel fatto che i sindacati hanno lo stesso potere delle aziende nel processo decisionale".

Zehra Khan, Segretario generale della Federazione delle lavoratrici a domicilio, ha dichiarato: "Il programma dell'Accordo porterà ispezioni, corsi di formazione sulla sicurezza e un meccanismo di reclamo che coprirà tutte le questioni di salute e sicurezza, compresa la violenza di genere, per i lavoratori pachistani che producono per i marchi firmatari. Sarà necessario prestare particolare attenzione per garantire che le lavoratrici, che spesso non sono ufficialmente registrate e potrebbero lavorare da casa, abbiano lo stesso accesso a questo programma degli altri lavoratori".

"Siamo lieti che l'innovativo Accordo arrivi finalmente in Pakistan, dove è necessario come non mai. Tutti i marchi che si riforniscono in Pakistan aderiscano prontamente all’accordo", ha dichiarato Deborah Lucchetti, coordinatrice della Campagna Abiti Puliti. "Sono dieci anni che i lavoratori e le lavoratrici del tessile in Pakistan attendono un risultato come questo. Ci auguriamo che in altri importanti Paesi produttori non si debba aspettare altrettanto a lungo".

Scott Nova, direttore esecutivo del Worker Rights Consortium, ha dichiarato: "I tratti distintivi dell'Accordo del Pakistan sono la responsabilità, l'applicabilità e la trasparenza. Con questo nuovo accordo, il Pakistan diventerà uno dei luoghi più sicuri al mondo per la produzione di abiti".


Dichiarazione della Clean Clothes Campaign sulla sospensione senza precedenti dei diritti del lavoro in Ucraina

La Clean Clothes Campaign dichiara la propria solidarietà ai lavoratori dell'abbigliamento e a tutti i lavoratori dell'Ucraina durante l'invasione russa. Condanniamo l'invasione dell'Ucraina da parte delle forze russe, come ogni atto di aggressione, invasione e guerra. Sosteniamo ogni iniziativa diplomatica e politica, istituzionale e dal basso che sia seria e genuina, volta al ritiro delle truppe russe dai territori occupati e a scongiurare l'escalation del conflitto che sta già colpendo gravemente la classe lavoratrice e le popolazioni civili in Europa e altrove. Protestiamo contro la sospensione delle tutele per i lavoratori e dei diritti sindacali, che colpisce in particolare le fabbriche di abbigliamento in quanto piccole e medie imprese. In condizioni di grave crisi economica e sociale, le nuove leggi minano i diritti fondamentali del lavoro. 

La Clean Clothes Campaign ha dichiarato la propria solidarietà ai lavoratori dell'abbigliamento e a tutti i lavoratori dell'Ucraina durante l'invasione russa. (https://cleanclothes.org/news/2022/statement-of-solidarity-with-garment-workers-in ukraine).  

Nel 2020, una ricerca della Clean Clothes Campaign ha rivelato che circa 200.000 lavoratori ucraini dell'abbigliamento guadagnano un quinto di quello che servirebbe loro per coprire i costi di vita base (un salario vivibile di base), che spesso non è nemmeno il salario minimo mensile netto di 126 euro (2019). Molti di questi lavoratori sono intimiditi e umiliati, costretti a fare straordinari, svengono in estate e congelano in inverno - per citare solo le violazioni più diffuse.  (https://cleanclothes.org/file-repository/livingwage-europe-country-profiles-ukraine/view;  https://cleanclothes.org/file-repository/exploitation-made.pdf/view chapter 4). 

Non sono disponibili dati precisi sul numero di lavoratori dell'abbigliamento, a causa dell'elevato numero di lavoratori informali nel settore - dal 60 al 70% dei lavoratori dell'abbigliamento sono informali - a partire dal 2020. La situazione è peggiorata durante la pandemia, quando non sono stati pagati i salari e le assicurazioni sociali; molti lavoratori sono stati mandati in congedo forzato non retribuito o sono stati licenziati.  

Nella primavera del 2022, la CCC ha condotto una ricerca informale sui marchi che si riforniscono dall'Ucraina, la maggior parte dei quali ha dichiarato di continuare a rifornirsi e di avere fabbriche in funzione. L'industria dell'abbigliamento si concentra nella parte occidentale del Paese ed è quindi meno colpita dal conflitto diretto. La CCC ha esortato i marchi a esercitare la due diligence e agire con responsabilità assicurando la continuata attuazione dei diritti umani sul lavoro.  

I lavoratori hanno bisogno di protezione soprattutto durante la guerra e la conseguente crisi economica e sociale.

