(2015) REPORT - Una dura storia di cuoio
3 maggio 2016. Dopo un'analisi della critiche avanzate da Unic, associazione italiana dell'industria della concia, torna in rete l’inchiesta realizzata dal Centro Nuovo Modello Di Sviluppo (CNMS) e dalla Campagna Abiti Puliti “Una dura storia di cuoio”che analizza la situazione lavorativa nell’industria della concia italiana. La ricerca, parte del progetto Change Your Shoes, focalizza l’attenzione in quella che viene definita la Repubblica del Cuoio: il distretto produttivo di Santa Croce.
I punti principali del rapporto sono:
1) Uno sguardo al commercio globale di pelle: l’Italia stazione conciaria del lusso
L’Italia non dispone di grandi allevamenti di bestiame: con 6 milioni di bovini allevati, ricopre appena lo 0,36% del totale mondiale. Anche la produzione di pelli grezze è ridotta, appena l’1% del totale mondiale. Però l’Italia ha una lunga tradizione conciaria e molti stabilimenti di lavorazione, per cui riesce a generare il 17% del valore della produzione totale mondiale di pelli finite (5,25 miliardi di euro) e addirittura il 30% del valore delle esportazioni. Si tratta quindi in gran parte di pelle ottenuta a partire da semilavorati importati dall’estero: un calcolo svolto nella ricerca dimostra come ben il 75% della pelle prodotta in Italia abbia in realtà origine da pelle semilavorata di provenienza estera.
2) Si produce di meno e si commercia di più, anche nei distretti
L’attività di concia in Italia è sviluppata principalmente in tre distretti, che assieme coprono l’88,6% di tutta la produzione: in ordine di importanza, Arzignano in Veneto, lungo la valle del Chiampo in provincia di Vicenza; Santa Croce sull’Arno in Toscana, tra le province di Pisa e Firenze; Solofra in Campania, tra Napoli e Avellino.
L’industria conciaria italiana è dominata da piccole imprese a proprietà familiare, ma ciò non ha impedito ad alcune di esse di internazionalizzarsi, di aprire concerie all’estero. Esempi sono Antiba, azienda di Santa Croce che possiede concerie in India, o Vicenza Pelli, azienda di Arzignano con uno stabilimento in Serbia. I campioni dell’internazionalizzazione sono i fratelli Mastrotto che dal Veneto si sono espansi in Brasile, Tunisia, Vietnam, per disporre di pelli finite a basso costo da collocare sul mercato mondiale, ormai affollato da nuovi venuti che riescono a vendere a prezzi molto più bassi di quelli praticati dai paesi di vecchia industrializzazione.
3) Il segreto del distretto di Santa Croce sull’Arno: piccolo e frammentato
Il distretto di Santa Croce contribuisce al 70% di tutto il cuoio per suole prodotto in Europa e al 98% di quello prodotto in Italia. Qui ci sono 240 concerie, per la maggior parte di piccole dimensioni e con i macchinari necessari alla sola fase centrale della concia; sono affiancate da oltre 500 laboratori terzisti per l’esecuzione delle altre lavorazioni specifiche. Solo in rarissimi casi, le concerie appartengono a grandi imprese internazionali: tra i casi più noti Blutonic e Caravel Pelli Pregiate (15 e 76 dipendenti), proprietà della multinazionale del lusso Kering, che detiene tra gli altri i marchi Gucci e Bottega Italiana.
Il distretto impiega 12.700 persone, tra lavoratori alle dirette dipendenze delle imprese e assunti da agenzie interinali. I primi rappresentano il 72% del totale, i secondi il 28%. È nelle officine dei terzisti che si concentra il lavoro interinale, dove si registrano le situazioni di maggior sfruttamento lavorativo.
4) La precarietà dei rapporti di lavoro: una flessibilità che favorisce l’illegalità
Nel 2012 i lavoratori interinali nel distretto di Santa Croce erano 1.733. Nel 2014 sono 3.451, il doppio. Segno che il lavoro è cresciuto, ma in forma sempre più precaria. Lo dimostra anche il fatto che nel 2014 nel distretto hanno trovato lavoro 4.650 nuovi addetti, ma solo 1.199 alle dirette dipendenze delle aziende produttrici. A confermare la precarietà interviene anche il dato sui contratti: nel 2014 i lavoratori interinali sono stati 3.451, ma i contratti stipulati sono stati 5.021, uno e mezzo a testa. Sono diffusi persino contratti di 4 ore: un lavoratore viene assunto alle 8 e a mezzogiorno si ritrova già senza lavoro.
Nonostante le maggiori elasticità consentite dalla legge, le infrazioni non sono scomparse. Nel distretto di Santa Croce è abituale lavorare ben oltre le ore di straordinario consentite, facendo ampio ricorso al pagamento al nero. Dal 1° gennaio 2011 al 31 dicembre 2014, nel distretto sono state ispezionate 181 aziende per un totale di 999 lavoratori. Di questi, 70% erano di nazionalità italiana e 30% immigrati. Complessivamente sono state trovate irregolarità riguardanti 208 lavoratori fra cui 112 totalmente in nero. Il 44% dei lavoratori in nero erano immigrati.
5) Il ricatto ai lavoratori stranieri
I contratti interinali aperti nel 2014 hanno riguardato per il 54% stranieri, quasi tutti extra comunitari. Non è un caso se negli ultimi dieci anni gli stranieri residenti nei comuni del distretto sono passati da 5.060 a 14.248. La crisi ha indebolito ulteriormente la posizione degli immigrati e molti di loro stanno perdendo le posizioni che avevano raggiunto. Alcuni, che in passato erano riusciti a conquistarsi un lavoro a tempo indeterminato, lo hanno perso quando sono andati a trovare i propri cari in Senegal: le dimissioni in bianco fatte firmate al momento dell’assunzione sono servite ai datori di lavoro per licenziare gli operai che si assentavano per periodi troppo lunghi.
Le agenzie interinali si prestano spesso ai desideri delle ditte, che vogliono che alcuni lavoratori senegalesi, particolarmente apprezzati, vadano a lavorare solo per loro, anche se vengono assunti occasionalmente con contratti interinali. Un rapporto “usa e getta”, quindi, con l’obbligo di essere sempre a disposizione: il tempo di un lavoratore diventa così totalmente proprietà della ditta, sia quando lavora che quando non lavora.
6) La salute a rischio
Nel distretto ci sono aziende moderne, attente alle normative sulla sicurezza e l’igiene, ma anche concerie e terzisti che investono malvolentieri, cercando anzi di risparmiare a discapito dei vincoli normativi. Dalla ricerca emerge che sono soprattutto gli interinali i più a rischio: nelle ore in cui sono assunti vengono costretti a ritmi massacranti e spesso senza la fornitura degli indumenti antinfortunistici, come le cuffie contro il rumore o le mascherine per ripararsi dalle esalazioni.
Nel 2011 la sezione della Medicina del Lavoro competente per il distretto di Santa Croce, ha condotto uno studio su 101 lavoratori addetti alla scarnatura, con un’età media di 44 anni, di cui 37 stranieri: di tutti i lavoratori esaminati, 31 sono risultati positivi per disturbi alla colonna vertebrale. I casi di malattie professionali riconosciuti nel distretto di Santa Croce dal 1997 al 2014 sono stati 493, suddivisibili in cinque grandi gruppi: malattie muscolo-scheletriche (44%), tumori (19%), dermatiti da contatto, ipoacusie da rumore e malattie respiratorie.
7) Acque chiare, ma tanta opacità
In un'area in cui vivono circa 110.000 persone, il carico inquinante nel sistema delle acque è pari a quello di una città con 3 milioni di abitanti: eppure tra riciclo dei rifiuti e corretto smaltimento le condizioni ambientali sono molto migliorate rispetto al passato. Ciò nonostante la ricerca ha riscontrato una evidente mancanza di collaborazione da parte delle imprese di smaltimento e una grande opacità dei dati. Purtroppo nel passato recente la mancanza di controlli ha portato anche allo sviluppo di situazioni criminali: la Guardia di Finanza ha scoperto che tra 2006 e 2013 il Depuratore di Ponte a Cappiano (oggi chiuso) ha immesso nel fiume Arno ben 5 milioni di metri cubi di fanghi tossici senza depurarli.
Materiali
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Documento con i commenti e le critiche dell'Unione Nazionale Industria Conciaria (UNIC)
Le risposte dei partner del progetto Change Your Shoes
Attacco di Franco Donati all’assemblea dell’Associazione Conciatori il 24 maggio 2016
La risposta del Centro Nuovo Modello di Sviluppo
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Did you know there's a cow in your shoe?
Parlano di noi
Un'ombra sul mercato italiano delle pelli - Il Manifesto
Cina, la lotta per i diritti del lavoro nell'industria delle calzature - Repubblica
Le scarpe del Signor Hu - HuffingtonPost
Padroncini, inquinanti e speranze: i segreti del distretto del cuoio - Espresso
Distretto toscano del cuoio, il lato oscuro: “Dipendenti in nero, precarietà raddoppiata e rischi per la salute” - Il fatto quotidiano
Abiti Puliti pubblica nuova inchiesta: “Una dura storia di cuoio” - Help Consumatori
Inchiesta: la Repubblica del Cuoio - Valori
Schiavi del cuoio: viaggio nell'inferno delle concerie italiane - Repubblica
Una dura storia di cuoio - Pressenza
Se l’inferno è sull’Arno - Il Manifesto
Dopo tre anni dall’incendio della Tazreen, Walmart rifiuta ancora di pagare i risarcimenti. E anche Piazza Italia la segue a ruota.
La Clean Clothes Campaign e il Labor Rights Forum chiedono ai marchi internazionali, tra cui Walmart e El Corte Ingles, di versare i contributi nel fondo di risarcimento per i familiari delle 112 vittime e per i sopravvissuti dell’incendio alla fabbrica Tazreen in Bangladesh.
Martedì 24 novembre ricorrerà il terzo anniversario di quel disastro. Quando divampò l’incendio, i lavoratori restarono intrappolati nella fabbrica: le uscite erano bloccate e l’unico modo per scappare era buttarsi dalle finestre dei piani alti. Più di cento lavoratori rimasero feriti saltando da quelle finestre al terzo e quarto piano, con lesioni alla schiena e alla testa che hanno causato molto dolore. Negli ultimi tre anni i familiari dei morti e dei feriti hanno lottato per avere i loro risarcimenti per la perdita di un caro o della capacità di tornare al lavoro.
La Tazreen produceva per giganti come l’americana Walmart, il sezione spagnola de El Corte Ingles, il distributore tedesco KIK, C&A e Sean John’s Enyce brand. Altri marchi collegati sono Edinburgh Woollen Mill (UK), KarlRieker (Germania), Teddy Smith (Francia) e le americane Disney, Sears, Dickies e Delta Apparel. Tra loro anche l’italiana Piazza Italia.
Un accordo per coprire la perdita di reddito e le spese mediche è stato siglato da IndustriALL Global Union, la Clean Clothes Campaign, C&A e la C&A Foundation poco prima del secondo anniversario della tragedia.
Questo accordo ha portato alla creazione del Tazreen Claims Administration Trust, che sovrintende il processo per le richieste di rimborso, collabora con le organizzazioni che rappresentano le famiglie e raccoglie fondi per effettuare i pagamenti. Le famiglie degli operai morti nel rogo hanno cominciato a registrare le loro richieste e oggi il Trust ha lanciato un nuovo sito web, che fornisce informazioni sul processo e dettagli su come possono essere effettuate le donazioni. (http://tazreenclaimstrust.org)
Ci si aspetta che il Trust Fund raccolga il denaro necessario ad effettuare tutti i pagamenti innanzitutto attraverso i contributi delle imprese che si rifornivano presso la fabbrica. Si sta chiedendo ai marchi con un fatturato di oltre 1 milione di dollari di versare almeno 100 mila dollari. C&A e Li & Fung (che si riforniva per conto di Sean Paul) si sono già impegnate ad effettuare versamenti. La tedesca KiK, attualmente coinvolta in una controversia per quanto riguarda il suo rifiuto di negoziare il risarcimento delle vittime dell’incendio alla Ali Enterprises, ha ora accettato di effettuare un versamento nel Trust Fund.
Ma non tutte le aziende si sono impegnate pubblicamente finora. Il più grande cliente della Tazreen, Walmart, non ha ancora corrisposto un centesimo per le vittime e i loro familiari. Eppure nel 2014 aveva dichiarato pubblicamente la volontà di voler contribuire con 3 milioni di dollari attraverso la BRAC USA per le vittime del Rana Plaza e di altre tragedie dell’industria tessile del Bangladesh. 1 milione di dollari lo ha versato nel Rana Plaza Trust Fund, 92 mila dollari li ha forniti per le cure mediche. Cosa intende fare con il restante 1,1 milione di dollari promesso?
Anche le intenzioni della sezione spagnola del El Corte Ingles non sono chiare, visto che, pur avendo partecipato al Comitato iniziale incaricato di portare avanti il processo sul Rana Plaza, non si è ancora impegnato per nulla sul caso Tazreen.
Sam Maher, che rappresenta la Clean Clothes Campaign ha dichiarato: "Questi lavoratori hanno atteso tre anni per ottenere i pagamenti necessari alla sopravvivenza quotidiana, per pagare affitto, istruzione e assistenza sanitaria. Essi non dovrebbero essere costretti ad
aspettare ancora. Non vi è alcuna giustificazione per il rifiuto di pagare - i lavoratori Tazreen meritano di essere trattati come quelli del Rana Plaza. Esortiamo tutti quei marchi che compravano dalla Tazreen a contribuire subito senza ulteriori ritardi."
Judy Gearhart, direttore esecutivo dell'International Labor Rights Forum, ha detto: "È
inconcepibile che dopo tre anni le vittime Tazreen e le famiglie non hanno ancora ricevuto
un risarcimento significativo e Wal-Mart non ha pagato o promesso nulla. Ecco perché, nel
terzo anniversario della tragedia, stiamo incoraggiando i consumatori ad agire on-line e di fronte ai negozi Walmart come parte della settimana di azione Black Friday"
Deborah Lucchetti, portavoce della Campagna Abiti Puliti (sezione italiana della Clean Clothes Campaign) aggiunge: “La mancanza di una regolamentazione legale e vincolante, che obblighi le multinazionali ad assumersi le loro responsabilità per tutta la catena di fornitura vigilando sul rispetto dei diritti umani per prevenire disastri come questo, ad esempio con ispezioni indipendenti, trasparenti e non concordate, e intervenire con risarcimenti equi e tempestivi in caso di violazioni, lascia nelle mani dei grandi marchi la volontà di impegnarsi o meno nel rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali dei lavoratori che producono per loro.”
Ma non è accettabile che dei lavoratori muoiano per la negligenza delle multinazionali. Proprio per questo motivo vi diamo appuntamento a Torino il prossimo 21 novembre, dalle 10.30 alle 17.30, presso l’Ex Birrificio Metzger cccto in via Bogetto 4/g per discutere insieme ad attivisti, esperti del settore e istituzioni quali siano le strategie e gli strumenti che si possano mettere in campo per proteggere in maniera più efficiente ed efficace i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici nel mondo.
Programma dell’evento:
https://www.abitipuliti.org/changeyourshoes/2015/10/27/peoples-meeting-21-novembre-torino/
People's Meeting - 21 Novembre - Torino
Grazie ai relatori, a tutti coloro che hanno partecipato e che hanno inviato contributi scritti. Gli esiti dei People’s Meeting organizzati nei 12 paesi europei che promuovono Change Your Shoes saranno utilizzati per continuare il lavoro di sensibilizzazione e miglioramento delle condizioni di lavoro nella filiera delle calzature per renderla più equa, sicura e trasparente per i lavoratori e le lavoratrici che le producono, i cittadini e le cittadine che le acquistano.
DIRITTI DEI LAVORATORI, RETI DI MULTINAZIONALI, POLITICHE EUROPEE:
COSA POSSIAMO FARE PER CAMBIARE ROTTA?
Leggi il documento introduttivo
IL PROGRAMMA
Ex Birrificio Metzger cccto - via Bogetto 4/g - 10144 Torino
10.30 - 11.00 Registrazione Partecipanti
Quali iniziative dovrebbe assumere l’unione europea nell’ambito degli aiuti allo sviluppo, della legislazione sociale, della politica economica, dei trattati internazionali per sradicare la povertà e promuovere i diritti umani e del lavoro dentro e fuori l’Europa?
11.00 – 13.00
Le politiche per lo sviluppo e il commercio in Europa: strabismi, rischi e opportunità per l’azione dei movimenti sociali in difesa dei diritti dei lavoratori
Intervengono
Deborah Lucchetti, Presidente Fair,
Campagna Abiti Puliti
Giovanni Balcet, Docente di Economia Internazionale, Università di Torino e Maison des Sciences de l’Homme, Paris
Ugo Mattei, Giurista, Docente Università di Torino e Hastings College of Law California,Coordinatore accademico International University College di Torino
13.00 - 14.00
Pranzo al Fornello Popolare a cura dell’Ex-Birrificio Metzger
Di quali informazioni, strategie e strumenti dobbiamo disporre noi cittadini, attivisti, operatori dei movimenti sociali e consumatori per trasformarci e consolidarci in attori di cambiamento e attivatori di democrazia e diritti per tutti e per tutte?
14.00 -15.30
Lavoro in gruppi e plenaria. Condivisione dei contributi pre-conferenza.