Nel 2020, i sindacati ucraini e la società civile hanno fruttuosamente respinto i tentativi di indebolire i diritti del lavoro e la contrattazione collettiva. Tuttavia, nel 2021 è stato nuovamente proposto un progetto di legge: utilizzando la copertura della legge marziale a seguito dell'invasione russa, il governo ha adottato nuovi provvedimenti che cercano nuovamente di minare la libertà di associazione e i diritti del lavoro. Queste leggi sono state osteggiate dai sindacati e dalle ONG per i diritti del lavoro in Ucraina e a livello internazionale dalla OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro), dalla ITUC (International Trade Union Confederation) e da altre sigle sindacali globali. 

Le leggi prevedono un'estrema liberalizzazione dei rapporti di lavoro, in particolare nelle piccole e medie imprese con meno di 250 dipendenti (PMI). La stragrande maggioranza delle fabbriche di abbigliamento sono PMI.  

Le nuove leggi privano i lavoratori della possibilità di tutela legale e di protezione da parte dei sindacati in caso di abusi sul lavoro. Esse dunque aumenteranno drasticamente la dipendenza dei lavoratori dai loro datori di lavoro e includono le seguenti disposizioni chiave.  

La legge 2136 adottata il 15.03.2022 prevede, fra le altre cose:

  • la possibilità di estendere l'orario di lavoro settimanale standard da 40 a 60 ore;  
  • la rimozione degli ostacoli e dei benefici aggiuntivi al lavoro durante i giorni festivi, i fine settimana e le ferie;
  • la fine del divieto per le donne di svolgere lavori fisicamente faticosi;
  • l'eliminazione dell'obbligo di contratti di lavoro scritti;
  • l'eccessiva flessibilità nel lavoro a tempo determinato e nei periodi di prova;
  • la possibilità di trasferire i lavoratori ad altre mansioni e di modificare in altro modo i termini del contratto di lavoro senza il consenso dei lavoratori, di sospendere o risolvere l'intero contratto di lavoro anche durante le assenze per malattia o le ferie.

La legge 2421 adottata il 18.07.2022 prevede, fra le altre cose:

  • la possibilità per i datori di lavoro di assumere con contratti a zero ore, creando così una riserva flessibile a loro disposizione in base a qualsiasi disposizione contrattuale che i lavoratori probabilmente accetteranno in quanto disperati per il reddito.  

La legge 2434 adottata il 19.07.2022 prevede, fra le altre cose:

  • licenziamento nelle PMI senza motivazione legale, ma con un piccolo indennizzo per chi perde il lavoro;
  • ampliamento della facoltà dei datori di lavoro di licenziare i lavoratori.

La legge marziale ha vietato gli scioperi e le proteste dei lavoratori e, di conseguenza, sta limitando fortemente i diritti delle organizzazioni dei lavoratori a resistere all'imposizione e agli impatti negativi di queste nuove leggi. In effetti, le leggi sono state usate per ritorsioni contro i sindacalisti che, ad esempio, si sono visti espropriare le proprietà del sindacato. Queste leggi minano i diritti dei lavoratori in Ucraina.  

Pertanto, la Clean Clothes Campaign esorta i marchi internazionali a:

  1. assicurarsi di non avallare o incoraggiare un indebolimento delle tutele del lavoro, in violazione degli standard dell'ILO, comprese le proposte di aumento dell'orario di lavoro e di riduzione dei diritti dei lavoratori; 
  2. garantire che i termini e le condizioni esistenti, conformi agli standard dell'ILO e ai codici di condotta dei marchi, compresi i termini contrattuali e gli standard di lavoro, siano mantenuti e che le tutele del lavoro (compreso l'orario di lavoro massimo) non siano ridotte, indipendentemente dalla retroattività prevista dalle leggi; 
  3. garantire che i lavoratori coinvolti in proteste pacifiche o in attività di libertà di associazione siano tenuti indenni dalla detenzione arbitraria prevista dalla legge marziale;
  4. garantire che i salari riflettano l'aumento del costo della vita, in particolare del cibo e dell'alloggio.  
  5. Impegnarsi per un approvvigionamento stabile e per relazioni a lungo termine con i fornitori ucraini, al fine di ridurre l'impatto delle pratiche di acquisto a breve termine. 

Maggiori informazioni:

 


I Mondiali dello sfruttamento

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I Mondiali FIFA sono costruiti sullo sfruttamento dei lavoratori e delle lavoratrici. Ora tocca ad Adidas, alla FIFA e ad altri pagare il prezzo del loro sfruttamento.

Gli operai e le operaie che producono kit, scarpini e palloni da calcio per Adidas aspettano milioni di dollari in indennità e salari non pagati. Se adidas è disposta a spendere 800 milioni di dollari per sponsorizzare la FIFA, perché non può spendere 10 centesimi in più per ciascun prodotto per porre fine al furto salariale nella sua catena di fornitura?

Agisci per i lavoratori e le lavoratrici di Adidas durante i Mondiali di calcio. Invia subito una e-mail ad adidas

ATTIVATI

La @FIFAWorldCup è costruita sullo sfruttamento dei lavoratori. Gli stadi, i palloni, le maglie sono stati realizzati da lavoratori sottopagati e vittime di abusi. Non solo la FIFA, ma anche @adidas deve risarcire subito i suoi lavoratori. https://www.abitipuliti.org/payyourworkers/ #PayYourWorkers


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.@adidas è disposta a spendere 800 milioni di dollari per sponsorizzare la @FIFAWorldCup ma si rifiuta di pagare i suoi fornitori #10CentsMore per #EndWageTheft nelle loro catene di fornitura. Entra in azione! https://www.abitipuliti.org/payyourworkers/ #PayYourWorkers

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I Mondiali FIFA sono costruiti sullo sfruttamento dei lavoratori e delle lavoratrici.
Gli stadi, i palloni, le scarpe e le maglie sono stati realizzati con un lavoro massacrante e sottopagato. I lavoratori, provenienti soprattutto dal Sud e dal Sud-Est asiatico, sono stati derubati dei loro salari e del loro diritto di organizzazione. Hanno patito la fame, rischiato la salute o addirittura sono morti per costruire le infrastrutture in Qatar. Hanno dovuto affrontare salari non pagati, licenziamenti di massa e lo smantellamento dei sindacati.
Sosteniamo l'appello dei sindacati e delle organizzazioni per i diritti dei lavoratori di tutto il mondo affinché la FIFA avvii un fondo di compensazione per i lavoratori migranti in Qatar. Ma non basta! Anche i marchi come @adidas devono contribuire a un fondo che garantisca ai lavoratori e alle lavoratrici che hanno cucito le loro maglie da calcio di recuperare i salari trattenuti e la liquidazione.
Un torneo che avrebbe dovuto essere giocato sul campo, si è trasformato in una gara a chi spreme di più i propri lavoratori. Ora tocca ad adidas, alla FIFA e ad altri pagare il prezzo del loro sfruttamento: risarcite subito i vostri lavoratori.
Durante questi Mondiali di sfruttamento, facciamo sentire la nostra voce e diciamo ad adidas: #PayYourWorkers #RespectLabourRights.
Inviate un'e-mail ad adidas: https://www.abitipuliti.org/payyourworkers/

 


Il Pakistan ha bisogno di un Accordo sulla sicurezza ora

Nelle fabbriche pakistane fornitrici dei grandi marchi si verificano regolarmente incidenti e violazioni mortali in materia di sicurezza come emerge da una recente ricerca della Clean Clothes Campaign. È necessario estendere immediatamente al Pakistan l'Accordo internazionale sulla salute e la sicurezza nell'industria tessile e dell'abbigliamento, come chiedono i sindacati dei lavoratori e delle lavoratrici tessili del Paese fin dal 2018. Tutti i marchi che non hanno ancora firmato l'Accordo, tra cui Levi's, Gap e Kontoor (Lee, Wrangler), devono farlo immediatamente per proteggere i lavoratori delle loro filiere.

Le violazioni riportate in questo documento sono solo un'istantanea di quanto accade nelle fabbriche pakistane. A causa della mancanza di controlli efficaci e della scarsa attenzione riservata dai media, molti incidenti, anche mortali, restano inosservati e nascosti.

Solo negli ultimi 20 mesi ci sono stati oltre 35 incidenti nelle fabbriche fornitrici sia di marchi firmatari dell’Accordo per il Bangladesh che di brand che ancora non lo hanno sottoscritto. La maggior parte dei problemi a livello di fabbrica menzionati in questa ricerca avrebbero potuto essere facilmente individuati e risolti se fosse esistito un programma come l'Accordo internazionale, che è giuridicamente vincolante. Nato nel 2013 come risposta diretta al crollo del Rana Plaza in Bangladesh, non è ancora mai stato esteso al Pakistan, nonostante solo un anno prima si fosse verificato proprio qui l'incendio più mortale mai avvenuto in una fabbrica di abbigliamento in tutto il mondo (incendio alla Ali Enterprise, oltre 250 morti).