Facilita
Gilda Esposito, facilitatrice di innovazione sociale ed educativa, Università di Firenze
15.30 - 16.00
Coffee break al Fornello Popolare a cura dell’Ex-Birrificio Metzger
Quale è la vostra posizione in quanto esponenti istituzionali sui temi e sulle strategie per proteggere i diritti dei lavoratori senza confini? Cosa possiamo fare noi per sostenere il vostro impegno dentro le istituzioni per darvi concretezza?
16.00 - 17.30
Le risposte della politica: c’è un futuro per i diritti dei lavoratori in Europa e nelle filiere globali del tessile e delle calzature?
Modera
Andrea Di Stefano, Economista, Direttore rivista Valori
Intervengono
Francesco Gesualdi Presidente Centro Nuovo Modello Sviluppo, Campagna Abiti Puliti
Silvana Cappuccio, Area Politiche europee e internazionali CGIL, rappresentate gruppo lavoratori CdA OIL
Benedetta Francesconi,
Resp. del Segretariato del PNC OCSE - Ministero dello Sviluppo Economico
Paolo Onelli,
Direttore Generale Tutela delle Condizioni di Lavoro e Rel. Ind. Min. del Lavoro e delle P.S.
Stefano Fassina,
Deputato, Sinistra Italiana
Eleonora Forenza, Europarlamentare, L’Altra Europa con Tsipras-Gruppo GUE NGL
Registrati
Per confermare la tua parte cipazione è necessario iscriversi al People’s Meeting tramite questo form: http://goo.gl/forms/3X4RSYx41S.
DOCUMENTO INTRODUTTIVO
Scarica e leggi il documento introduttivo preparato dalla Campagna Abiti Puliti
CONTRIBUISCI
Considerando la complessità di scenari ed il poco tempo a disposizione per la costruzione di proposte bottom up siete tutti invitati ad inviare un contributo preparatorio, un concept paper, un PPT, un videoclip all’indirizzo info@abitipuliti.org entro il giorno prima del people meeting. I contributi verranno pubblicati sul sito della Campagna Abiti Puliti e utilizzati durante l’incontro.
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LIVING WAGE NOW FORUM: la Clean Clothes Campaign chiede accordi vincolanti
Durante il Living Wage Now Forum tenutosi a Bruxelles dal 12 al 14 ottobre, la Clean Clothes Campaign ha consegnato le oltre 125 mila firme raccolte per chiedere l’istituzione di accordi vincolanti e una legislazione adeguata che permetta ai marchi del tessile di assumersi le loro responsabilità in tema di salario dignitoso.
Le firme sono state consegnate alle aziende internazionali e ai rappresentanti della Commissione Europea che hanno preso parte alla due giorni dedicata al salario dignitoso.
Il Forum ha visto la partecipazione di oltre 250 lavoratori, marchi, decisori politici e attivisti riuniti per impegnarsi a implementare il salario dignitoso per tutti i lavoratori del tessile.
Durante l’evento, i partecipanti si sono mostrati d’accordo sul fatto che le politiche adottate in base ai codici di condotta volontari e ai progetti pilota messi in campo finora dalle aziende non hanno prodotto quasi alcuna differenza. La Clean Clothes Campaign insiste sulla necessità di avere un approccio vincolante e strutturale come quello che ha portato alla firma dell’Accordo sulla Sicurezza in Bangladesh e del Protocollo sulla Libertà di Associazione in Indonesia. Questo tipo di accordi è assolutamente innovativo perché affronta le cause del problema alla radice.
È importante che la Commissione Europea migliori velocemente la legislazione in tema di trasparenza del settore tessile. Dopo il disastro del Rana Plaza, è stato impossibile avere una lista dei marchi europei che si rifornivano presso le fabbriche di quell’edificio. Si è dovuto scavare a mani nude tra le macerie per recuperare le etichette e identificare i marchi. Questa è una vergogna per tutte quelle aziende che parlano di responsabilità di impresa. Oggi l’Europa rivede le sue direttive sulla sicurezza e la tracciabilità dei prodotti: esiste quindi la possibilità concreta di rendere pubblici i luoghi di produzione della merce venduta sul mercato europeo.
Altro tema di dibattito è stato il salario estremamente basso dell’industria tessile europea. Ad esempio in Georgia i lavoratori tessili percepiscono appena 114 euro al mese, solo il 10% del salario dignitoso.
L’Asia Floor Wage è convinta che debbano essere le aziende a farsi carico degli aumenti salariali sia in Europa che nel Sud Est Asiatico, visto che sono loro che si appropriano della maggior parte del valore dei beni che le donne e gli uomini che lavorano per loro producono.
Alcune aziende hanno promesso di pagare il salario dignitoso ai lavoratori e alle lavoratrici che producono i loro abiti. Altri hanno stabilito delle tappe per garantire che i diritti dei lavoratori siano rispettati in tutta la catena di fornitura. I risultati non si vedono ancora e noi non ci fermeremo finché questo non diventerà realtà.
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Living Wage Now Forum
Dal 12 al 14 ottobre 2015 si svolgerà a Bruxelles il Living Wage Now Forum organizzato da achACT, Schone Kleren Campagne e Clean Clothes Campaign.
Lo scopo? Incoraggiare i decisori politici e i marchi a passare dalle parole ai fatti basandosi su proposte concrete elaborate dalla Clean Clothes Campaign.
Decine di rappresentanti dei lavoratori da tutto il mondo (Bangladesh, Cambogia, Indonesia, India, Sri Lanka, Haiti, Georgia, Croazia, Salvador), marchi (H&M, Primark, C&A, New Look, Pentland, N'Brown, Tchibo), politici europei, esperti e membri delle organizzazioni che si occupano di diritti dei lavoratori si incontreranno per discutere come rendere il salario dignitoso per tutti una realtà.
- 12 Ottobre - 13.30-17.30
OPENING SESSION : STORIES, MASS MOBILISATION AND PERSPECTIVE
> 3 Conferenze tematiche - 12 Ottobre - 19.45-22.00
FILM + DISCUSSION: THE TRUE COST - 13 Ottobre - 9.00-17.30
FROM DISCOURSE TO ACTION: DISCUSSIONS WITH BRANDS AND POLICY MAKERS
> 4 Conferenze tematiche e consegna delle oltre 119mila firme raccolte per l'istituzione del salario dignitosoOctober 13th from 8 pm - LIVING WAGE NOW PARTY
- 14 Ottobre
WHAT NEXT?
> Workshops day (aperto solo ai membri della Clean Clothes Campaign)
Solo su invito : contattare achacteurs@achact.be
Sicurezza edifici in Bangladesh: H&M non rispetta i patti
----> FIRMA LA PETIZIONE: https://actionnetwork.org/letters/h-m-agire-per-la-sicurezza-dei-lavoratori
La Clean Clothes Campaign (CCC), l’International Labor Rights Forum (ILRF), il Maquila Solidarity Network (MSN) e il Worker Rights Consortium (WRC) lanciano il report Evaluation of H&M Compliance with Safety Action Plans for Strategic Suppliers in Bangladesh. Il documento analizza le informazioni pubbliche disponibili riguardo ai progressi fatti da H&M nell’affrontare i rischi per la sicurezza dei lavoratori nei suoi stabilimenti in Bangladesh.
I dati, provenienti dalle relazioni delle ispezioni nelle fabbriche e dai Piani di Azione Correttiva (CAPs) resi pubblici dall’Accordo per la prevenzione degli incendi e la sicurezza in Bangladesh (siglato in seguito al crollo del Rana Plaza nel 2013, il peggior disastro della storia dell’industria tessile che ha causato la morte di 1138 persone), mostrano chiaramente come H&M non abbia rispettato gli impegni per garantire la sicurezza dei lavoratori.
Concentrandosi sulle fabbriche che H&M ha indicato come le migliori della sua catena di fornitura in tema di lavoro e ambiente, il rapporto mostra come tutte queste fabbriche non siano state in grado di rispettare le scadenze previste per le riparazioni e come la maggior parte delle ristrutturazioni non siano ancora state ultimate nonostante i termini scaduti. Le ristrutturazioni includono l’installazione di porte tagliafuoco, la rimozione dei blocchi e delle porte scorrevoli dalle uscite di sicurezza e delle recinzioni sulle scale, permettendo ai lavoratori di uscire dalla fabbrica in sicurezza in caso di emergenza.
Nel 2010, 21 lavoratori sono morti nell’incendio della fabbrica Garib&Garib, fornitore di H&M, per mancanza di elementi base a garantire la sicurezza, tra cui le uscite antincendio.
“Per la prima volta, grazie all’Accordo, H&M è a conoscenza di tutte le ristrutturazioni necessarie a rendere finalmente sicure le sue fabbriche in modo che i lavoratori non corrano rischi e non temano un nuovo Rana Plaza” ha dichiarato Bob Jeffcott del Maquila Solidarity Network (MSN). “Nonostante ciò, continuano a tirarla per le lunghe e a ritardare i lavori”
“Da parte di H&M vorremmo vedere un investimento serio nel processo di risanamento dei suoi fornitori in Bangladesh, almeno pari a quello effettuato in pubblicità e dichiarazioni altisonanti sulla sostenibilità. Dato il suo peso nel settore tessile in quel paese e data l’opportunità offerta dallo storico Accordo siglato dopo la tragedia del Rana Plaza, H&M può giocare un ruolo chiave per mettere in sicurezza l’intero settore in Bangladesh ”, dichiara Deborah Lucchetti della Campagna Abiti Puliti.
“Sull’onda emotiva che ha circondato il disastro del Rana Plaza, H&M, il più grande produttore di abbigliamento in Bangladesh, ha garantito di sistemare le condizioni in cui si trovano le fabbriche in quel Paese” ha concluso Scott Nova del Worker Rights Consortium (WRC). “Ora è chiaro che H&M ha infranto quella promessa”.
Ali Enterprises: dopo 3 anni KIK ancora non paga i risarcimenti alle vittime
L’11 settembre 2012 alla Ali Enterprises morirono arse vive 254 persone mentre 55 rimasero gravemente ferite. L’incendio divampò alle 6 del pomeriggio e gli operai rimasero intrappolati come topi dietro a finestre sbarrate e uscite bloccate. Un inferno che ancora oggi vive nella memoria dei sopravvissuti che conducono vite miserabili in attesa di giustizia. Solo tre settimane prima, è bene ricordarlo, la Ali Enterprises aveva ottenuto la certificazione SA8000 dal RINA, società di ispezione italiana. Una azienda sicura, secondo gli ispettori accreditati dalla SAI.
Nel terzo anniversario del peggior disastro industriale del Pakistan, i sindacati globali IndustriALL e UNI, insieme con la Clean Clothes Campaign richiamano il grande distributore tedesco KIK alle sue dirette responsabilità e in particolare al dovere di onorare la promessa di garantire il risarcimento alle vittime.
All'indomani del disastro il gigante tedesco KiK, con 3.200 punti vendita in tutta la Germania, l'Austria e l'Europa orientale, ha firmato un Memorandum vincolante con l’impegno di effettuare un pagamento iniziale di US $ 1 milione per le vittime e le loro famiglie per le cure immediate.
KiK ha versato $ 1 milione nel fondo provvisorio ma si è sottratta agli altri obblighi previsti dall’accordo di impegnarsi nel negoziato per determinare il risarcimento di lungo periodo per le vittime. A cui si affianca l’obbligo di versare 250.000 dollari per rinforzare il lavoro di monitoraggio degli standard sociali, anche questo mai onorato.
Dalla firma dell’accordo il 21 dicembre 2012, KiK ha giocato a prendere tempo e ha messo in campo tatticismi solo volti ad evitare le sue responsabilità. La necessità di ricevere un giusto risarcimento che includa la perdita di reddito, le spese mediche e i danni psicologici, per quanto scritta in un accordo firmato dalle parti, conta poco o nulla.
Ma le vittime non demordono e neanche le organizzazioni che da tre anni difendono i loro diritti. Come quelli di Rifit Bibi, rimasta vedova con quattro bambini piccoli da mantenere, che dichiara "Ricevo 5.000 PKR (47 dollari ) al mese di pensione, non sufficienti per comprare il cibo per i miei figli. La vita è miserabile, da quando mio marito è morto”. O quelli di Shahida Parveen, vedova di 37 anni e dei suoi tre figli che ha paura di finire a lavorare in una fabbrica della morte e vorrebbe lavorare negli uffici, per i quali necessita di una buona istruzione, ma non ha abbastanza soldi per permettersela.
KiK vanta un record di approvvigionamento da alcune delle fabbriche più pericolose al mondo e quello di unica azienda collegata ai tre più gravi disastri che hanno colpito l'industria dell'abbigliamento in tempi recenti: l’incendio alla Ali Enterprises in Pakistan; l’incendio alla Tazreen Bangladesh (2012); e il crollo del Rana Plaza, sempre in Bangladesh (2013). Tre tragedie in cui sono morti 1.500 lavoratori.
Secondo gli attivisti della Clean Clothes Campaign e i sindacati globali IndustriALL e UNI, si tratta di una situazione inaccettabile, di un insulto per le vittime che non possono attendere ancora. Per questo è stata avviata una campagna di pressione internazionale per obbligare la KiK a rispettare gli accordi. E una petizione, lanciata da Shahida, una delle donne rimaste vedove quel maledetto 11 settembre http://bitly.com/makekikpay
Al via la campagna “Change your shoes” per trasformare l’industria calzaturiera.
18 organizzazioni impegnate nella difesa dei diritti umani, dei diritti dei lavoratori e dell’ambiente, provenienti dall’Europa, la Cina, l’India e l’Indonesia, lanciano la nuova campagna globale “Change your Shoes”, volta ad affrontare le violazioni sistematiche dei diritti umani che affliggono l'industria calzaturiera, tra cui le condizioni di lavoro non sicure e i salari da fame, nonché la necessità di una regolamentazione e di trasparenza.
Recenti disastri dell’industria tessile, tra cui il crollo del Rana Plaza, hanno messo in evidenza le spaventose condizioni di lavoro degli operai e delle operaie del tessile. Quello che spesso si trascura è che problemi molto simili pervadono anche altri settori di produzione di beni primari, come quello calzaturiero e degli accessori. Ad esempio i salari da fame sono una realtà purtroppo radicata, con circa il 2% del prezzo di un paio di scarpe pagato al lavoratore che le produce. Per non parlare dei rischi per la salute e per l’ambiente che si corrono in moltissime concerie a causa dell’utilizzo di Cromo III.
All’inizio dell’anno la campagna Change your Shoes ha commissionato alla Nielsen un sondaggio. È risultato che il 50% dei cittadini europei ha scarse o nessuna informazione sulla produzione delle scarpe, nonostante la dimensione industriale del settore sia immensa, con oltre 22 miliardi di paia di scarpe prodotte nel solo 2013, l’87% delle quali in Asia. Il sondaggio ha inoltre rivelato che il 63% dei cittadini ritiene che l’Europa dovrebbe imporre regolamentazioni sui beni che entrano nel mercato continentale per garantire il rispetto dei diritti dei lavoratori.
“È sorprendente quanto poco conoscano i consumatori del settore calzaturiero. La campagna Change your Shoes si occuperà di sensibilizzare i cittadini, esercitare pressioni sui marchi e chiedere ai legislatori di affrontare quei nodi chiave che favoriscono il perdurare degli abusi, come la totale mancanza di trasparenza. L’Ue, come istituzione leader democratica, deve compiere passi concreti e implementare chiare regolamentazioni che salvaguardino i diritti dei lavoratori” dichiara Deborah Lucchetti, portavoce della Campagna Abiti Puliti.
La campagna inoltre lancia oggi una nuova applicazione per smartphone invitando tutti e tutte a partecipare ad una marcia virtuale verso Bruxelles, chiedendo all’Ue di adottare le misure necessarie a garantire trasparenza nelle catene di fornitura calzaturiere. L’applicazione può essere scaricata qui: http://changeyourshoes.cantat.com/
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Questo comunicato stampa è stato prodotto con l’assistenza finanziaria dell’Unione Europea. I contenuti di questo comunicato stampa sono di responsabilità della Campagna Abiti Puliti e in nessuna circostanza possono essere considerati una posizione dell’Unione Europea.
I nostri abiti hanno un difetto di fabbricazione. Rispediamoli simbolicamente ai marchi
Mentre impazzano i saldi estivi nelle città di tutto il mondo, la Clean Clothes Campaign punta i riflettori sui “difetti di fabbricazione” degli abiti con il lancio del nuovo sito Living Wage Defect. Le persone possono simbolicamente rispedire ai marchi un abito a causa del difetto da salario dignitoso e firmare la petizione in favore dei lavoratori e delle lavoratrici del tessile.
In Asia come in Europa, i lavoratori del tessile lottano per i loro salari. Deborah Lucchetti, portavoce della Campagna Abiti Puliti dichiara: “I salari minimi attuali sono così bassi che i lavoratori sono costretti a vivere in povertà, senza la possibilità di offrire un futuro migliore ai loro figli. I marchi parlano di salario dignitoso da anni, ma non abbiamo ancora visto miglioramenti per i lavoratori”
Un salario dignitoso dovrebbe essere guadagnato in una normale settimana lavorativa e permettere al lavoratore di acquistare cibo per se stesso e la sua famiglia, pagare l’affitto, le cure mediche, gli abiti, i trasporti, i costi di istruzione e risparmiare una piccola somma per affrontare spese impreviste. La realtà è un’altra. Una lavoratrice del Bangladesh, ad esempio, dovrebbe lavorare più di 22 ore al giorno, tutti i giorni della settimana, per raggiungere il salario dignitoso.