A distanza di dieci anni, finalmente ci si sta avvicinando all'avvio di un programma pakistano nell'ambito dell'Accordo internazionale. Tuttavia, restano da superare due grandi ostacoli. Innanzitutto, il lancio del programma non è ancora ufficiale  e questo getta i lavoratori in una situazione di enorme incertezza. In secondo luogo, sebbene vi sia consenso tra le parti interessate sul fatto che non possa essere una copia esatta di quello del Bangladesh, i parametri del nuovo accordo devono ancora essere decisi. 

La Clean Clothes Campaign chiede che tali parametri siano definiti in base alle esigenze dei lavoratori e dei loro rappresentanti sindacali. Una coalizione di sindacati pakistani e di organizzazioni per i diritti dei lavoratori ha già formulato una proposta di come dovrebbe essere riformulato l’Accordo nazionale pakistano perché sia efficace in questo specifico contesto. Essa esorta tutte le parti interessate a tenere conto delle esigenze dei lavoratori pakistani nella formulazione dei contenuti del programma e nell'avvio delle operazioni all'inizio del prossimo anno.    

Nasir Mansoor, Segretario generale della Federazione nazionale dei sindacati pakistani, afferma: "Gli incidenti di fabbrica evidenziati dai lavoratori in Pakistan dimostrano quanto sia urgente l'espansione dell’Accordo. I lavoratori meritano di sentirsi sicuri e protetti quando si recano al lavoro, e l'Accordo dovrebbe iniziare le sue attività entro la fine dell'anno. L'Accordo del Pakistan dovrebbe proteggere i lavoratori delle fabbriche di abbigliamento, degli stabilimenti tessili e dei piccoli luoghi di lavoro informali. Comprendiamo che ispezionare tutte le unità richiederà tempo, ma tutti i lavoratori dovrebbero avere il diritto di presentare reclami se sono in pericolo fin dall'inizio del programma".

Zehra Khan, Segretario generale della Home Based Women Workers Federation in Pakistan, afferma: "Per noi sindacati uno dei principi più importanti dell'Accordo è la condivisione paritaria del potere. Secondo l'Accordo del Pakistan, i lavoratori e le aziende dovrebbero avere la stessa quantità di potere. In questo modo possiamo confidare che l'organizzazione sia veramente indipendente e che renda i luoghi di lavoro sicuri in modo credibile e trasparente per tutti i lavoratori della filiera dell'abbigliamento".

Deborah Lucchetti, coordinatrice della Campagna Abiti Puliti in Italia, afferma: "Con la legislazione sulla due diligence stabilita in diversi Paesi europei e in via di sviluppo in molti altri, i marchi non possono più permettersi di rimandare. Sanno che viene fatto del male ai lavoratori della loro catena di fornitura, e ogni giorno in cui l'Accordo non è ancora operativo è un altro giorno in cui le vite dei lavoratori sono a rischio."


I marchi del lusso nascondono deliberatamente le origini dei loro prodotti in pelle

Una nuova analisi mostra cattive pratiche di divulgazione tra marchi come Armani e Versace Una nuova analisi mostra cattive pratiche di divulgazione tra marchi come Armani e Versace

Amsterdam, 3 novembre 2022 - Marchi di lusso come Armani, Versace, Michael Kors e Coach non forniscono informazioni chiave sull'origine dei loro prodotti in pelle. Secondo uno studio effettuato da SOMO, che 35 marchi di lusso sui 44 presi in esame non pubblicano gli elenchi dei fornitori presso i quali si riforniscono di pellame per tutti i loro articoli, come giacche, pantaloni, scarpe, cinture, guanti e borse. Ciò desta inevitabili preoccupazioni, in quanto l'industria mondiale della pelletteria è notoriamente associata ad abusi dei diritti dei lavoratori e inquinamento ambientale.

Solo una manciata di marchi di lusso fornisce alcune informazioni sull'origine dei loro prodotti in pelle. Tra questi ci sono Bally, Zegna e Fendi. Ma la strada da fare è ancora molto tanta. Le informazioni fornite da queste aziende sono ben lungi dall'essere complete. Nel frattempo, la maggior parte dei marchi non pubblica affatto un elenco di fornitori, non raggiungendo nemmeno quanto previsto dagli standard più elementari.

Martje Theuws di SOMO dichiara: “La nostra analisi mostra che le aziende che operano nel lusso sono rimaste decisamente indietro. Questo è scioccante. Se un'azienda conosce i propri fornitori e la propria filiera, non c'è motivo per non pubblicare un elenco di fornitori. Se invece un'azienda non conosce la propria filiera, ciò solleva seri interrogativi sulla due diligence dell’azienda”.

L'importanza degli elenchi dei fornitori

Gli elenchi dei fornitori rappresentano uno strumento consolidato nel settore dell'abbigliamento, che consente a diversi gruppi - lavoratori, investitori e consumatori - di risalire all'origine delle merci. La divulgazione di informazioni sulla catena di fornitura è considerata un passo importante sulla lunga strada per garantire condizioni di lavoro dignitose.

Sul totale delle 100 aziende analizzate da SOMO, 44 delle quali sono marchi di lusso, calzature e altre aziende operanti nel settore della pelletteria, meno di un terzo (29 su 100) pubblica un elenco di fornitori. Solo 17 aziende forniscono informazioni su impianti di trasformazione e fornitori di materie prime . Le società di beni di lusso hanno ottenuto risultati inferiori alla media. Solo il 20% dei marchi di lusso (9 su 44) ha divulgato i nomi dei propri fornitori.

Pessime condizioni di lavoro

I lavoratori dell'industria globale del settore pelletteria spesso devono affrontare condizioni di lavoro dure e abusive. Stipendi inadeguati, orari di lavoro estenuanti e precariato sono condizioni segnalate spesso nei paesi con produzione a basso salario. Le sostanze chimiche impiegate nella lavorazione della pelle possono essere tossiche e, per i lavoratori che non sono dotati di adeguate protezioni, l'esposizione può portare a gravi problemi di salute. Situazioni occupazionali problematiche sono state riscontrate anche in Europa, dove i lavoratori -migranti, in particolare- possono imbattersi in lavori caratterizzati da condizioni davvero pessime.

Pochissime informazioni divulgate dai marchi

Nessuna azienda del nostro campione divulga informazioni sui salari che guadagnano i lavoratori nei loro centri di fornitura. Solo 4 delle 29 aziende che pubblicano un albo fornitori riportano in tali elenchi informazioni sugli indicatori relativi alla libertà di associazione e contrattazione collettiva. Nel segmento del lusso, solo Zegna fornisce informazioni relative a questi temi.

"Queste aziende pubblicano informazioni e rapporti, alcuni dei quali restituiscono un’immagine molto positiva della loro responsabilità aziendale, ma la mancata pubblicazione degli elenchi completi dei fornitori è una questione spinosa. Informazioni sporadiche sui problemi della catena di fornitura non consentono controlli adeguati. Un simile approccio può nascondere tanto quanto rivela”, osserva Martje Theuws.

Le iniziative volontarie non impongono la trasparenza

Più del 50% dei marchi di lusso presi in esame (24 su 44) partecipa a iniziative volontarie multi-stakeholder o a schemi di certificazione.

Martje Theuws afferma: “L'analisi di SOMO mostra che questo tipo di iniziative volontarie non garantisce la divulgazione della catena di fornitura perché non impone la trasparenza ai propri membri. Pertanto, è fondamentale che la prossima legislazione sulla responsabilità aziendale a livello europeo e negli Stati membri dell'UE includa l'obbligo per le aziende di divulgare pubblicamente le informazioni sulla filiera.”[1]

Indagine sulle informazioni pubbliche di 100 aziende

Per questa analisi, SOMO ha selezionato 100 aziende nei segmenti dei beni di lusso e delle calzature nel settore pelletteria. Inoltre, è stato incluso un certo numero di rivenditori online. Tra queste 100 aziende figurano alcuni dei maggiori operatori in termini di dimensioni aziendali, fatturato e quota di mercato. Per la sua analisi, SOMO ha utilizzato informazioni provenienti da una serie di fonti pubbliche, tra cui i siti web aziendali e l’Open Apparel Registry. Oltre al nostro rapporto, stiamo lavorando alla pubblicazione di un documento di discussione sul tipo di informazioni che le aziende dovrebbero divulgare per quanto concerne la catena di fornitura.

SOMO ha chiesto ad Armani, Coach, Michael Kors e Versace di rispondere alle preoccupazioni per la mancata pubblicazione di un elenco di fornitori. Le aziende non hanno risposto.

[1] Diversi paesi europei (ad es. Germania e Paesi Bassi) stanno preparando o attuando la legislazione sulla responsabilità aziendale. Inoltre, l'Unione Europea sta elaborando una legislazione sulla due diligence. Per ulteriori informazioni su questi sviluppi legislativi, consultare il sito web:https://corporatejustice.org/publications/map-corporate-accountability-legislative-progress-in-europe/

Per saperne di più:

 


Adidas: Settimana di mobilitazione globale

Adidas leader mondiale nello sport?
Sicuramente nel furto di salari, nelle violazioni dei diritti del lavoro e nelle molestie.