Difetto da salario dignitoso
Nella maggior parte dei casi i lavoratori del tessile guadagnano solo il 20-30% del salario dignitoso. “Se i nostri abiti fossero ridotti del 70-80% , li rispediremmo indietro. Invitiamo i consumatori a fare lo stesso per il difetto da salario dignitoso, rispedendo simbolicamente ai marchi un abito attraverso il sito Living Wage Defect” aggiunge Lucchetti.
Negli ultimi due anni, oltre 110 mila cittadini europei hanno già sottoscritto la petizione per l’istituzione del salario dignitoso nel settore tessile. Questa petizione sarà consegnata alle imprese e ai rappresentanti politici durante il Living Wage Now Forum che si svolgerà nell’Ottobre 2015 a Bruxelles.
Living Wage Now Forum
Dal 2013 la Clean Clothes Campaign lavora intensamente per sostenere la battaglia dei lavoratori e delle lavoratrici del tessile per il salario dignitoso, dando voce agli operai, rafforzando le organizzazioni dei lavoratori e supportando strategie concrete come l’Asia Floor Wage Alliance, iniziativa regionale impegnata unisce sindacati e organizzazioni per i diritti umani e dei lavoratori in Asia.
In Europa, la CCC ha sensibilizzato i cittadini affinché esercitassero pressioni sui marchi e sui decisori politici per intraprendere iniziative concrete e costruire un contesto normativo volto al rispetto e alla promozione del diritto al salario dignitoso nel tessile.
Il percorso culminerà con il Living Wage Now Forum, che si svolgerà dal 12 al 14 ottobre 2015 a Bruxelles: in quell’occasione la CCC chiederà alle imprese e ai decisori politici europei di discutere sui prossimi passi concreti necessari al rispetto dei diritti umani nell’industria della moda.
LIVING WAGE NOW
FIRMA LA PETIZIONE
Dichiarazione della Campagna Abiti Puliti sul crollo della Jieyu Shoe Factory in Cina
La Campagna Abiti Puliti esprime tristezza e rabbia per la notizia della tragica perdita di vite umane in una fabbrica di scarpe crollata in Cina orientale sabato scorso 5 luglio, e invia le sue sentite condoglianze a tutte le famiglie colpite.
Gli ultimi rapporti suggeriscono che alla Jieyu Shoe Factory, situata nella provincia orientale di Zhejiang in Cina e crollata lo scorso 5 luglio, hanno perso la vita tra i sei e i 14 operai.
56 operai erano al lavoro quando l'edificio di quattro piani crollato. Più 30 hanno subito lesioni gravi e le squadre locali antincendio e di soccorso stanno continuando a scavare tra le macerie per recuperare i corpi. La causa del crollo del palazzo non è chiara, ma grandi e pesanti serbatoi d'acqua erano stati installati sul tetto e questo, secondo le ultime fonti, potrebbe aver contribuito.
Inoltre non è tuttora chiaro quali marchi internazionali si rifornissero alla fabbrica, anche se la zona è un centro di produzione di scarpe ben noto. Secondo la commissione turismo del governo locale la città di Wenling, dove si trovava la fabbrica della morte, produce “un quinto della produzione mondiale di scarpe”.
Il crollo accresce la lista dei disastri in materia di salute e sicurezza nel settore abbigliamento e calzature venuti prepotentemente alla ribalta internazionale con il caso Rana Plaza del 2013.
La Campagna Abiti Puliti non cessa di fare appello all’industria mondiale della moda e delle calzature affinchè apprenda dagli errori del passato e si impegni a garantire sicurezza e salubrità in tutti i luoghi di lavoro.
Esorta tutte le aziende committenti della Jieyu Shoe Factory a lavorare insieme per garantire un equo risarcimento e cure mediche appropriare alle famiglie delle vittime e alle persone colpite da questo tragico incidente.
Rana Plaza: abbiamo vinto!
La Clean Clothes Campaign (CCC) è lieta di annunciare una grande vittoria: il Rana Plaza Donors Trust Fund ha finalmente raggiunto l’obiettivo di 30 milioni di dollari grazie ad una cospicua donazione anonima.
La CCC ha iniziato la campagna subito dopo il crollo nell’aprile 2013 chiedendo ai marchi e ai distributori di risarcire le vittime di quel disastro. Da allora oltre un milione di consumatori in tutta Europa e nel mondo hanno partecipato alle azioni rivolte ai principali marchi che si rifornivano in una delle cinque fabbriche ospitate dal Rana Plaza. Proprio queste azioni hanno costretto molti brand a pagare i risarcimenti dovuti portando il Fondo a soli 2,4 milioni di dollari dall’obiettivo nel secondo anniversario del disatro. Una grande donazione ricevuta dal Fondo nei giorni scorsi ha infine permesso di raggiungere i 30 milioni di dollari prefissati.
“Oggi è un giorno importante per la giustizia e per i diritti dei lavoratori. Dopo più di due anni di campagna internazionale ininterrotta, le vittime del Rana Plana possono finalmente contare sul pieno risarcimento a loro dovuto secondo i calcoli effettuati dal Rana Plaza Trust Fund. Ciò non sarebbe stato possibile senza la pressione costante e crescente dei cittadini e dei consumatori che in tutta Europa non hanno mai smesso di chiedere giustizia per quei lavoratori” dichiara Deborah Lucchetti della Campagna Abiti Puliti. “ Avremmo voluto ottenere questo risultato molto prima. Tuttavia l’assenza di regole vincolanti per le imprese che le obblighino a risarcire in lavoratori in casi come questi mette in luce la necessità di superare meccanismi di tipo volontario che possono funzionare solo in presenza di una forte pressione pubblica”
Il Rana Plaza Donors Trust Fund è stato istituito dall’ILO nel gennaio 2014 per raccogliere i soldi da destinare alle vittime come risarcimento per la perdita di guadagni e per coprire le spese mediche. Nel novembre 2014 il Rana Plaza Coordination Committee ha annunciato che sarebbero stati necessari 30 milioni di dollari per garantire i 5000 risarcimenti previsti dal processo di valutazione. Tuttavia, a causa delle donazioni insufficienti dei marchi e dei distributori, non era stato possibile fino ad oggi completare tutti i pagamenti.
La Clean Clothes Campaign continuerà a sostenere le vittime Rana Plaza che stanno cercando di ottenere ulteriori risarcimenti per il dolore e la sofferenza subiti a causa della negligenza aziendale e istituzionale: risarcimenti che non rientrano nel campo di applicazione dell’Arrangement e quindi esclusi dai 30 milioni di dollari.
La CCC chiede inoltre modifiche strutturali a livello politico per garantire alle vittime di futuri disastri un intervento più tempestivo. Accoglie positivamente la nuova iniziativa dell’ILO in Bangladesh rivolta a sviluppare un sistema nazionale di protezione per gli infortuni sul lavoro per i 4 milioni di lavoratori tessili del Paese. Invita infine anche i politici europei a sviluppare una migliore regolamentazione delle catene di fornitura al fine di garantire che i marchi e i rivenditori si assumano adeguate responsabilità in futuro.
CCC chiede un'inchiesta sull'incendio nelle Filippine
La Clean Clothes Campaign chiede al governo delle Filippine di svolgere un’inchiesta completa e dettagliata sulle circostanze che hanno causato l’incendio della fabbrica di infradito di Manila, che ha causato la morte di almeno 72 lavoratori e lavoratrici lo scorso 13 maggio 2015.
L’incendio, probabilmente il peggiore della storia industriale filippina, è divampato quando le scintille di un impianto di saldatura, utilizzato per riparare una serranda, sono entrate in contatto con una sostanza chimica altamente infiammabile raccolta nelle vicinanze. I lavoratori sono rimasti intrappolati al secondo piano del palazzo, impossibilitati a scappare dallaefinestre chiuse con sbarre e reti metalliche. La violenza del fuoco ha reso estremamente difficile l’identificazione dei corpi e 20 lavoratori risultano ancora dispersi.
La fabbrica Kentex Manufacturing Incorporated, situata a Valenzuela City, stava producendo ciabatte di gomma per la vendita e la distribuzione in diverse parti delle Filippine. I familiari delle vittime hanno costituito la Justice for Kentex Workers Alliance e sono determinati a lottare per i loro cari.
La CCC chiede che il governo persegua i responsabili di questi decessi e fornisca un pieno risarcimento ai familiari delle vittime. Inoltre, la CCC supporta la richiesta, fatta dai gruppi impegnati nella difesa dei diritti dei lavoratori al governo, di rendere obbligatorio che le ispezioni alle fabbriche siano effettuate da ispettori indipendenti dal settore.
Deborah Lucchetti, portavoce della Campagna Abiti Puliti, dichiara: “Siamo di fronte all’ennesima tragedia che poteva e doveva essere evitata. Se vi fossero state ispezioni indipendenti e terze, sarebbero venute alla luce le gravi violazioni delle normative vigenti sulla sicurezza. E’ doveroso da parte del governo avviare una indagine per accertare le cause dell’incendio e identificare i responsabili. Inoltre le famiglie delle vittime hanno diritto ad in pieno e certo risarcimento”
Subito dopo l’incendio Rosalinda Baldoz, Labor Secretary, ha dichiarato che la fabbrica aveva superato un controllo sul rispetto degli standard di salute e sicurezza del lavoro condotto dal Department of Labor and Employment (DOLE) nel settembre 2014. Inoltre, secondo quanto riportato, il Bureau of Fire Protection aveva fornito anche una certificazione per la sicurezza antincendio.
Tuttavia, il team di inchiesta, composto da Ong specializzate in diritti dei lavoratori che hanno visitato l’area il 14 maggio, ha riscontrato violazioni evidenti delle norme relative alla salute e sicurezza dei lavoratori, molte delle quali hanno contribuito sia alla scoppio dell’incendio che alla perdita della vite umane.
L’inchiesta ha scoperto che lo stoccaggio insicuro delle sostanze chimiche e la mancanza di una corretta etichettatura del contenuto ha fatto si che i lavoratori non fossero consapevoli dell’infiammabilità delle sostanze o delle modalità da seguire per spegnere l’incendio quando è divampato. La mancanza di adeguati sistemi di allarme antincendio, di esercitazioni di emergenza e di formazione non ha permesso ai lavoratori di fronteggiare le fiamme o scappare. Inoltre l’assenza di adeguate uscite di emergenza ha intrappolato le persone senza poter scappare. Tutte queste lacune costituiscono evidenti violazioni delle norme sulla sicurezza esistenti e avrebbero dovuto essere scoperte dalle ispezioni se fossero state condotte in maniera adeguata.
Potete sostenere le famiglie dei feriti e delle vittime mandando un messaggio attraverso questa pagina facebook e usando l’hashtag #JusticeForKentexWorkers
ATTIVATI! Manda la lettera aperta a Doutzen Kroes, modella per H&M
ATTIVATI!
Manda questa lettera a Doutzen Kroes, modella per H&M nella nuova collezione bikini, perché ci aiuti pubblicamente ad ottenere il salario dignitoso per tutti lavoratori e le lavoratrici della catena di fornitura di H&M!
Come?
- Copia e incolla il testo sulla pagina Facebook di Doutzen: https://www.facebook.com/Doutzen
- Mandale un tweet:
@Doutzen complimenti per #HMSummer! Ma sai come vengono prodotti quei bikini? http://bit.ly/1c9gVKz
La lettera
Cara Doutzen,
hai appeno posato come modella per la nuova collezione bikini di H&M. Congratulazioni per le bellissime fotografie!
Ma sai dove e in che condizioni sono prodotti i bikini di H&M?
Le donne che fanno questi indumenti di H&M nell’Est Europa e in Asia guadagnano una paga molto al di sotto del salario dignitoso. Nonostante lavorino dalle 10 alle 12 ore a l giorno, non guadagnano abbastanza per provvedere all’educazione dei propri figli, a pasti sani e cure mediche. In Cambogia, dovrebbero guadagnare quattro volte quello che guadagnano ora per essere sicure che loro e le loro famiglie possano condurre una vita dignitosa.
Doutzen ti chiediamo di aiutarci a permettere che tutti i lavoratori e le lavoratrici del tessile possano conseguire un salario dignitoso. Potresti chiedere pubblicamente ad H&M di pagare un salario dignitoso e di divulgare i parametri del salario dignitoso dei progetti già in essere?
Qui trovi maggiori informazioni sul perché pensiamo che H&M debba sbrigarsi.
Grazie mille
Somyot libero: firma la petizione per chiedere il suo rilascio
Oggi sono 4 anni esatti dall’arresto di Somyot Pruksakaemsuk, il giornalista e attivista dei diritti umani thailandese. La Campagna Abiti Puliti è preoccupata per le sue condizioni fisiche e chiede il suo rilascio immediato.
L’abuso della legge sulla lesa maestà per mettere a tacere media e bloggers si è intensificato dopo il colpo di stato miliare del maggio 2014. Questo mina gravemente la libertà d’espressione e minaccia tutti i cittadini thailandesi
Fai sentire la tua voce e firma la petizione: http://www.ipetitions.com/petition/tell-thailand-free-thai-activist-somyot
Somyot ha collaborato con la Clean Clothes Campaign in numerose campagne e Azioni Urgenti. Le accuse contro di lui si basano su due articoli satirici, scritti da qualcun altro, pubblicati sul giornale Voice of Taksin (la Voce degli oppressi), ora non più esistente, e di cui al tempo Somyot era il direttore. L’Articolo 112 del codice penale thailandese stabilisce che “chiunque diffami, insulti o minacci il re, la regina, l’erede al trono o il reggente, deve essere punito con la carcerazione da tre a quindici anni”. Inoltre, poco prima del suo arresto, il 28 aprile 2011, Somyot aveva lanciato pubblicamente una petizione per rimuovere il reato di lesa maestà dal codice penale thailandese.
Il 30 aprile 2015 Somyot avrà trascorso 4 anni dietro le sbarre, durante i quali tutte e 16 le sue richieste di cauzione sono state respinte. Somyot soffre di gotta e ipertensione e ci sono serie preoccupazioni che il trattamento medico che sta ricevendo nel carcere Bangkok Remand non sia sufficiente.
Fai sentire la tua voce e firma la petizione: http://www.ipetitions.com/petition/tell-thailand-free-thai-activist-somyot
Parte la campagna “Change Your Shoes”. Bene il regolamento sul Cromo VI, ma serve di più
Dal 1 maggio 2015 l'Unione Europea vieterà i prodotti in pelle che superano un valore critico di Cromo VI. È un passo importante per proteggere i consumatori europei dai prodotti in pelle nocivi, ma non per tutelare le persone che lavorano nelle concerie e nei calzaturifici. Pertanto, la nuova campagna Change Your Shoes propone di migliorare le condizioni sociali ed ecologiche nell’industria delle calzature e del cuoio. Inoltre, segnala la necessità di una maggiore trasparenza nel modo in cui i consumatori sono informati sui prodotti che acquistano e indossano.
“E’ preoccupante che i consumatori europei corrano dei rischi per la loro salute indossando scarpe di pelle. Così come è allarmante che i lavoratori e le lavoratrici delle concerie e dei calzaturifici in India e Bangladesh siano ancora più a rischio lavorando con sostanze chimiche senza alcuna protezione e in costante contatto con il cuoio inquinato” dichiara Deborah Lucchetti, portavoce della Campagna Abiti Puliti, tra i promotori della campagna Change Your shoes. “Il Cromo VI dovrebbe essere stato vietato da molto tempo. Il nuovo regolamento dell’Unione Europea è un primo passo ma resta da valutare la sua efficacia e i suoi effetti positivi per i lavoratori e le lavoratrici del settore”.
La concia chimica con il Cromo VI è una tecnica utilizzata nell’80-85% della produzione mondiale di pelletteria. In alcuni casi viene usato il Cromo III che però, in determinate circostanze, può trasformarsi in Cromo VI, altamente tossico per l’uomo e causa di malattie della pelle e respiratorie.
A differenza dell’industria tessile, le cattive condizioni sociali dei processi produttivi nel settore calzaturiero sono quasi del tutto sconosciute. Nei prossimi tre anni il progetto Change Your Shoes effettuerà delle ricerche sulle condizioni ambientali e di lavoro nell’industria delle calzature e del cuoio e favorirà il confronto tra i cittadini europei, i decisori politici e le imprese sui risultati riscontrati. “Il nostro scopo è quello di migliorare le condizioni in cui vengono prodotte le nostre scarpe cercando, tra le altre cose, di cambiare le abitudini di consumo dei cittadini europei, chiedendo che venga vietato l’utilizzo di cromo nella concia delle pelli e vengano aumentati i salari dignitosi nelle concerie e nei calzaturifici” ricorda ancora Deborah Lucchetti.
Change Your Shoes è parte dell'Anno europeo per lo sviluppo con il motto 'Il nostro mondo, la nostra dignità, il nostro futuro'. L'UE è un attore importante nella protezione dei lavoratori e dei consumatori dai prodotti pericolosi e nell'implementazione di una catena di fornitura etica e sostenibile del settore calzaturiero.
Change your Shoes è un’iniziativa europea delle organizzazioni che si occupano di diritti umani e diritti dei lavoratori, 15 organizzazioni europee e 3 asiatiche insieme per una catena di fornitura etica e sostenibile nel settore calzaturiero. La campagna mira a migliorare le condizioni sociali ed ecologiche dell’industria delle calzature e del cuoio sensibilizzando i consumatori sulle loro scelte di vita, sollecitando cambiamenti nelle politiche pubbliche e rafforzando la responsabilità delle imprese.
Secondo anniversario Rana Plaza: la responsabilità di Benetton vale molto più di 1 milione di dollari
Siamo preoccupati per il recente annuncio di Benetton di voler versare nel Fondo per i risarcimenti per le vittime del Rana Plaza appena 1,1 milioni di dollari, a fronte della nostra richiesta di almeno 5 milioni di dollari.
Il contributo limitato di Benetton lascia le famiglie delle vittime ancora senza un adeguato risarcimento, confermando la crisi finanziaria del Fondo, a cui mancano ancora 6 milioni di dollari per raggiungere il totale previsto.
È evidente che Benetton ha cercato di legittimare il suo contributo assumendo la PWC per determinare la cifra da versare. Restano però forti dubbi sulla reale esperienza e competenza di questa società in tema di diritti umani tali da dirimere una questione così complicata.
La metodologia utilizzata dalla PWC per calcolare la cifra che Benetton deve versare nel Fondo è sbagliata. L’azienda ha tentato di eseguire il calcolo in base ai rapporti commerciali di Benetton con la fabbrica da cui si riforniva. Non crediamo sia un metodo corretto, ma anche se si volesse prenderlo per buono, bisogna essere precisi su una serie di altri fattori:
- L’ammontare totale della produzione di tutte e cinque le fabbriche del Rana Plaza nel periodo stabilito;
- Il totale della produzione di Benetton in quel periodo;
- La cifra totale necessaria per un pieno risarcimento;
- Gli altri marchi presenti in tutte le cinque fabbriche in quel periodo;
- Le percentuali di produzione per ciascuno di questi marchi (per garantire una piena copertura)
A parte il totale necessario al pieno risarcimento, calcolato e sottoscritto attraverso il Rana Plaza Arrangement (un processo che ha coinvolto tutti gli attori rilevanti, compresi i rappresentanti dei marchi), tutte le informazioni relative agli altri fattori fornite dalla PWC si basano su congetture, ipotesi e dati incompleti, per stessa ammissione dell’azienda nelle prime pagine della sua relazione.
PWC presuppone che l’impegno di Benetton nei confronti delle vittime sia strettamente legato alla sua quota di produzione nelle fabbriche dell’edificio, ignorando una serie di elementi che aumentano il livello di responsabilità di Benetton:
- Il fatto che Benetton abbia mentito pubblicamente sulle sue relazioni con il Rana Plaza nelle settimane successive al disastro, negando inizialmente qualsiasi legame con l’edificio e successivamente, dopo essere stata costretta ad ammettere che i suoi beni venivano prodotti anche li, sottostimando continuamente l’entità del suo rapporto con la più grande fabbrica dell’edifico – nonostante altri brand avessero già ammesso le proprie responsabilità
- Il fatto che Benetton abbia trascinato per due anni questa storia del risarcimento contribuendo ad aggravare il ritardo nei pagamenti
- Il fatto che Benetton, per sua stessa ammissione, abbia prodotto nel Rana Plaza più di un quarto di milione di pezzi, lavorando con la fabbrica per oltre otto mesi, senza mai compiere nessun passo per accertare la condizioni di sicurezza dei lavoratori, nonostante abbia condotto diverse visite di controllo della qualità della produzione
- Il fatto che Benetton, la cui società madre registra un fatturato di 15 miliardi di dollari all’anno, possa permettersi di pagare molto di più di altri marchi coinvolti nel caso
Queste sono le ragioni per concludere che il livello di responsabilità di Benetton verso le vittime è molto più grande di quello di moli altri marchi, ma nessuna di queste viene riconosciuta, né tantomeno presa in considerazione, nella valutazione della PWC
Il report della PWC è in realtà utile per un altro motivo: documenta, in maniera dettagliata, l’enorme relazione di Benetton con la New Wave Style, la più grande fabbrica del Rana Plaza, mostrando ancor più di prima quanto l’azienda si sia dimostrata sfacciata nelle settimane immediatamente successive al disastro.
La relazione della PWC mostra che
- la New Wave Style ha prodotto numerosi ordini per la Benetton;
- questi ordini (e le 39 relative fatture) sono stati spediti direttamente dal Rana Plaza alla Benetton e Benetton ha pagato direttamente la New Wave Style tutte e 39 le volte;
- il personale di Benetton ha visitato diverse volte il Rana Plaza per controllare le attività della New Wave Style;
- i lavoratori del Rana Plaza hanno inviato un ordine alla Benetton appena 11 giorni prima del crollo
Alla luce di questo, l’affermazione di Benetton “nessuna delle aziende coinvolte è un fornitore dei nostri brand” può essere vista solo come una sfacciata e cinica menzogna di cui l’azienda, ad oggi, non si è ancora mai scusata.
Pertanto, sulla base di tutte queste motivazioni, chiediamo fortemente a Benetton di aumentare in maniera sostanziosa il suo contributo.
È importante ribadire, e questo è un fatto, che nonostante il significativo rapporto con la fabbrica New Wave Style, Benetton non abbia applicato la dovuta diligenza per accertare la sicurezza dell’edificio: se l’avesse fatto il Rana Plaza non sarebbe crollato. Già solo per questo, Benetton è responsabile della morte e della mutilazione di migliaia di persone e deve aumentare il suo contributo prendendo anche in considerazione l’opportunità di versare gli altri 6 milioni di dollari che mancano nel Fondo.
Foto del concerto per le vittime Rana Plaza
Il 18 aprile a Genova, nell'ambito della rassegna La storia in piazza, si è svolta la performance 136OOhZ concerto per macchine per cucire in memoria delle vittime del Rana Plaza.
13600hZ, un progetto di Sara Conforti - hòferlab, porta in scena le ritualità quotidiane della vestizione, il valore simbolico e semantico del nostro abitare l’abito. è un progetto di natura concettuale e simbolista. Un tableau vivant dal cuore sociale e la volontà educativa, che prende forma come una pièce teatrale, e alla fine diventa evento sensoriale.
Ecco alcuni momenti dell'evento:
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Rana Plaza: cosa puoi fare tu!
Il 24 aprile 2015, secondo anniversario del disastro del Rana Plaza, entra in azione per chiedere giustizia per le vittime e cambiamenti significativi nell’industria tessile globale. Uniti possiamo farcela.
Ti suggeriamo alcuni modi per attivarsi. Puoi essere creativo/a e inventarne di altri. Facci sapere che azioni hai preparato.
Azioni individuali
Posta messaggi di solidarietà
Non sottovalutare la potenza di questa semplice azione. La solidarietà è il collante che ci unisce e che ci permette insieme di promuovere un cambiamento. Il 24 aprile e nei pressi, posta messaggi di solidarietà su facebook, twitter, il tuo blog o qualsiasi mezzo di comunicazione hai a disposizione. Magari aggiungi una fotografia di te stesso con un cartello di solidarietà
Messaggi che puoi usare:
Ricorda il #RanaPlaza. #NeverAgain
Ricorda il #RanaPlaza. Io sto dalla parte dei lavoratori #Solidarity
Solidarietà ai lavoratori e lavoratrici che producono i miei abiti. Ricorda il #RanaPlaza
Nessuno dovrebbe morire al prezzo di una t-shirt. Ricorda il #RanaPlaza
Twitta messaggi di protesta alle aziende
Le aziende dipendono sempre più dai social media per costruire la loro immagine e il loro profilo. Li usuano anche per entrare in contatto con i consumatori. I social media sono un ottimo strumento per veicolare la tua protesta nei confronti dei marchi. Due anni dopo il crollo del #RanaPlaza, le vittime stanno ancora aspettando i risarcimenti. I brand direttamente collegati al Rana Plaza realizzano tutti insieme profitti che superano i 25 miliardi di dollari e non riescono a trovare 30 milioni di dollari per garantire alle vittime la piena compensazione. Questo è del tutto inaccettabile. Dobbiamo far sentire la nostra indignazione.
Chiedi a tutti i brand collegati al Rana Plaza che paghino il pieno e giusto risarcimento alle vittime. Comunica ai tuoi marchi preferiti che ti aspetti da loro trasparenza delle catene di fornitura e rispetto dei diritti umani. Comunica al governo che ti aspetti che dia priorità alla responsabilità d’impresa attraverso leggi adeguate, permettendo alle vittime di avere accesso alla giustizia a prescindere da dove gli abusi accadono.
Alcuni tweet che puoi usare
.@benetton @wlmart @childrensplace a tutti gli altri. Ricordate il #RanaPlaza. Pagate i risarcimenti #PayUp
.@hm e tutti gli altri. Ricordate il #RanaPlaza. Proteggete i diritti umani dei lavoratori del tessile. #PayUp
Ricordate il #RanaPlaza. I marchi devono essere trasparenti e rispettare i diritti umani
Scrivi col gesso e posta le foto
Scrivi messaggi di solidarietà col gesso fuori dai grandi negozi delle strade principali. Scegli negozi di marchi direttamente collegati al Rana Plaza, come Benetton, Primark, Mango, Walmart, Inditex (Zara). Ispirati all’arte pubblica usata per ricordare le vittime dell’incendio del Triangle Shirtwaist Factory
Azioni per piccoli gruppi
Scatta una foto di gruppo con un messaggio di solidarietà
Proprio come puoi scattare foto di te stesso da solo, aggiungi i tuoi familiari e i tuoi amici in una foto di gruppo con un cartello in solidarietà delle vittime del Rana Plaza.
Scrivi col gesso e posta le foto
Quest’azione già descritta sopra diventa più divertente se fatta in gruppo. Inoltre i tuoi messaggi posso essere più grandi e di maggiore impatto
Organizza una serata di cinema
Guardare un film in compagnia può essere una buona occasione per ricordare il disastro del Rana Plaza tutti insieme. Invita i presenti a condividere pensieri e considerazioni aggiungendo un’azione solidale da fare tutti insieme
Azioni per grandi gruppi o organizzazioni
Organizza una proiezione cinematografica con discussione
Trasforma la proiezione in un piccolo evento in un locale, una libreria, una sede di un’associazione. Potresti anche provare a contattarci per valutare se c’è la possibilità che qualcuno della Campagna Abiti Puliti si unisca all’evento per portare un contributo al dibattito. Crea un evento su facebook e condividilo con quante più persone puoi.
Organizza una manifestazione
Può trattarsi di un corteo, un presidio, un momento di volantinaggio davanti ad un negozio di uno dei marchi collegati al Rana Plaza. Ma anche qualcosa di più creativo, tipo:
- Un “die-in”: persone distese a terra che simbolicamente rappresentano le persone morte nel disastro
- Una catena umana che circondi simbolicamente un negozio di un marchio
- Una veglia con candele
- Una protesta con cartelloni, striscioni, slogan
Ricordati di valutare in base al comune dove risiedi i tempi per chiedere le normali autorizzazioni ad occupare il suolo pubblico. Quindi procedi a diffondere l’evento tra più persone possibile
Alcuni consigli finali
- Quando posti qualcosa sui social network utilizza l’hashtag #RanaPlaza. Altri hashtag che puoi aggiungere sono: #solidarity #justice #whoMadeMyClothes
- Ricorda per favore di condividere foto della tua azione sulla pagina facebook dell’evento “Global Day of Action” e tagga la Campagna Abiti Puliti
Alcuni film e programmi da proiettare
- Reportage di Liza Boschin e Elena Marzano: http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-32d3b3be-421e-4164-af7b-d75aac92e530.html (italiano)
- Tears in the Fabric: tearsinthefabric.com/ (in inglese)
- Clothes to Die For: dailymotion.com/video/x27j5wi_clothes-to-die-for-rana-plaza-disaster-bangladesh_news (in inglese)
- Fashion Victims: abc.net.au/4corners/stories/2013/06/25/3785918.htm (in inglese)
- The Deadly Cost of Fashion: youtube.com/watch?v=9Fkhzdc4ybw (in inglese)
- Victim of Bangladesh factory collapse shares story: cbsnews.com/videos/victim-of-bangladesh-factory-collapse-shares-story/(in inglese)
Domande
Scrivi a info@abitipuliti.org
Rana Plaza: Benetton annuncia il suo versamento, ma il processo non è trasparente
Manca una settimana al secondo anniversario del peggior disastro industriale di sempre nel settore tessile: il crollo del Rana Plaza in Bangladesh.
La Clean Clothes Campaign, i sindacati e altri partner lanciano per l’occasione una richiesta di attivazione globale per chiedere che i sopravvissuti e i familiari delle vittime ricevano i risarcimenti che gli spettano e che tutti i marchi di abbigliamento che si riforniscono in Bangladesh sottoscrivano l’Accordo sulla sicurezza e la prevenzione degli incendi in Bangladesh.
Nonostante l’urgenza, i marchi continuano a ritardare i versamenti nel Rana Plaza Donors Trust Fund. Mancano all’appello 8,5 milioni di dollari per garantire a tutte le vittime il pieno e giusto risarcimento: ad oggi hanno ricevuto solo il 70% di quanto gli spetta.
Questa mattina Benetton ha annunciato che verserà 1.1 milioni di dollari nel fondo, dopo un’intensa campagna che chiedeva all’azienda di pagare 5 milioni di dollari.
“Benetton ha avuto la possibilità di emergere come leader nella cura e nel rispetto dei diritti delle vittime, dimostrando che le sue parole non erano solo operazioni di marketing. Purtroppo, “i veri colori di Benetton” si sono rivelati per quel che sono” dichiara Ineke Zeldenrust della Clean Clothes Campaign.
Lo scorso febbraio Benetton aveva dichiarato pubblicamente che avrebbe pagato “entro poche settimane” e che aveva chiesto ad una terza parte credibile e indipendente di determinare la cifra da versare. Oggi sappiamo che si tratta della società di revisione PriceWaterhouseCoopers (PWC).
E che l’americana World Wide Responsible Apparel Program (WRAP), che Benetton descrive come una Ong impegnata sul fronte del rispetto degli standard sociali ha approvato la valutazione della PWC. WRAP in realtà è una società di certificazione e auditing sociale sponsorizzata in maniera unilaterale dall’industria con uno dei peggiori curriculum del comparto. La fabbrica Garib & Garib, ad esempio, bruciata nel 2010 causando 21 morti a Dhaka, era stata da poco certificata dalla WRAP.
“Benetton ha di nuovo sprecato tempo e denaro in un processo atto a cercare di legittimare il loro insufficiente versamento. È molto preoccupante che abbia affidato la sua valutazione ad una società che non ha precedenti in materia di diritti umani. È davvero allarmante e significativo che la valutazione della PWC sia stata approvata solo da una delle meno affidabili società di revisione in un settore che fa acqua da tutte le parti. Parliamoci chiaro, il comportamento di Benetton non è stato per niente trasparente. Il processo ha escluso tutti i sindacati e le organizzazioni che si occupano di diritti dei lavoratori da due anni direttamente impegnate nel lavoro per l’ottenimento dei risarcimenti per le vittime in Bangladesh” ha dichiarato Deborah Lucchetti della Campagna Abiti Puliti, sezione italiana della Clean Clothes Campaign.
Sono state programmate azioni in tutto il mondo. Si comincia proprio dall’Italia, a Genova, il 18 aprile, dalle ore 19. Presso Palazzo Ducale, nell’ambito della rassegna La storia in piazza, la Campagna Abiti Puliti in collaborazione con l’Associazione Culturale hòferlab porterà in scena
136OOhZ concerto per macchine per cucire, una performance artistica a cura di Sara Conforti. A seguire il dibattito Mai più Rana Plaza. Attivismo, arte e giornalismo per una nuova età dei diritti condotto da Valentina Sonzini, nel quale interverranno Deborah Lucchetti, portavoce della Campagna Abiti Puliti, Sara Conforti, curatrice e ideatrice della performance, Liza Boschin e Elena Marzano, giornaliste di Presa Diretta e autrici del reportage “Made In Italy” realizzato in Bangladesh.
La settimana prossima sono previste azioni negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, in Belgio, in Francia, in Germania, in Spagna. In Bangladesh sindacati e Ong (come Workers Safety Forum, BLAST e BILS) daranno voce alle vittime del disastro.
L’ILO ha istituito il Rana Plaza Donors Trust Fund nel gennaio 2014 per raccogliere i risarcimenti per le vittime. Il Rana Plaza Coordination Committee (RPCC), istituito nell’ottobre 2013, è stato incaricato di sviluppare e supervisionare il processo di risarcimento meglio conosciuto come Arrangement. Il RPCC è composto dal governo e dall’industria bengalese, marchi e rivenditori globali, sindacati e Ong bengalesi e internazionali. L’ILO ha un ruolo di attore neutrale. Durante il processo di definizione dell’Arrangement, i rappresentanti dei marchi si sono opposti all’inserimento di cifre specifiche per ciascun brand. Al contrario, hanno insistito perché il sistema fosse su base volontaria, senza linee guida sui pagamenti, credendo che tutti i marchi e gli stakeholders avrebbero effettuato generose donazioni per garantire al Fondo di raggiungere la somma necessaria. Finora questo metodo si è dimostrato fallimentare.
Fin dall’istituzione del Fondo nel gennaio 2014, gli attivisti sostengono che le donazioni devono essere proporzionate al fatturato dell’azienda, all’entità delle sue relazioni commerciali con il Bangladesh e con il Rana Plaza. Per questo la CCC ha sempre chiesto a Benetton di versare almeno 5 milioni di dollari nel Fondo.
Quasi tutti i marchi collegati al Rana Plaza hanno effettuato donazioni insufficienti, non assumendosi quindi le loro responsabilità nei confronti delle vittime. Alcuni brand come Mango, Inditex e Matalan si sono rifiutate di rendere pubbliche le cifre che hanno versato. Altre come Walmart e The Children’s Place, pur rendendo pubbliche le cifre, hanno versato piccole quantità di denaro.
L’intenzione di Benetton di versare 1,1 milioni di dollari nel Fondo da poco rivelata è una grande delusione.