Adidas leader mondiale nello sport?
Sicuramente nel furto di salari, nelle violazioni dei diritti del lavoro e nelle molestie.

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La campagna Pay Your Workers, sostenuta da 260 organizzazioni in tutto il mondo, tra cui decine di sindacati che rappresentano i lavoratori e le lavoratrici tessili nei paesi di produzione, scende in piazza in una settimana di mobilitazione globale, dal 24 al 30 ottobre 2022, per chiedere ad Adidas di rispettare i diritti dei lavoratori nella sua catena di fornitura. 

La maggior parte della produzione di Adidas avviene in Paesi in cui i sistemi di protezione sociale sono inadeguati, se non addirittura inesistenti. Questo per i lavoratori e le lavoratrici, ad esempio, ha significato rimanere senza stipendio quando la propria fabbrica ha chiuso i battenti.

Nonostante nel 2021 Adidas abbia registrato un utile netto di oltre 2,3 miliardi di dollari, il marchio si rifiuta di pagare alle lavoratrici di otto fabbriche sue fornitrici in Cambogia 11,7 milioni di dollari di salari che spettano loro per i primi 14 mesi della pandemia, pari a 387 dollari per ciascuna

Anche le lavoratrici che ormai non producono più articoli per Adidas aspettano i loro soldi. Per esempio le operaie della fabbrica Hulu Garment in Cambogia, licenziate all'inizio della pandemia aspettano ancora 3,6 milioni di dollari. Nel maggio del 2022, 5.600 lavoratori di un altro fornitore Adidas in Cambogia hanno scioperato per i salari non pagati e la fabbrica ha reagito facendo arrestare i leader sindacali. 

Questo furto salariale e delle indennità di licenziamento si estende ben oltre la Cambogia, lungo tutta la catena di fornitura globale di Adidas. 

In Italia le iniziative partono da Bologna dove dal 24 ottobre per 15 giorni gli splendidi manifesti del collettivo femminista Cheap campeggiano sulle bacheche pubbliche della città con un messaggio forte e chiaro per il grande gruppo tedesco che continua ad ignorare le richieste della nostra campagna. Poi sarà la volta di Milano, Torino, Genova, Firenze, Fidenza, Parma e Roma dove sono previsti eventi e flashmob di piazza. A queste azioni fisiche, si affianca la tempesta digitale attraverso azioni online di mailbombing e pressione sui social media.

Contemporaneamente ci saranno manifestazioni in almeno altre 20 città nel mondo, tra cui Berlino, Los Angeles e Dacca. 

Adidas ha la grande opportunità - e l'obbligo - di agire per rispettare gli impegni assunti nei confronti delle lavoratrici dell'abbigliamento e delle calzature, partecipando alle trattative con i rappresentanti sindacali e firmando un accordo giuridicamente vincolante per garantire il risanamento dei furti salariali e il rispetto dei diritti dei lavoratori.

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Se “Nothing is impossibile”, perché @adidas non riesce a pagare le sue lavoratrici e a garantire loro la libertà di associazione? #PayYourWorkers #RespectLabourRights


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.@adidas ha rubato circa 11,7 milioni di dollari alle lavoratrici cambogiane durante la pandemia. https://www.abitipuliti.org/news/adidas-settimana-di-mobilitazione-globale/ #PayYourWorkers #RespectLabourRights


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.@adidas, smettete di ignorare le richieste dei sindacati dei lavoratori e delle lavoratrici tessili #PayYourWorkers #RespectLabourRights


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Adidas nel 2021: fa utili per 1,6 miliardi di euro ma non paga 11,7 milioni di dollari alle lavoratrici in Cambogia. Equità ora! @adidas #PayYourWorkers #EndWageTheft! https://www.abitipuliti.org/news/adidas-settimana-di-mobilitazione-globale


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Adidas afferma di avere il potere di cambiare la vita attraverso lo sport. Ma un modo ancora più rapido per cambiare la vita delle donne e delle generazioni future è quello di restituirgli i salari rubati durante la pandemia. Adidas deve alle lavoratrici della Cambogia una cifra stimata in 11,7 milioni di dollari. Persone che già percepivano un salario di povertà e sono state lasciate nell'indigenza durante una pandemia globale. Chiediamo ad @adidas di accettare l'invito dei sindacati a negoziare un accordo vincolante che garantisca alle sue lavoratrici il pagamento dell'intero salario, la liquidazione in caso di perdita del posto di lavoro e il diritto alla libertà di associazione e alla contrattazione collettiva.
Per saperne di più:
https://www.abitipuliti.org/payyourworkers/
#PayYourWorkers #RespectLabourRights #AdidasSteals #10CentsMore #EndWageTheft #adidas #adidasrunning #adidasfootball

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LA SETTIMANA DI MOBILITAZIONE IN ITALIA

MILANO

Foto di Zoe Vincenti

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ROMA

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TORINO

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FIRENZE


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PARMA E FIDENZA

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PRATO


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SAVONA

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TRENTO

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EVENTO: Parliamo di soldi?