“Benetton dovrebbe sapere quanto, a causa sue e degli altri marchi coinvolti, abbiamo sofferto per l’accaduto e adesso esce pubblicamente con 1,1 milioni di dollari. Questo è così irrispettoso per noi e per tutte le vittime Rana Plaza", dice Latif Sheikh, che ha perso la moglie nel crollo. Latif insieme alle altre famiglie delle vittime e ai superstiti mantengono la loro richiesta a Benetton di colmare quanto manca a raggiungere la cifra totale necessaria al fondo.
"Dobbiamo chiederci perché di tutte le aziende collegate direttamente al Rana Plaza solo due - Primark e Loblaw - hanno contribuito in modo significativo dimostrando di prendere sul serio le loro responsabilità e di rispettare la vita dei lavoratori. Se tutte le altre società coinvolte avessero seguito il loro esempio, non saremmo costretti a registrare questa mancanza di 8,5 milioni di dollari nel Fondo ad una settimana dal secondo anniversario del disastro” ha dichiarato ancora Ineke Zeldenrust del Clean Clothes Campaign.
Il 24 aprile del 2013, poco dopo le 8 del mattino, gli otto piani di cemento del Rana Plaza sono crollati uccidendo 1138 persone. Alcune sono morte sul colpo. Altre, sepolte vive, sono state costrette ad amputarsi parti del corpo per essere estratte dalle macerie. È stato stimato che ci fossero 3890 persone nell’edificio al momento del crollo.
Le vuote promesse di H&M sul salario dignitoso
La Clean Clothes Campaign chiede ad H&M di dimostrare le sue affermazioni in merito al “giusto salario dignitoso”, dopo la pubblicazione del suo ultimo Sustainability Report. Sfruttare la povertà dei lavoratori per campagne di marketing con scarse prove di cambiamento è immorale e rallenta i progressi di tutto il settore industriale.
H&M, il cui marchio campeggia sulle pagine del Guardian dedicate alla moda etica e che vanta una gamma di “collezioni consapevoli”, ha lanciato una road map per il salario dignitoso nel 2013. Il colosso svedese si è impegnato a pagare per i suoi 850.000 lavoratori un salario dignitoso dal 2018, ma nel suo ultimo Sustainability Report non ci sono cifre realistiche che dimostrino progressi verso questo obiettivo.
Carin Leffler della CCC dichiara: “Nonostante l’annuncio di progetti in partnership con l’ILO, di programmi educativi al fianco dei sindacati svedesi e una ampia retorica su salari equi, H&M ha finora presentato purtroppo pochi risultati concreti che mostrano i progressi verso il salario dignitoso. H&M sta lavorando duramente per guadagnarsi una reputazione nel campo della sostenibilità, ma i risultati per i lavoratori sono ancora tutti da vedere."
Athit Kong, vice presidente del sindacato tessile cambogiano C.CADWU espone il suo punto di vista sul progetto di “giusto salario dignitoso” di H&M: “il rapporto di H&M non riflette accuratamente la realtà della Cambogia o del Bangladesh e questi annunci risultano privi di senso per i lavoratori che lottano quotidianamente per sfamare le loro famiglie. Un modello “sostenibile” proposto e controllato completamente dall’azienda, ma non fondato su un autentico rispetto dei lavoratori e di sindacati che operano sul campo, non porterà mai risultati concreti per i lavoratori stessi e serve solo come operazione di facciata per coprire sistematici abusi”.
Le criticità evidenziate dalla CCC includono anche la mancanza di una cifra che identifichi l’impegno dell’azienda verso il salario dignitoso e la scelta di avviare progetti pilota in fabbriche in cui controllano il 100% della produzione. Deborah Lucchetti della Campagna Abiti Puliti (sezione italiana della CCC) a tal proposito ricorda che: “nel 99% dei casi la natura stessa della filiera dell’abbigliamento globale non presenta fabbriche in cui i committenti hanno un tale livello di controllo diretto, quindi difficilmente H&M sarà in grado con tali progetti pilota di aumentare le proprie “conoscenze” e la sfera di influenza. Qualsiasi progetto pilota per essere credibile deve avere parametri ben definiti e scadenze precise per favorire progressi in tutte le fabbriche e non solo in alcune. In Italia, dove H&M è molto presente, crescono i consumatori consapevoli interessati ai comportamenti reali delle imprese. È bene che l’azienda si confronti con cittadini sempre più maturi ed esigenti, cui non bastano le dichiarazioni formali”
La CCC chiede a H&M di dimostrare che dietro i suoi discorsi c’è una concreta volontà di agire. Per questo chiede all’azienda, come primo e immediato passo, di negoziare un salario migliore per la Cambogia direttamente con il comitato sindacale nazionale e di firmare con loro e altri marchi un accordo esecutivo impegnandosi ad aumentare la paga verso la soglia del salario dignitoso per tutti i lavoratori, concordando scadenze e misure precise.
Carin Leffler aggiunge: “H&M deve mettere tutto nero su bianco: un parametro chiaro di salario dignitoso per capire e mostrare la soglia verso la quale si sta lavorando, una strategia più dettagliata con scadenze precise su come intende approfondire le sue conoscenze lungo tutta la sua filiera di produzione, rapporti dettagliati e trasparenti sui progressi raggiunti che vanno negoziati diretti in Cambogia con il comitato sindacale nazionale.”
H&M è brava a parole. La sfidiamo a continuare con le cifre.
136OOhZ concerto per macchine per cucire
V Edizione - COMPULSIVELY (ON).
In memoria delle 1.138 vittime del Rana Plaza.
18 Aprile 2015
Palazzo Ducale - Genova
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Un progetto di Sara Conforti - hòferlab
In collaborazione con Campagna Abiti Puliti e FAIR
13600hZ porta in scena le ritualità quotidiane della vestizione, il valore simbolico e semantico del nostro abitare l’abito. è un progetto di natura concettuale e simbolista. Un tableau vivant dal cuore sociale e la volontà educativa, che prende forma come una pièce teatrale, e alla fine diventa evento sensoriale.
Il 24 aprile 2013 morivano a Dacca in Bangladesh 1138 lavoratori mentre più di 2500 rimanevano feriti sotto il crollo del Rana Plaza, la fabbrica della morte che ospitava 5 fabbriche tessili al servizio dei grandi marchi multinazionali. Tra questi gli italiani Benetton, Robe di Kappa, Manifattura Corona e Yes Zee.
Il Rana Plaza rappresenza il capolinea di un sistema di produzione globale che non è più in grado di tutelare i diritti fondamentali delle persone, ridotte a pura merce scambiata per pochi spiccioli nel mercato internazionale del lavoro. Il vero volto di un capitalismo furioso e senza regole.
La Campagna Abiti Puliti, coordinata in Italia da Fair, è presente in 17 paesi europei e collabora con più di 250 sindacati e organizzazioni di base nel mondo. Lavora da 30 anni per difendere e promuovere i diritti dei lavoratori tessili nell’industria dell’abbigliamento globale. Collabora con Hòferlab perché crede nell’innovazione dei linguaggi della politica e nella necessità di parlare a tante e tanti attraverso l’arte e la bellezza.
A seguire
Mai più Rana Plaza. Attivismo, arte e giornalismo per una nuova età dei diritti
Intervengono
Deborah Lucchetti | Fair/Campagna Abiti Puliti
Sara Conforti | Hoferlab e ideatrice 136OOhZ
Liza Boschin e Elena Marzano | giornaliste Presa Diretta
conduce Valentina Sonzini
In conclusione aperitivo a km0
a cura della Cooperativa Valli Unite
Un vero boss paga salari dignitosi
Firma la petizione per dire a Hugo Boss che un vero boss paga salari dignitosi. Circa metà degli abiti di Hugo Bosso sono prodotti in Europa. Il report Stitched Up della Clean Clothes Campaign ha mostrato la differenza tra gli attuali salari e il salario dignitoso. Molti lavoratori hanno paghe al di sotto della soglia di povertà. Molti di loro denunciano attività antisindacali, intimidazioni, inosservanza delle regole sugli straordinari e discriminazioni di genere.
"Rispetto l'azienda, rispetto il mio lavoro, perché loro non rispettano me? Hugo Boss non si comporta in maniera responsabile" dichiara un lavoratore turco.
Mentre alcuni lavoratori (2013) di un'azienda turca fornitrice di Hugo Boss guadagnano 326 euro in media comprensivi di straordinari e bonus, la soglia di povertà nazionale si attesta sui 401 euro e il salario minimo sugli 890 euro. Lavoratori che hanno aderito a un sindacato hanno subito pratiche di mobbing o sono stati licenziati. Alcuni hanno denunciato ricorrenti intimidazioni.
Bettina Musiolek della Clean Clothes Campaign dichiara: "Made in Europe dovrebbe significare per i lavoratori fuggire la povertà e non aver paura di iscriversi a un sindacato. Ma invece vuol dire creare povertà e impedire alle persone di esercitare le proprie libertà politiche. Hugo Boss deve intervenire per mettere fine a queste violazioni. A real boss pay a living wage"
Diritti in movimento - Assemblea Nazionale Abiti Puliti
SAVE THE DATE - 28 marzo 2015
Per partecipare è richiesta l'iscrizione a questo link
DIRITTI IN MOVIMENTO
Salario vivibile, sicurezza e libertà di associazione sindacale
per i lavoratori del tessile
FIRENZE - Via dell'Agnolo, 5
Giardino dei Ciliegi
ORE 14.30 - 17.30
INSIEME POSSIAMO
nuovi legami per una campagna più forte
Assemblea nazionale Campagna Abiti Puliti
Dopo la partecipatissima consultazione online che ci ha visto tutti protagonisti lanciamo ufficialmente l'appuntamento per l'Assemblea Nazionale degli attivisti della Campagna Abiti Puliti. Grazie ai vostri numerosi commenti e suggerimenti, abbiamo organizzato questo primo appuntamento come occasione per presentare la Campagna e iniziare ad organizzarci per il futuro.
Intervengono:
Francuccio Gesualdi - Centro Nuovo Modello di Sviluppo / Abiti Puliti
Deborah Lucchetti – Fair / Abiti Puliti
Ersilia Monti – Cenetro Nuovo Modello di Sviluppo / Abiti Puliti
Montse Framis - Mani Tese / Abiti Puliti
Monica Tiengo – Ya Basta
Sara Conforti - Ass Culturale hòferlab
ORE 17.30 - 19
TAVOLA ROTONDA
Dal Rana Plaza al “Made in Italy”:
le campagne di Abiti Puliti per i diritti dei lavoratori
Intervengono:
Ersilia Monti - CNMS / Abiti Puliti
Deborah Lucchetti - FAIR / Abiti Puliti
Bernardo Marasco - Filctem CGIL
Modera Lorenzo Guadagnucci - giornalista
ORE 19 - Aperitivo equo solidale
Street Action Milano per le vittime del Rana Plaza
Si è svolta sabato 28 febbraio nel cuore di Milano durante la Fashion Week la grande performance a cura della Antica Sartoria Errante in collaborazione con la Campagna Abiti Puliti per chiedere a Benetton di risarcire immediatamente le vittime del Rana Plaza versando nel Donors Trust Fund almeno 5 milioni di dollari.
Un momento di condivisione e sensibilizzazione che ha coinvolto passanti, curiosi, cittadini nel tragico ricordo di quella tragedia avvenuta quasi due anni fa.
Dopo le dichiarazioni dei giorni scorsi dell'azienda, che si è impegnata ad effettuare un versamento nel fondo, chiediamo che si adoperi in fretta per mantenere la sua promessa. Purtroppo le vaghe dichiarazioni circa le valutazioni di una "terza parte indipendente" sull'importo che alla fine decideranno di versare nel fondo, lasciano ancora una volta un'ombra sulle reali intenzioni della famiglia Benetton.
5 milioni di dollari è una cifra proporzionata calcolata in base a dei criteri oggettivi: relazioni commerciali del marchio con il Rana Plaza, relazioni commerciali con il Bangladesh, proporzione con il fatturato dell'azienda.
Non c'è più tempo: le vittime stanno aspettando. E' ora che ricomincino a vivere.
Foto di Riccardo La Valle
Benetton paghi 5 milioni di dollari
Benetton è stato l’obiettivo di un’intensa campagna iniziata nel momento dell’istituzione del Rana Plaza Donors Trust Fund all’inizio del 2014. Pochi giorni fa l’azienda ha finalmente annunciato di volersi impegnare ad effettuare un versamento in quel Fondo, ma, stando ad una loro breve dichiarazione, ancora non sarebbero in grado di rendere nota la cifra, il cui ammontare verrà stabilito da una terza parte “indipendente” e reso pubblico non prima del secondo anniversario di quella tragedia.
La Clean Clothes Campaign (CCC) accoglie con prudenza il cambiamento di idea di Benetton e al contempo si mostra preoccupata per questo ritardo nel pagamento che potrebbe pregiudicare la possibilità per le vittime di essere risarcite prima di quell’anniversario. Per questo chiede a Benetton di agire subito per rispettare l’impegno preso con le vittime del Rana Plaza.
Fin dall’istituzione del Fondo nel gennaio 2014, la CCC ha sostenuto che tutti i marchi presenti in Bangladesh avrebbero dovuto contribuire in base alle proprie capacità economiche e all’entità delle proprie relazioni commerciali con il Bangladesh e il Rana Plaza. In base a ciò, abbiamo sempre chiesto a Benetton di versare nel fondo almeno 5 milioni di dollari.
“Non c’è alcun motivo per ritardare il processo ulteriormente” ha dichiarato Ilona Kelly della Clean Clothes Campaign. “Il Fondo è stato aperto per un anno e Benetton è ben consapevole che ci si aspetta un versamento di almeno 5 milioni di dollari. L’azienda ha avuto tutto il tempo necessario per valutare la sua donazione. È ora che paghi quanto dovuto.”
Gli attivisti ricordano che Benetton è abituata a rinnegare i suoi impegni. L’ha fatto ad esempio quando ha deciso di partecipare al processo di costruzione dell’Arrangement, l’accordo che regola il Fondo negoziato di risarcimento delle vittime del Rana Plaza, salvo tirarsi indietro al momento della firma.
“Non c’è nulla di indipendente in una terza parte incaricata e pagata da Benetton stessa. I fatti sono chiari: mancano 9 milioni di dollari al totale previsto del Fondo. Cinque di questi devono essere versati da Benetton.” continua Ilona Kelly.
Colmare i 9 milioni mancanti naturalmente è una responsabilità anche di quegli altri marchi che hanno fatto solo piccoli versamenti nel fondo, come Walmart, Children’s Place, Mango, Robe di Kappa e Inditex. Anche il Bangladesh Prime Minister's Fund, che pure ha raccolto numerose donazioni in seguito al disastro, e la BGMEA, l’associazione degli imprenditori tessili bangladesi, devono fare un ulteriore sforzo per colmare la differenza che manca.
“Siamo davanti all’opportunità concreta di costruire una occasione storica, se tutte le persone vittime di questa tragedia ricevessero il pieno risarcimento che gli spetta entro il secondo anniversario del crollo. Questo può essere realizzato se innanzitutto Benetton contribuirà con almeno 5 milioni di dollari. Tuttavia fino a che tutti e 30 milioni non saranno nel Fondo, tutti gli attori coinvolti dovranno considerarsi responsabili per il raggiungimento di questo obiettivo e incrementare i loro versamenti” ha dichiarato Deborah Lucchetti della Campagna Abiti Puliti.
Speciale Terra Nuova su Abiti Puliti
Non perdere il numero di febbraio del mensile Terra Nuova che dedica l’approfondimento alla campagna Abiti Puliti, la mobilitazione in atto per indurre le aziende e i gruppi del tessile-abbigliamento a produrre rispettando i diritti dei lavoratori e l’ambiente.
Spesso i consumatori non sono informati, non sanno cosa si nasconde dietro al capo che acquistano. Abiti Puliti ha proprio lo scopo di informare e fare pressione sui produttori.
Le persone, quando sanno e conoscono, possono diventare consumatori consapevoli e le loro scelte hanno grandi ripercussioni.
E a spiegare obiettivi e attività è Deborah Lucchetti, presidente della cooperativa sociale Fair e coordinatrice del distaccamento italiano della campagna.
Terra Nuova non è distribuita in edicola per evitare spreco di carta e materie prime; la trovi nei negozi di alimenti naturali e nelle erboristerie. Consulta la mappa dei 1300 punti vendita per individuare quello più vicino a te: http://www.aamterranuova.it/MappaNegozibio/
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(2015) REPORT - Quanto è vivibile l'abbigliamento in Italia?
Nuovo report sull’industria tessile e calzaturiera italiana
La Campagna Abiti Puliti lancia un nuovo report sulla situazione del settore tessile e calzaturiero italiano redatto attraverso una ricerca realizzata in tre regioni italiane: Veneto, Toscana, Campania Il processo è noto: per abbattere i costi e incrementare i profitti le imprese delocalizzano le loro produzioni in Paesi dove possono reperire salari da fame, infime condizioni di lavoro e assenza di organizzazioni sindacali. Il settore dell’abbigliamento è tra i più attivi in questo campo: l’utilizzo di manodopera a bassi salari e diritti in Cina o in Bangladesh, come in Romania o Moldavia ne sono un esempio lampante. Le imprese multinazionali, spesso incentivate dai governi locali, comprano stabilimenti o ne costruiscono di nuovi, ricattano i lavoratori facendo leva sui loro bisogni di base; così possono produrre le loro merci a prezzi ridicoli incassando lauti profitti. La costruzione della filiera si basa sull’idea che è sempre possibile trovare manodopera a bassi salari da sfruttare a proprio vantaggio. Mentre una massa crescente di altri lavoratori sempre più impoveriti, è obbligata a tapparsi il naso e a comprare vestiti e calzature a basso costo in una spirale senza fine di corsa verso il basso. Ma se improvvisamente ci accorgessimo che quei disperati siamo noi? Nessuno saprà mai se si è trattato di un processo spontaneo o di una strategia preordinata, di quelle che si discutono a Davos o negli incontri segreti del club Bilderberg, ma è un fatto che dopo avere messo in ginocchio i piccoli produttori italiani, esportando la loro produzione in Romania, Moldavia, o perfino Cina, ora qualche grande marca stia tornando in Italia a godersi i risultati che essi stessi hanno prodotto negli anni scorsi. Succede ad esempio nella Riviera del Brenta, area a cavallo tra le province di Padova e Venezia, dove si producono calzature femminili. Dopo un ventennio di delocalizzazioni di piccoli e medi imprenditori contoterzisti, che se volevano lavorare se ne andavano in Romania o chiudevano, oggi giganti come Luis Vuitton, Armani, Prada, Dior, sono tornati per comprarsi degli stabilimenti o aprirne di nuovi. E mentre Prada ha acquistato la Giorgio Moretto, Louis Vuitton ha fatto due acquisizioni e aperto un nuovo stabilimento a Fiesso d'Artico. Ci lavorano 360 persone fra cui molti modellisti, chiamati pomposamente artigiani che svolgono attività di studio e progettazione per l’intera gamma di calzature Louis Vuitton. Dallo stabilimento escono ogni anno ottocentomila paia di calzature di tutti i tipi. Stivali, mocassini, calzature da sera, sportive e ballerine. Ma sia ben chiaro, non tutte le fasi di lavorazione sono eseguite al suo interno. Oltre alla progettazione, si fa l’assemblaggio e la finitura con l'aiuto di robot e l'utilizzo di tomaie prestampate e importate dall'India. Infatti benché si tratti di imprese del lusso, anche queste si stanno orientando verso una produzione standardizzata per un consumatore che non può spendere 3000 euro per un capo personalizzato, ma 500 euro per levarsi la soddisfazione di sfoggiare un capo firmato, quelli li trova. Standardizzazione, flessibilità oraria, bassa scolarizzazione dei lavoratori, paura di perdere il posto di lavoro, scarsa sindacalizzazione: sono tutti elementi tipici delle fabbriche bengalesi o moldave. Non deve quindi stupire se la filiera produttiva dei grandi marchi che rilocalizzano in Italia risulta composta da un’ampia rete di subfornitori medi e grandi, che a loro volta subappaltano fasi di lavoro a piccole imprese artigianali. Fra esse anche imprese cinesi che ormai sono presenti un po’ in tutti i territori a tradizione calzaturiera e dell’abbigliamento. Le condizioni di lavoro cambiano a seconda del posto occupato dall’impresa nella filiera globale di produzione. Ma queste catene del lavoro sono difficili da riscostruire, anche perché i marchi non sono per niente disponibili a pubblicizzare i nomi dei loro fornitori e in molti casi non hanno neppure il controllo completo sull’intera filiera. Secondo la ricerca realizzata dalla Campagna abiti puliti, i salari migliori si trovano fra i lavoratori alle dirette dipendenze dei grandi marchi, non solo perché sono i luoghi che più frequentemente i giornalisti visitano, ma anche perché qui i lavoratori sono più organizzati e solitamente riescono a ottenere l’applicazione dei contratti collettivi e premi di produzione a livello aziendale. Ovviamente non mancano le eccezioni. Dalle testimonianze raccolte Prada pare sia la griffe con rapporti sindacali più difficili e condizioni di lavoro più critiche. D’altra parte, Prada è l’unica delle grandi case del lusso nella Riviera del Brenta che pur producendo calzature applica il contratto collettivo del cuoio. E non a caso, ma perché il contratto del cuoio è peggiorativo rispetto a quello calzaturiero per quanto riguarda sia le paghe sia gli aspetti normativi. La filiera è un insieme di gironi danteschi e più si scende, più magri sono i salari e peggiori le condizioni di lavoro, fino a potersi imbattere nel lavoro nero che ovviamente sfugge alle grandi griffe perché loro il rapporto lo tengono solo col primo anello della subfornitura. Ma spesso i prezzi che pagano sono così bassi da non lasciare molta scelta a chi sta alla base. In ogni caso, neri o legali che siano, la ricerca ha appurato che i salari dei lavoratori nei livelli contrattuali più bassi, cioè la stragrande maggioranza, non vanno oltre i 1100-1200 euro netti al mese, che secondo un calcolo dell’Istat, nel Nord Italia non bastano per tirare avanti una famiglia di quattro persone neanche se si abita in campagna. Certo, poi modellisti, montatori e dirigenti vari alzano il livello salariale medio, ma per quanti corrono lungo le manovie, le catene di montaggio delle calzature, le paghe non sono certo a un livello dignitoso. Le condizioni di lavoro nell’industria italiana dell’abbigliamento e delle calzature sono mutate negli ultimi venti anni: molte le imprese che hanno chiuso, alta la riduzione del fatturato. Il ritorno delle grandi multinazionali è sicuramente positivo in termini occupazionali, ma può diventare catastrofico se si importano in Italia le condizioni di lavoro e i livelli salariali che le imprese trovano altrove. La ricerca ci restituisce la fotografia di una situazione che potremmo definire di post-occidentalizzazione riferendoci alle condizioni di lavoro prima riscontrabili nell’Europa dell’Est e nel lontano Oriente e ora anche nel Vecchio Continente: la dimostrazione che dopo la lunga discesa verso il fondo ora è tempo di risalire, prima che sia troppo tardi.
Scarica il report
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- Lusso low cost, di Devi Sacchetto, Docente di Sociologia presso l'Università di Padova
- Il Made in Italy tra sfruttamento e ricatti. Così nella filiera si abusa dei lavoratori, Espresso
- La moda, un “girone dantesco”. E ora i grandi marchi rilocalizzano in Italia, Redattore Sociale
- Sempre più poveri, anche nella moda, Deborah Lucchetti Huffington Post
- Diritti del lavoro, indagine sull'industria tessile e calzaturiera tra presunti artigiani e subappalti, Repubblica
- Moda, la Cina è qui da noi: le griffe sfruttano il lavoro come a Prato, Il Fatto quotidiano
- I grandi marchi tornano in Italia ma peggiorano i diritti dei lavoratori, Vita
Lusso low Cost
di Devi Sacchetto, Docente di Sociologia presso l'Università di Padova
Cinque giorni dopo che lo stilista di punta ha finito di disegnare in qualche atelier parigino i nuovi modelli di Louis Vuitton, a Fiesso d’Artico (Venezia) si comincia a produrre i prototipi che continueranno a fare la spola con la capitale francese su un aereo privato finché il campione non sarà pronto per entrare in produzione. La narrazione delle merci volanti, essenziale nella costruzione dell’immaginario del lusso esclusivo, oscura il lavoro che corre lungo tutta la filiera. La ricerca svolta per conto dell’associazione «Abiti puliti» e condotta con Davide Bubbico e Veronica Redini in tre aree di Veneto, Toscana e Campania ha cercato di rischiarare le trasformazioni nelle condizioni di lavoro nel cosiddetto sistema moda che, per quanto dimagrito, conta ancora complessivamente circa 500 mila addetti con una concentrazione in un pugno di regioni: Veneto, Toscana e Marche per le calzature e la pelletteria, Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna per l’abbigliamento. In Campania, che pure non è tra le regioni centrali per i due settori, permangono realtà produttive importanti, soprattutto nell’abbigliamento, con una forte incidenza di lavoro irregolare.
Negli ultimi dieci anni le filiere dell’abbigliamento e delle calzature hanno subito un profondo processo di riorganizzazione produttiva che è stato accelerato dalla crisi economica. Un ruolo chiave è stato assunto dai grandi gruppi internazionali detentori di brand grazie alle possibilità finanziarie di investimento sulla produzione e di gestione dei canali distributivi. Molti dei marchi del lusso globali da Louis Vuitton ad Armani, da Prada a Gucci hanno concentrato una parte importante della loro produzione manifatturiera in Italia perché dispone, da un lato, di manodopera con buone capacità sia manifatturiere sia di gestione dei flussi produttivi esternalizzati in Italia e all’estero e, dall’altro, lato di costi di manodopera assai contenuti. Ovviamente, le loro catene di fornitura non si fermano certo negli italici confini, continuando a produrre parti o interi cicli di produzione all’estero. Vero è che negli ultimi anni si registrano anche alcuni rientri delle produzioni delocalizzate all’estero – nuovamente internalizzate o esternalizzate in loco. Il cosiddetto back-reshoringè una conseguenza di diversi fenomeni, dai cambiamenti nei differenziali dei livelli salariali (bloccati in Italia e in crescita in altri paesi, ad esempio in Cina) ai consistenti margini di profitto delle imprese del lusso. D’altra parte, le necessità di una maggiore flessibilità e rapidità e di una «qualità» garantita dal marchio «Made in Italy», possono oggi trovare soluzione grazie al permanere di reti produttive di piccole imprese che operano in situazioni legislative «grigie». Come spiega un esperto di marketing: «molte produzioni che alcuni facevano fuori, tendenzialmente le riportano dentro. Intanto perché la Cina si è alzata a livelli di prezzi quindi quei differenziali non ce li hai più… Poi il made in China, se ti beccano, due palle!... non ha molto senso per un prodotto su cui hai margini incredibili, rischiare che il marchio si sputtani».
Alla luce del classico meccanismo di oscuramento del lavoro materiale e del cospicuo investimento sulle componenti immateriali della produzione si comprende perché sia largamente diffusa l’ideologia stigmatizzante che rende l’aggettivo «cinese» sinonimo di lavoro di scarsa qualità e irregolarità. Una dinamica che, tanto nella produzione quanto nel consumo, va a tutto vantaggio dei committenti, i quali, tuttavia, non hanno remore nell’usare l’imprenditoria cinese in Italia come metro di comparazione per stabilire i costi, come ci racconta un funzionario sindacale: «gli imprenditori cinesi si lamentavano di questo razzismo intrinseco delle imprese italiane perché quando parlavano con gli imprenditori italiani questi gli dicevano “questa è la tariffa che pago. Poi quando gli italiani capivano che sono cinese mi dicevano, no, aspetta, è la metà”». Il ruolo delle imprese gestite da imprenditori cinesi che occupano esclusivamente connazionali è rilevante nelle tre regioni: essi lavorano prevalentemente nel sub-appalto per il pronto moda, ma anche per le griffe, direttamente o indirettamente. Ma in alcune aree, come quella pratese e in parte campana, si ritrovano imprese cinesi che sono uscite dal loro tradizionale ruolo di terziste per espandersi nel settore del pronto-moda assumendo il controllo di tutte le fasi della produzione e della distribuzione configurandosi come un vero e proprio distretto parallelo. È stata soprattutto questa nuova strategia di autonomizzazione a mettere in allarme parte del mondo imprenditoriale italiano che ha iniziato a strillare contro la concorrenza delle imprese cinesi.
L’aurea di esclusività che circonda il business del lusso è costruita attraverso una strategia che mira a produrre merci incomparabili, fabbricate da artigiani talentuosi che hanno appreso il loro lavoro nel corso di lunghi anni di apprendistato. Dal Veneto alla Campania le griffe diffondono una retorica secondo la quale i lavoratori producono opere d’arte grazie alle loro capacità manuali, come racconta un manager di una delle imprese italiane più importanti che opera nella Riviera del Brenta: «possiamo produrre determinati tipi di calzature solo grazie ad artigiani assunti come operai che, grazie a un processo di formazione estremamente lungo, conoscono le pelli e le attrezzature e sanno come certe operazioni di costruzione della calzatura vanno effettuate». In realtà la manodopera non dispone sempre di particolari capacità professionali, mentre una parte consistente della produzione o alcune lavorazioni vengono esternalizzate.
La presenza dei grandi brand ha senza dubbio garantito ad alcune aree produttive di «reggere» durante il periodo di crisi economica, ma ha accentuato il carattere gerarchico e piramidale delle reti di fornitura in Italia e all’estero. Questa rete di relazioni sbilanciate, dalla tendenza dei committenti al continuo incremento dei profitti, si ripercuote con intensità sulle condizioni dei lavoratori italiani e stranieri.
In Veneto e in Toscana, dove le griffe hanno aperto propri stabilimenti, il processo di concentrazione del personale è più evidente. In Campania, invece, le aziende di maggiori dimensioni sono legate all’alta sartoria, mentre permangono medie imprese del pronto moda e un sistema ancora esteso, anche se ridimensionato, di piccole imprese contoterziste, spesso collocate su livelli diversi di irregolarità nell’impiego della manodopera. Le piccole imprese, in particolare in Campania, sono sovente instabili e vengono gestite da imprenditori che spesso si sono fatti da sé e che in modo efficace un operaio definisce «o’ megl’ ten’ ’a zella» (quello che sta meglio, ha la rabbia). Esse possono lavorare per conto di grandi marchi, ma anche, talvolta contemporaneamente, nel settore della contraffazione. Qui il lavoro nero coesiste con il lavoro grigio e con quello regolare all’interno della stessa azienda.
Tra gli imprenditori a fare le spese della diffusione del ciclo di lusso sono state prevalentemente le piccole imprese artigiane, in grado di realizzare un prodotto di qualità, ma incapaci di imporsi autonomamente sui mercati esteri. Come ci racconta un piccolo imprenditore: «chi resiste è perché esporta in paesi in cui lo status symbol del brand funziona… le aziende di mezzo che fanno un prodotto a marchio loro che non è il brand sono quelle che non ce la fanno perché oggi quello spazio di mezzo non esiste più».
Se in generale le condizioni di lavoro migliori si riscontrano in Toscana e le peggiori in Campania, tuttavia esse sono molto diversificate, poiché sono connesse al tipo di produzione e alla casella occupata nella catena del valore (imprese committenti o subfornitori), alla dimensione dell’azienda e alla presenza o meno del sindacato. D’altra parte in alcune aree delle tre regioni è ancora presente il lavoro a domicilio più o meno regolare.
I tempi delle mansioni si sono compressi e il ritmo è determinato dagli obiettivi di produzione giornaliera, sebbene non si tratti di un vero e proprio cottimo. La presenza delle griffe ha accelerato l’«industrializzazione» dei processi produttivi con un’accentuazione della divisione del lavoro e una decisa standardizzazione delle operazioni, ispirandosi al sistema toyotista secondo l’ideologia del «miglioramento continuo». Ma è evidente che si tratta di una discontinuità nella strategia del lusso a favore di elementi più attenti alla moda e alla velocità di innovazione nello stile che alla qualità. Nelle aziende di minori dimensioni la divisione del lavoro invece si affievolisce anche perché molti lavoratori provengono da un lungo apprendistato professionale che ha permesso loro di acquisire competenze diverse.
La composizione della forza lavoro si è modificata e alle tradizionali maestranze italiane, costituite da uomini e soprattutto donne, si è affiancata nel corso degli ultimi vent’anni la presenza di lavoratori migranti, circa il 15% degli occupati complessivi. La spina dorsale su cui si reggono i due settori è costituita da manodopera proveniente dalle classi meno abbienti e con scarsi livelli di istruzione, con una lunga esperienza nel settore. Coloro che dispongono di un contratto regolare sono assunti molto spesso a tempo indeterminato, per quanto anche in questi settori siano ormai presenti molti contratti precari. In Campania, dove maggiore è la precarietà, l’inserimento al lavoro avviene in giovane età, talvolta senza aver neppure completato gli obblighi scolastici, e in nero.
La divisione del lavoro all’interno delle imprese è quasi sempre piuttosto netta tra donne e migranti – in posizione subalterna che svolgono le mansioni più ripetitive e banalizzate – e gli uomini – collocati nelle postazioni professionali più prestigiose. Tuttavia, le nuove professionalità necessarie alle griffe permettono talvolta una rottura del tradizionale modello sessuato di divisione del lavoro. La maggior parte delle aziende, indipendentemente dalla dimensione, svolgono la loro attività nel cosiddetto turno giornaliero (8-17), con una pausa di un’ora intorno a mezzogiorno, mentre le altre pause di lavoro non sempre sono definite. Le ampie possibilità di flessibilità oraria, garantite dal contratto collettivo, sono fondamentali per le imprese che possono così coniugare le loro necessità produttive con un basso esborso monetario. Le ore di flessibilità o il ricorso allo straordinario sono svolte solitamente a fine turno per una o due ore o il sabato mattina. Il rischio di infortuni e condizioni di nocività sono oggi ancora presenti, in particolare nelle imprese del contoterzismo e nel lavoro a domicilio campano. Si tratta di produzioni che espongono le maestranze a svariati agenti chimici che possono inquinare l’aria sotto forma di gas e vapori o di particelle aerodisperse connesse all’uso di adesivi attivatori e diluenti o all’uso di prodotti di finitura.
L’ingresso delle griffe ha prodotto una divaricazione delle retribuzioni: da un lato nel distretto di Scandicci (FI) i salari si attestano sui 1.500 euro netti al mese per un primo impiego e intorno ai 3.000 per una mansione qualificata, dall’altro lato nei laboratori campani dove viene applicato il cottimo si può anche non superare gli 800 euro mensili. Le griffe infatti garantiscono anche premi o voci accessorie del salario che lo rendono più elevato rispetto ai salari medi delle altre imprese.