16.09.2022

h. 15 - 18:30

Teatro Affratellamento

Via Giampaolo Orsini 73

Firenze

Streaming su Facebook - Clicca qui

Per partecipare iscriversi qui

Dobbiamo parlare di soldi.

Più precisamente, dobbiamo parlare dei soldi che le lavoratrici e i lavoratori tessili non hanno
ricevuto negli ultimi due anni pur avendone diritto, e di quelli che invece dovrebbero ricevere per
poter affrontare la crisi pandemica.

Dall’inizio della pandemia, i grandi brand della moda da un lato hanno diluito i pagamenti ai loro fornitori, dall’altro hanno rinegoziato ancora più al ribasso i prezzi di acquisto: il risultato è che milioni di persone sono finite in miseria e indebitamento. A livello globale, la Clean Clothes Campaign stima che i lavoratori tessili abbiano perso più di 11 miliardi di dollari in salari non pagati, licenziamenti improvvisi e assenza di ammortizzatori sociali, solo nel primo anno della pandemia.
Per questo motivo è nata la campagna Pay Your Workers, lanciata da Abiti Puliti insieme ad altre decine di organizzazioni che nel mondo difendono i diritti dei lavoratori. Vogliamo che i brand saldino i loro debiti, ma vogliamo anche che situazioni del genere non si verifichino più: deve esserci un fondo globale che aiuti finanziariamente i lavoratori in caso di crisi aziendali nei paesi di produzione tessile istituito attraverso un accordo vincolante.

Come
costringiamo
i marchi a
pagare quanto
dovuto?

Il 16 settembre 2022 abbiamo organizzato un grande evento alla Società Ricreativa L’Affratellamento di Ricorboli a Firenze per discutere di questo enorme problema e trovare momenti di attivazione collettiva per aiutare le lavoratrici e i lavoratori tessili nel mondo ad ottenere ciò che spetta loro di diritto.

Vieni anche tu! Il programma prevede interventi di:

Alessandro Mostaccio, Movimento Consumatori

Deborah Lucchetti, Fair / Campagna Abiti Puliti
Gianni Rosas, ILO Italia
Jeff Nonato, FilcamsCGIL / UNI Europa Commerce
Kalpona Akter, Bangladesh Center for Workers Solidarity (BCWS)
Marina Spadafora, Fashion Revolution Italia
Simone Siliani, Fondazione Finanza Etica
Modera: Diletta Bellotti, ricercatrice e attivista



(2022) REPORT: Il salario dignitoso è un diritto universale

IL SALARIO DIGNITOSO È UN DIRITTO UNIVERSALE

Una proposta per l'Italia, a partire dal settore moda

AGGIORNAMENTO 2024

Nel febbraio 2024 la Campagna Abiti Puliti ha lanciato la scheda di aggiornamento del rapporto “Il salario dignitoso è un diritto universale. Una proposta per l’Italia, a partire dal settore moda” pubblicato lo scorso giugno 2022. 

Secondo la metodologia di calcolo proposta da Clean Clothes Campaign, che si basa sul costo della vita e prende come riferimento per calcolare il salario di base un ménage famigliare anziché individuale, un salario dignitoso per una persona che lavora 40 ore a settimana si attesta a non meno di € 2.000 euro netti al mesemensili (€11,50 netti all’ora). Una crescita di almeno €95 netti mensili rispetto al calcolo di un anno fa che riflette la perdita, inesorabile, di potere d’acquisto.

La Campagna Abiti Puliti lancia il nuovo rapporto “Il salario dignitoso è un diritto universale. Una proposta per l’Italia, a partire dal settore moda”. 

La povertà lavorativa è un fenomeno sociale complesso, che va oltre la pura questione salariale e dipende da diversi fattori (individuali, familiari, istituzionali) e dalla configurazione delle catene globali del valore. Per essere affrontata e aggredita nelle sue cause strutturali, sono necessarie misure diverse e complementari di politica economica e fiscale, di natura legislativa e contrattuale, a livello sia nazionale che internazionale.