Per operaie e operai i salari rimangano comunque solitamente assai modesti, dai 1100 ai 1300 euro mensili. Le differenze maggiori riguardano mansioni come quella del montaggio o dei modellisti nelle calzature, che permettono di arrivare a a circa 2.000 euro, o di figure quali i gestori di catene produttive e del controllo qualità esterno che possono spuntare anche fino a 2.500-3.000 euro mensili. I salari maschili sono più elevati per il tipo di mansione a loro riservato percependo sovente superminimi, mentre i lavoratori stranieri occupati nelle piccole imprese stanno all’estremo opposto sebbene una parte consistente di essi abbia ormai sviluppato buone capacità professionali e anche una discreta anzianità.
In Campania i salari rimangono particolarmente compressi sia perché in molti casi essi sono frutto di condizioni di lavoro irregolare e a cottimo sia perché la forza lavoro viene inquadrata nei più bassi livelli contrattuali, indipendentemente dalla professionalità. Il salario è comunque sovente inferiore a quello contrattuale, come spiega un operaio casertano: «il salario effettivamente percepito non è mai quello dichiarato in busta paga, perché o è inferiore perché ne devi restituire una parte al padrone, o è superiore, ad esempio se sei assunto part-time ma lavori otto ore oppure quando gli straordinari o l’una tantum sono retribuiti fuori busta». Per i lavoratori irregolari in Campania le retribuzioni sono molto variabili per quanto fissate generalmente su base giornaliera: dai 35 ai 40 euro. Ma, come emerso dalle cronache, nell’hinterland a nord di Napoli, lavoratori migranti bangladeshi e pakistani a cui era stato ritirato il passaporto lavoravano anche fino a 14 ore al giorno per sei giorni la settimana per salari di circa 3 euro all’ora.
Lo sfrangiamento dei livelli salariali è comune a tutta la penisola e non è solo connesso alle imprese gestite da imprenditori cinesi o al lavoro nero, perché quanto sembra emergere è la compresenza di lavoro regolare e irregolare. Come afferma un’operaia toscana: «si stanno cinesizzando, i rapporti, perché in questa fase di crisi, la gente in qualche modo si arrangia, se è disoccupata lavora al nero. Ci sono stati dei lavoratori a cui proponevano di lavorare a 2-3 euro l’ora, italiane eh!... Poi magari sono in cassa integrazione a zero ore e vanno a nero da un’altra parte… con la cassa integrazione prendono 4 euro e gliene danno altri 4 a nero».
Le situazioni di irregolarità sono presenti soprattutto nelle imprese contoterziste sottoposte alle pressioni dei committenti e alla competizione delle altre piccole imprese. Come ci racconta un operaio napoletano: «con l’inizio della crisi nel 2008 l’azienda ha ridotto il ricorso al lavoro a domicilio e ha esternalizzato il lavoro di orlatura ai cinesi. Se le donne a domicilio erano pagate 1,50 euro al paio, i cinesi hanno abbassato il costo a 1,20 euro e tra l’altro essendo di più, senza limiti di orario e con macchinari più nuovi questi hanno dimostrato una capacità di lavoro di gran lunga maggiore».
L’abbigliamento e le calzature sono settori storicamente meno sindacalizzati rispetto ad altri comparti manifatturieri e dove è più visibile lo sfilacciamento nei rapporti tra lavoratori e sindacato. Se si fa eccezione per le grandi aziende, in cui i delegati rimangono abbastanza presenti, il contatto con le organizzazioni sindacali arriva spesso solo nei momenti di emergenza, per mancati pagamenti, infortuni, accesso ai diversi ammortizzatori sociali. Le responsabilità del sindacato nella solitudine operaia è riconosciuta perfino da alcuni sindacalisti: «è da anni che siamo tutti coinvolti in questa mal gestione, in questa anomalia comportamentale. Forse ci vedono troppo vicini all’azienda, avere cioè un rapporto, una promiscuità fra azienda-sindacato-lavoratori che giustamente io, il lavoratore, è smarrito, lo comprendo se dice che va da un legale perché dice “ma io ho visto il sindacalista e l’imprenditore che erano a prendere il caffè insieme”… Dobbiamo trovare la giusta collocazione: le relazioni industriali non possono essere per ovvi motivi come quarant’anni fa, però non possono essere un ibrido come sono adesso».
Ma il rapporto tra sindacati e lavoratori è attraversato anche dalla nuova composizione della forza lavoro. Solo una settimana fa, il segretario della Filctem-Cgil di Venezia, Riccardo Colletti, dichiarava a un quotidiano locale che gli imprenditori calzaturieri locali dopo i lauti profitti del 2014 dovrebbero assumere prima di tutto gli italiani perché gli stranieri sono dei disperati facilmente ricattabili. Affermazioni che certo non agevolano l’organizzazione di questa nuova forza lavoro internazionale per ottenere salari dignitosi e luoghi di lavoro decenti. Mai come in questi oscuri laboratori si mostra la crisi di un sindacato che pretende di scoprire il solo lavoratore che pensa di poter rappresentare dentro a un rapporto di potere che è nuovo proprio perché è la somma di forme di dominio già viste. Mai come in questo momento questa incapacità ormai consolidata rischia di rendere quel rapporto di potere un dominio ordinario.
Street Action a Torino per i risarcimenti Benetton al Rana Plaza
Giovedì 11 dicembre, nell'ambito della Campagna #PayUp, Sara Conforti insieme ad altri attivisti e sostenitori della Campagna Abiti Puliti hanno realizzato un flash mob nel centro di Torino davanti ad alcuni store di Benetton per chiedere all'azienda di pagare immediatamente i risarcimenti dovuti per le vittime del Rana Plaza, l'edificio di otto piani crollato nel 2013 causando la morte di 1138 persone e il ferimento di oltre 2000 lavoratori e lavoratrici.
6 "portatori" sono entrati in scena indossando macchine per cucire dipinte di nero sulle spalle, come zaini. Hanno indossato abiti neri, eleganti.
Si sono disposti silenziosamente in riga, davanti all'ingresso del punto vendita mentre altri 4 performer hanno srotolato a terra lo striscione
rosso relativo alla campagna RANA PLAZA / PAY UP BENETTON.
Dopo la disposizione i "portatori" hanno aperto le giacche al fine di mostrare l'etichetta verde UNITED VICTIMS OF BENETTON, cucita sul petto.
All'esposizione dell'etichetta i "portatori" si sono voltati verso il punto vendita per concludere l'azione con un grande ed ironicoapplauso.
Contemporaneamente si sono tenute altre azioni in alcune città europee e negli Stati Uniti.
Visita il sito della campagna e unisciti all'azione
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Siglato l’accordo per i risarcimenti della Tazreen
Due anni dopo che più di 120 persone hanno perso la vita intrappolati nella fabbrica Tazreen Fashions a Dhaka, in Bangladesh, è stato raggiunto un accordo tra IndustriALL Global Union e gli affiliati locali, la Clean Clothes Campaign e C&A sul meccanismo per garantire il risarcimento alle vittime della tragedia.
Il 24 novembre 2012, la Tazreen Fashions, una fabbrica di abbigliamento fornitrice di importanti marchi internazionali, è stata avvolta dalle fiamme. Incastrate dietro uscite bloccate, più di 120 persone sono morte intrappolate, mentre cercavano di scappare. 300 lavoratori sono rimasti gravemente feriti. Per due anni queste persone hanno dovuto affrontare la miseria e i problemi medici a causa dell’incendio.
Nei giorni scorsi tutte le controparti si sono impegnate nei negoziati, facilitati dall’ILO, per accordarsi sui principi generali di un accordo. I dettagli saranno finalizzati nei prossimi giorni, con la speranza che i risarcimenti alla fine saranno pagati.
Ineke Zeldenrust della CCC ha dichiarato: “Nella giornata del secondo anniversario siamo estremamente lieti di annunciare l’accordo che la Clean Clothes Campaign e IndustriALL hanno raggiunto con C&A sui principi generali per il risarcimento. Il sistema si basa sullo schema già sviluppato per le vittime del Rana Plaza, che prevede risarcimenti per la perdita di reddito, valutazioni mediche indipendenti e cure prolungate.
Come parte dell’accordo la C&A Foundation si è impegnata a contribuire con una cifra considerevole destinata al pieno e giusto risarcimento per le vittime della Tazreen, in aggiunta ai fondi già destinati. I dettagli finali saranno elaborati e resi pubblici non appena i costi totali saranno calcolati. Accogliamo con piacere il ruolo positivo che C&A ha svolto in questo processo, determinante per raggiungere l’accordo.”
La Clean Clothes Campaign ricorda oggi, insieme ai sindacati bengalesi e agli attivisti per i diritti dei lavoratori, le vittime di quel terribile incendio. Alla luce del nuovo accordo appena siglato, rinnova l’invito a tutti gli altri marchi collegati a quel disastro a contribuire immediatamente e in maniera sostanziosa al fondo per i risarcimenti.
I lavoratori hanno raccontato che al momento dell’incendio avevano appena concluso una spedizione a Walmart, principale acquirente degli indumenti prodotti alla Tazreen. “Walmart non si è assunta ancora alcuna responsabilità nei confronti dei lavoratori morti e feriti” ha dichiarato Babul Akther, il Segretario Generale del BGIWF (Bangladesh Indepedent Garment Workers Federation), affiliato ad IndustriALL.
Al momento del disastro i lavoratori e le lavoratrici della Tazreen stavano producendo anche per l’italiana Piazza Italia, KIK, El Corte Ingles, Edinburgh Woollen Mill, Disney e Sean John. Nessuno di questi brand ha ancora versato un centesimo per i risarcimenti. Li & Fung con sede a Hong Kong, il più grande agente intermediario del mondo, ha effettuato alcuni pagamenti attraverso il Governo del Bangladesh. El Corte Ingles e KIK hanno fatto solo alcune vaghe promesse e ora la CCC chiede che diventino azioni concrete e pubbliche.
“Tutti gli altri marchi, a partire da Piazza Italia, hanno la responsabilità di seguire l’esempio positivo rappresentato da C&A in questo caso così grave” dichiara Deborah Lucchetti della Campagna Abiti Puliti (sezione italiana della CCC).“È necessario e urgente dimostrare con azioni concrete e misurabili che i bisogni e i diritti delle vittime della Tazreen sono una priorità”
(2014) Report - Flawed Fabrics
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Ancora evidenze di schiavitù moderna nel settore tessile indiano
Il 28 ottobre 2014, due organizzazioni non governative olandesi, SOMO (Centro di Ricerca sulle Imprese Multinazionali) e ICN ( Comitato Indiano dei Paesi Bassi), hanno pubblicato un nuovo rapporto sulle condizioni di lavoro esistenti nell’industria tessile indiana per l’esportazione, localizzata nella regione del Tamil Nadu.
lI rapporto, dal titolo emblematico Flawed Fabrics (Tessuti difettosi), dimostra che le lavoratrici sono ancora sottoposte a condizioni di lavoro spaventose, paragonabili al lavoro forzato. Le donne e le ragazze che lavorano nelle filature del Tamil Nadu, alcune di appena 15 anni, sono per lo più reclutate fra le comunità emarginate dei Dalit che vivono nelle zone rurali più povere. Costrette a lavorare per moltissime ore al giorno in cambio di salari miseri, sono alloggiate in miseri ostelli aziendali dai quali non possono allontanarsi senza permesso.
L’indagine ha anche messo in evidenza che gli utilizzatori finali dei prodotti ottenuti in queste condizioni, sono imprese occidentali e bengalesi fra cui C&A, Mothercare, Hanesbrands, Sainsbury’s e Primark.
Il rapporto descrive le condizioni riscontrate in cinque filature del Tamil Nadu, che è un importante distretto dell'industria tessile e di maglieria a livello globale. Esse sono: Best Cotton Mills, Jeyavishnu Spintex, Premier Mills, Sulochana Cotton Spinning Mills and Super Spinning Mills. La ricerca si basa su interviste approfondite a 150 lavoratrici, incrociate con informazioni di fonte aziendale e delle agenzie che forniscono dati sull’export. Le filature in questa regione producono filati di cotone e tessuti, sia per l'ulteriore lavorazione nel settore dell'abbigliamento indiano che per l'esportazione verso altri paesi, in particolare il Bangladesh.
Le ragazze e le giovani intervistate donne hanno raccontato come siano state indotte a lasciare i loro villaggi, dietro allettanti promesse di lavoro dignitoso e ben pagato. In realtà hanno trovato condizioni di lavoro spaventose equiparabili alla schiavitù. Le lavoratrici non hanno contratti ne’ buste paga. Né esistono sindacati o altri organismi a cui potersi appellare. Una lavoratrice impiegata alla Sulochana Cotton Spinning Mills, ha dichiarato: "Non mi piace dove siamo alloggiati. E’ molto lontano dalla città, non ci intrattenimenti né contatti con l’esterno. E’ come una semi-galera.”
Due delle fabbriche esaminate hanno fra i propri clienti anche aziende di abbigliamento del Bangladesh che ricadono sotto il Bangladesh Accord on Fire and Building Safety (Accordo Bengalese sugli Incendi e sulla Sicurezza degli Edifici). Come tale, il rapporto evidenzia un legame diretto tra i firmatari dell’Accordo e le inaccettabili violazioni dei diritti del lavoro in India. Purtroppo, a causa della mancanza di trasparenza, SOMO e ICN non hanno potuto stabilire quali imprese occidentali, firmatarie dell’accordo, si riforniscano dalle aziende bengalesi in questione. I dati sulle esportazioni hanno anche messo in evidenza che tre banche estere offrono assistenza finanziaria alle fabbriche del Tamil Nadu e ai loro clienti. Esse sono: Standard Chartered Bank, The Bank of Tokyo Mitsubishi e Raiffeisenbank. Prendendo a pretesto la sicurezza bancaria e la privacy, nessuna delle tre banche ha accettato di rilevare altri dettagli.
Negli ultimi anni, alcuni marchi e grossisti di abbigliamento che acquistano tessuti nel Tamil Nadu ,hanno attivato controlli e azioni correttive, ma solo sulle imprese di primo livello con cui hanno rapporti diretti. Mentre sono rari gli acquirenti che spingono la propria attività di controllo sulle aziende di secondo livello come sono le filature. Spiace constatare che due delle fabbriche indagate hanno ottenuto la certificazione SA8000 mentre questo rapporto mostra condizioni di lavoro tutt'altro che accettabili.
Rana Plaza 18 mesi dopo
18 mesi dopo il crollo del Rana Plaza, la Clean Clothes Campaign ha incontrato i sopravvissuti e i familiari delle vittime in Bangladesh ed è rimasta sconcertata e profondamente addolorata dal numero di persone che non sono tuttora in grado di ritornare al lavoro e riscostruire la loro vita.
Gli imprenditori stanno voltando le spalle a quelle persone che lavoravano al Rana Plaza perché le considerano troppo “danneggiate” e “fattore di rischio” – ha dichiarato Samantha Maher della CCC, che è stata in Bangladesh questo mese – E’ impressionante vedere come molti di questi lavoratori si sentano sconfitti, soprattutto se paragonati ad altri operai che abbiamo incontrato.
In seguito al terribile crollo del mese di aprile 2013, molto è stato fatto per evitare un altro disastro e per molti lavoratori e lavoratrici tessili che non lavoravano in una delle cinque fabbriche del Rana Plaza le misure di sicurezza in fase di introduzione attraverso l’Accordo sulla prevenzione degli incendi e sulla sicurezza offrono la speranza di un futuro migliore nel settore.
In ogni caso, per molte delle 2000 persone sopravvissute al crollo, il pagamento dei risarcimenti non è ancora avvenuto. 18 mesi dopo quel giorno terribile, il fondo istituito per raccogliere i risarcimenti, necessita ancora di circa 20 milioni di dollari e marchi importanti come Benetton e Robe di Kappa, che si rifornivano da una fabbrica dell’edificio, non hanno ancora versato un centesimo.
La gravità di questa situazione si evince chiaramente parlando con quelle giovani donne che attraverso il loro lavoro al Rana Plaza mantenevano le loro famiglie. Ora oltre ai danni fisici e morali causati da quel disastro, queste persone sono gravate anche del fardello dell’insicurezza finanziaria.
Donne come la diciottenne Mahinu Akter, che era diventata l’unica sostentatrice della sua famiglia a causa della morte del padre in un incidente di un autobus. Mahinu lavorava al Rana Plaza da quando aveva 14 anni per aiutare la madre e i suoi due fratelli.
Mahinu ha riportato ferite alla testa e ha perso un dito del piede nella tragedia. Ha trascorso 20 giorni in ospedale. Quando è stata dimessa, ha passato un mese a letto senza poter mangiare: tuttora si sforza e ha perso completamente l’appetito. Inoltre soffre ancora di dolore ai piedi, gambe gonfie, perdita di memoria e costante emicrania.
“Il fatto che il Rana Plaza Donor Trust Fund è riuscito a raccogliere solo il 40% dei soldi necessari a risarcire le vittime” - dichiara Deborah Lucchetti della Campagna Abiti Puliti – “ è da ricondurre esclusivamente alla responsabilità dei grandi marchi che non hanno ancora pagato ciò che dovrebbero. Per Mahinu e le altre persone come lei, questo significa non poter pianificare la propria vita oltre l’emergenza quotidiana”.
Mahinu ha ricevuto una formazione aziendale, mentre era ricoverata al Centre of Rehabilitation of the Paralysed, e 7000 taka (circa 90 dollari) per comprare il necessario per avviare un’attività, ma avrebbe avuto bisogno di un prestito per comprare un frigorifero e realizzare il suo negozio. La famiglia non poteva supportarla economicamente in alcun modo: è evidente che la beneficienza non può sostituirsi al pieno e giusto risarcimento che le spetta.