Elaborando i dati OCSE relativi al periodo 2000-2020 emerge come le retribuzioni abbiano subito una contrazione in termini reali nel periodo considerato, determinando un’erosione del potere di acquisto dei lavoratori. Ulteriore preoccupazione è determinata da una dinamica inflattiva tra fine 2021 e inizio 2022 particolarmente sostenuta, spinta dai prezzi dei beni energetici e in misura minore da quella dei beni alimentari. Nel 2019, Eurostat rilevava per l’Italia un tasso di rischio di povertà lavorativa per i lavoratori di età compresa tra 18-64 anni dell'11,8% ovvero 2,8 punti percentuali al di sopra della media UE-27.

In questo rapporto affrontiamo nello specifico il tema del salario quale prima, ma non unica, questione urgente su cui intervenire per aggredire il problema della povertà lavorativa e della diseguaglianza in Italia, a partire dalle filiere della moda.

In particolare, sulla scia della proposta di salario dignitoso nel settore TAC avanzata dall’European Production Focus Group relativamente ai paesi dell’Europa centrale, orientale e sudorientale, a sua volta ispirata all’iniziativa del 2009 dell’Asian Floor Wage Alliance per il continente asiatico, abbiamo calcolato un valore del salario minimo dignitoso pari a €1.905 netti mensili (ipotizzando una settimana lavorativa standard di quaranta ore settimanali, tale salario equivale a €11 netti all’ora).

Il concetto di salario minimo dignitoso a cui ci riferiamo, diritto umano riconosciuto nel diritto internazionale e nella nostra Costituzione, è definito come il valore della retribuzione base netta in grado di garantire al lavoratore e alla sua famiglia il soddisfacimento dei bisogni primari e condizioni di vita dignitose. Si differenzia dal salario minimo legale perché non si basa su valori di mercato. Sono considerati bisogni primari il cibo, il vestiario, i trasporti (abbonamenti ai trasporti pubblici), l’alloggio (spese per l’affitto o rate del mutuo, manutenzione ordinaria della casa), utenze domestiche (elettricità, riscaldamento, acqua, raccolta rifiuti, telefono, internet), istruzione, cultura e tempo libero, spese mediche ordinarie, vacanze (un viaggio della durata di una settimana per tutta la famiglia all’interno del proprio paese).

Il calcolo del salario dignitoso si basa su una metodologia piuttosto semplice, in modo da essere replicabile e aggiornabile nel tempo. L’idea centrale è quella di suddividere la spesa complessiva delle famiglie in due grandi componenti: spesa per generi alimentari e altre spese. Una volta definito il valore monetario della spesa alimentare familiare e assumendo che questa rappresenti una certa quota percentuale della spesa complessiva, otteniamo il valore del salario dignitoso come somma della spesa alimentare e della spesa non alimentare a livello familiare.

Il pagamento di salari dignitosi a tutti i lavoratori della filiera, diritto umano e sociale fondamentale, rappresenta un passo determinante poiché obbligherebbe le imprese a produrre meno e meglio, con impatti potenzialmente positivi sul benessere dei lavoratori, sull’ambiente e sulla stessa economia. Si potrebbe così finalmente virare verso un nuovo modello di organizzazione di impresa più sostenibile, democratico e basato su un ripensamento dei tempi di vita e di lavoro” dichiara Deborah Lucchetti, coordinatrice della Campagna Abiti Puliti

È noto che la povertà lavorativa sia un fenomeno complesso e multidimensionale e richieda pertanto una molteplicità di strumenti e di misure, di carattere economico, legislativo, contrattuale e culturale. Per questo, a corredo del salario dignitoso di base e per incentivare rapporti di lavoro stabili, sicuri e duraturi, nel rapporto auspichiamo l’attuazione di altre misure che potrebbero essere sperimentate a partire dal settore TAC per poi essere estese all’intera economia: l’introduzione di strumenti di integrazione e sostegno dei redditi da lavoro più bassi, il c.d in-work benefit  e  l’avvio di un percorso pluriennale e graduale di riduzione collettiva degli orari di lavoro, a parità di salario dignitoso di base, in un’ottica di netto miglioramento della qualità della vita per i lavoratori.

Le raccomandazioni alle istituzioni politiche e alle imprese dettagliate nel rapporto sono volte ad affrontare in maniera sistemica e strutturale il problema della povertà lavorativa nonché della urgente transizione verso una industria della moda sostenibile, che potrà dirsi tale solo se inclusiva, equa e democratica.

 

AGGIORNAMENTO 2024


rapporto completo (ITA)


Sommario (ITA)


Full report (ENG)


SUMMARY (ENG)