Benetton ha dichiarato di essersi impegnata a “lavorare direttamente con le persone colpite dal disastro del Rana Plaza” ma, rifiutandosi di partecipare al Rana Plaza Donor Trust Fund gestito dall’ILO, ha di fatto fallito nel supportare le vittime di quella tragedia, i lavoratori che hanno contribuito a generare i suoi profitti.
Invece di ricevere i risarcimenti cui hanno diritto, le persone come Mahinu restano appese alla beneficienza, imprevedibile e insufficiente che le condanna ad una spirale di povertà permanente.
Mahinu, come molti altri, ha poche speranze che marchi come Benetton alla fine pagheranno quanto devono: “Non importa cosa pensiamo dei risarcimenti, sappiamo che non ce li daranno mai” ci ha detto. Noi faremo di tutto perché questo non accada.
Amirul Haque Amin, presidente del NGWF, vince il Nuremberg International Human Rights Award
Il 28 settembre 2014, la giuria del Nuremberg International Human Rights Award, presieduta dal Sindaco di Norimberga, riunita presso il municipio della città, ha deciso di conferire a Amirul Haque Amin, presidente del NGWF in Bangladesh, questo importante riconoscimento.
Nelle motivazioni della scelta si legge che Amirul Haque Amin si batte per i diritti dei lavoratori con coraggio ammirevole. È presidente e co-fondatore del National Garment Workers Federation (NGWF), il più grande sindacato nazionale in Bangladesh, istituito nel 1984. Con grande tenacia e coraggio, questo sindacato si batte per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, e quindi per la dignità, dei lavoratori dell'industria tessile manifatturiera bengalese.
Numerose sono le violazioni dei diritti del lavoro che si verificano nel settore tessile e dell'abbigliamento, non solo in Bangladesh, ma in molti altri paesi. Sebbene siano stati compiuti alcuni progressi, è necessario fare molto di più. Ricordando il crollo devastante del palazzo Rana Plaza a Dhaka, che ha causato 1.135 decessi e oltre 2.000 feriti, la giuria ha voluto fare appello alle aziende della moda i cui prodotti sono stati realizzati in questa fabbrica e che non hanno ancora pagato alcun indennizzo perché si assumano le loro responsabilità. Inoltre, la decisione della giuria dovrebbe essere vista come un appello a tutta l'industria dell'abbigliamento per garantire che le buone pratiche di lavoro siano rispettate in tutte le fasi della catena di produzione. Conferendo questo premio a Amirul Haque Amin, la giuria internazionale per la prima volta onora un attivista che si batte per i diritti umani sociali ed economici. In questo modo, la giuria ha voluto richiamare l'attenzione su tre temi:
- la tutela dei diritti dei lavoratori a livello locale. In Bangladesh, il lavoro sindacale è estremamente pericoloso. Gli attivisti non solo rischiano di essere licenziati, quando prendono posizione contro le condizioni di lavoro orribili; ma sono spesso vessati, minacciati o arrestati. La giuria si augura che il premio garantirà a Mr. Amin ei suoi compagni attivisti la protezione necessaria per continuare la loro lotta;
- la sensibilizzazione a un consumo responsabile. Il pubblico ha il diritto di sapere dove e come i loro capi sono prodotti.
- l'etica economica: il commercio globalizzato e libero senza rispetto degli standard sociali è contrario a tutte le esigenze di tutela dei diritti umani fondamentali.
Cambogia: H&M dia l’esempio. Si impegni a garantire un salario dignitoso
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I lavoratori e le lavoratrici del settore tessile in Cambogia entrano in azione per chiedere un aumento del salario minimo a 177 dollari al mese.
Organizzazioni partner della Clean Clothes Campaign hanno organizzato manifestazioni di protesta davanti ai negozi delle vie dello shopping in sostegno dei lavoratori cambogiani, per chiedere ai brand, tra cui H&M (principale acquirente del mercato tessile cambogiano), di aumentare immediatamente il salario minimo a 177 dollari al mese.
Questo giorno di mobilitazione arriva dopo un anno di proteste anche molto dure, sfociate lo scorso gennaio nella feroce repressione della polizia che causò 23 arresti e 4 morti.
L’attuale salario minimo si attesta a 100 dollari mensili, appena un quarto di quanto l’Asia Floor Wage ha stimato essere la soglia di un salario dignitoso per quel Paese. Con questa cifra 500 mila operai e operaie tessili non sono in grado di far fronte ai bisogni primari loro e delle loro famiglie.
Per l’inizio del prossimo ottobre è atteso l’annuncio dell’aumento del salario minimo da parte del Cambodian Labour Advisory Committee. Sindacati e lavoratori insistono che debba essere elevato a 177 dollari al mese, mentre il Garment Manufacturers Association in Cambodia (GMAC) ha proposto un più modesto aumento a 115 dollari al mese.
I sindacati sono tutti uniti nella richiesta dei 177 dollari. Ath Thorn, presidente del sindacato cambogiano C.CAWDU, affiliato ad IndustriALL, ha dichiarato: “E’ ora che i marchi si assumano le loro responsabilità e affrontino il problema al centro delle nostre proteste: il salario dignitoso. L’aumento del salario minimo a 177 dollari al mese è un passo in questa direzione.”
H&M lo scorso anno ha annunciato l’avvio di un progetto pilota in Cambogia come parte della sua Road Map per un salario dignitoso, eppure non ha ancora fornito eventuali parametri di riferimento o cifre su cui tale progetto dovrebbe basarsi. La Clean Clothes Campaign chiede che dia prova concreta del proprio impegno nei confronti dei lavoratori e delle lavoratrici che producono per il marchio.
La CCC sostiene la mobilitazione dei lavoratori e delle lavoratrici cambogiane e chiede ai marchi non solo di impegnarsi ad aumentare il salario minimo a 177 dollari al mese come richiesto dai sindacati, ma anche di:
- intraprendere un percorso a lungo termine per continuare a rifornirsi in Cambogia;
- accettare di aumentare il prezzo di FoB (Free on Board) per garantire l’aumento dei salari;
- impegnarsi con i sindacati cambogiani attraverso contratti collettivi giuridicamente vincolanti.
Cambodian workers call for raise in minimum wage from Clean Clothes Campaign on Vimeo.
(2014) REPORT Stiched up! Salari da povertà per i lavoratori dell’abbigliamento in Europa Orientale e in Turchia
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L’industria dell’abbigliamento rappresenta una grande opportunità per lo sviluppo economico di un paese e per la prosperità della sua popolazione, ma solo se crea forme di occupazione dignitose secondo la definizione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO).
E’ necessario che siano rispettati tutti i diritti in termini di salute e sicurezza, di condizioni di lavoro e di salario.
Si è portati comunemente a credere che lo sfruttamento dei lavoratori nell’industria dell’abbigliamento sia un problema più acutamente avvertito in Asia dove sono ben documentati casi caratterizzati da livelli salariali da povertà, condizioni di lavoro pericolose e lavoro straordinario obbligatorio. Tuttavia, come dimostra la nostra indagine, questi problemi sono un fattore endemico in tutti i paesi produttori, e persino all’interno dell’Unione Europea si possono osservare, nei paesi che producono gli indumenti che acquistiamo in negozi prestigiosi, livelli retributivi miserrimi e condizioni di vita spaventose.
Il rapporto esamina i livelli salariali e le condizioni di vita in dieci paesi ed evidenzia il ruolo di retroterra produttivo a basso costo dei paesi ex-socialisti per i marchi della moda e i distributori dell’Europa Occidentale. La Turchia, uno dei giganti mondiali del settore, attinge invece al bacino della regione dell’Anatolia Orientale. Gli imprenditori turchi affidano inoltre lavorazioni ad aziende terze in una vasta area geografica che si estende fino al Nord Africa e al Caucaso meridionale.
Uno dei cinque obiettivi prioritari del programma “Europa 2020, strategia per una crescita intelligente, sostenibile e solidale” è la riduzione della povertà per consentire ad una quota di popolazione di almeno 20 milioni di persone di uscire dal rischio di povertà o di esclusione sociale entro il 2020. La corresponsione di retribuzioni ad un livello dignitoso nel settore produttivo dell’abbigliamento e calzature rappresenta una misura molto concreta, potenzialmente capace di raggiungere un gran numero di persone e di migliorare in modo decisivo le loro condizioni di vita.
Il presente rapporto descrive le drammatiche condizioni retributive e di lavoro che caratterizzano il settore dell’abbigliamento in tutta l’area geografica presa in considerazione.
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Bata e quei lavoratori licenziati
Era l’agosto del 2012 quando in uno stabilimento dello Sri Lanka alcuni lavoratori e lavoratrici decidevano di riunirsi in un sindacato per difendere i loro diritti. La fabbrica è la Palla & Co. e al tempo produceva scarpe per il noto marchio internazionale Bata.
Proprio da quell’agosto, infatti, quegli uomini e quelle donne si aspettavano di vedere in busta paga un aumento salariale che avevano concordato con la proprietà della fabbrica: invece niente. La dirigenza allora ha pensato bene, non solo di non negoziare con il neonato sindacato, ma, in poco più di un anno, di sospendere 15 suoi funzionari (novembre 2013) e di licenziare 179 suoi iscritti (dicembre 2013). A quel punto ha avanzato la sua proposta: un aumento di stipendio una tantum, prendere o lasciare.
Naturalmente la proposta è stata ritenuta inaccettabile dal sindacato e questo ha scatenato la reazione dei dirigenti dello stabilimento: intimidazioni, minacce, lista nera dei lavoratori. Questo tuttora impedisce a molti dei licenziati di trovare lavoro in altre fabbriche aggravando le loro condizioni di vita già precarie; del resto i proprietari della Palla & Co hanno chiesto espressamente ai dirigenti degli altri stabilimenti di non assumerli.
85 dei 179 licenziati sono stati reintegrati dalla stessa Palla & Co solo dopo avergli fatto firmare un accordo in cui i lavoratori e le lavoratrici si impegnavano a non partecipare più in futuro ad alcuna attività sindacale.
Queste sono le modalità in cui sono state prodotte alcune delle 210 milioni di paia di scarpe Bata che proprio in questo momento stanno passeggiando chissà dove in oltre 60 paesi del mondo.
Bata nel dicembre 2013 ha chiuso ogni rapporto commerciale con la Palla & Co e ora fa orecchie da mercante: cosa aspetta ad assumersi le sue responsabilità e ad intervenire in questo conflitto per chiedere il rispetto dei diritti di quei lavoratori e lavoratrici che hanno prodotto le loro scarpe? A cosa serve dotarsi di un codice di condotta, se poi quando viene violato ci si gira dall’altra parte?
Ali Enterprises, due anni dopo. Le vittime aspettano ancora i risarcimenti
L’11 settembre di due anni fa scoppiava l’incendio alla Ali Enterprises, una fabbrica di abbigliamento di Karachi, in Pakistan, causando la morte di 254 persone e il ferimento di 55 lavoratori e lavoratrici.
Poche settimane prima del disastro la fabbrica era stata ispezionata dalla società italiana di revisione RINA che aveva accordato la certificazione SAI (Social Accountability International) 8000, nonostante la fabbrica non avesse uscite di emergenza, avesse le finestre sbarrate, non fosse registrata e avesse un intero piano costruito abusivamente.
Da quella tragedia oltre 1300 lavoratori e lavoratrici del settore tessile sono morti in Asia a causa dell’insicurezza dei posti di lavoro. Migliaia di altri lavoratori sono sopravvissuti, ma la loro vita è cambiata per sempre.
Molti marchi coinvolti in queste tragedie non si sono ancora assunti le loro responsabilità.
Tra questi il distributore tedesco KIK che aveva commesse nelle tre fabbriche teatro dei più grandi disastri umanitari degli ultimi anni: oltre alla Ali Enterprises, la Tazreen Fashions (Bangladesh) e il Rana Plaza (Bangladesh). Ad oggi non ha ancora fornito un pieno ed equo risarcimento a nessuna delle vittime coinvolte.
Per quanto riguarda la Ali Enterprises, nel dicembre del 2012 la KIK, unico acquirente conosciuto della fabbrica bruciata, aveva firmato un protocollo di intesa con il Pakistan Institute of Labour Education and Research (PILER), impegnandosi a versare subito 1 milione di dollari per le prime necessità di emergenza, accettando di intavolare una trattativa per determinare l’importo complessivo per una piena compensazione delle vittime. All’ultimo minuto però, lo scorso luglio, KIK ha deciso di ritirarsi dalla trattativa lasciando le vittime senza un risarcimento.
Per quanto riguarda il Rana Plaza, KIK ha versato nel Trust Fund 1 milione di dollari, appena un quinto di quanto la Clean Clothes Campaign ha richiesto in base al fatturato annuo. Per quanto riguarda la Tazreen, infine, non hanno pagato neanche un centesimo.
“Il risarcimento è un diritto ed è assolutamente vergognoso che centinaia di vittime con le loro famiglie si trovino ancora oggi in una condizione drammatica in continuo peggioramento” dichiara Deborah Lucchetti della Campagna Abiti Puliti. “Il rifiuto della tedesca KIK di corrispondere un equo risarcimento unitamente a quello di tutte le imprese italiane coinvolte che non hanno ancora contribuito come Benetton, Manifattura Corona, Yes Zee, Robe di Kappa e Piazza Italia, non fa che prolungare la sofferenza dei lavoratori che concorrono a determinare i loro profitti”
Queste tragedie nel settore dell’abbigliamento hanno messo in evidenza la necessità di elaborare un sistema di compensazione a lungo termine efficiente e sostenibile basato sugli standard dell’ILO e in linea con i Guiding Principles on Business and Human Rights delle Nazioni Unite che espressamente sottolineano che: “quando […] nei luoghi di lavoro si fallisce nel garantire il rispetto e la protezione dei diritti umani, allora i governi e le imprese devono assicurare misure efficaci, tra cui il pagamento di adeguati risarcimenti”.
"Non è la carità che i sopravvissuti vogliono, ma il rispetto del loro diritto a un risarcimento completo ed equo", ha dichiarato Karamat Ali, Executive Director del PILER
I lavoratori e le lavoratrici di tutto il mondo organizzano veglie per commemorare coloro che sono morti nell’incendio. La Clean Clothes Campaign, unendosi a loro, chiede a KiK di riprendere i negoziati sulla base dell’accordo legalmente vincolante siglato con il PILER e di pagare a tutte le famiglie delle vittime e dei sopravvissuti il risarcimento loro dovuto prima che un altro anno trascorra.
Rana Plaza: anche i governi chiedono ai marchi di pagare
La Clean Clothes Campaign accoglie con favore la dichiarazione con cui i governi di Olanda, UK, Francia, Germania, Danimarca, Italia e Spagna invitano le imprese a “versare immediatamente donazioni sostanziose nel Rana Plaza Donor Trust Fund”.
Il comunicato è stato rilasciato a margine dell’Organisation for Economic Cooperation and Development (OECD) Global Forum on Responsible Business Conduct che ha visto incontrarsi a Parigi i ministri di tutto il mondo a fianco dell’ILO e di rappresentanti sindacali e delle ONG.
Questa dichiarazione è molto importante in quanto mette i marchi a livello globale di fronte alla loro responsabilità di fornire un adeguato risarcimento alle vittime del crollo del Rana Plaza secondo i UN Guiding Principles on Business and Human Rights. Finora nel fondo sono stati raccolti 17 milioni di dollari a fronte dei 40 milioni necessari a garantire per tutti un equo risarcimento.
Il Donor Trust Fund è l'unico strumento legittimo per garantire che tutti gli interessati ricevano una compensazione adeguata per la perdita di reddito e per le spese mediche. Molti marchi hanno cercato di aggirare le loro responsabilità facendo delle piccole e riservate donazioni sostituendo il riconoscimento di un diritto con la carità.
I governi chiedono a "tutte le aziende ... [di] versare donazioni generose nel Trust Fund, sia per la prima volta sia come secondo contributo per giungere ad un importo adeguato."
Rana Plaza: Tra i panni sporchi del Bangladesh
Segnaliamo un'interessante reportage realizzato da Riccardo Staglianò per Il Venerdì di Repubblica sul caso Rana Plaza. Il giornalista, oltre a ricostruire l'accaduto e tutto l'iter degli accordi internazionali, ha trovato tra le macerie anche documenti e etichette del marchio KAPPA.
Sul sito di Repubblica puoi trovare anche un webdocumentario che ricostruisce i temi del reportage.
DACCA. La stanza dalle pareti di latta è in penombra. Sul letto matrimoniale, sormontato da un’imponente testata di metallo, è accasciata una ragazza. Sopra una blusa rossa a fiori bianchi porta uno scialle grigio. Considerato che fuori sono quarantatré gradi e dentro, se possibile, qualcuno di più, quest’ultimo dettaglio sembra il più assurdo. Di tutto c’è bisogno, in questa baracca arroventata di Savar, nella periferia industriale di Dacca, meno che di coprirsi. Apparentemente. Rozina Begum, ventitré anni all’epoca dei fatti, lavorava nell’edificio noto come Rana Plaza. Cuciva dalle otto di mattina alle dieci di sera, a volte mezzanotte. Continua a leggere
Eu Ropa - Io abito qui. Il libro illustrato di Franco Sacchetti
il progetto
Eu Ropa - Io abito qui è un progetto artistico della Compagnia Insomnia con il supporto di Iberescena ed Electa Creative Arts, realizzato con la collaborazione dalla Campagna Abiti Puliti. Il libro illustrato ha lo scopo di spingere i lettori ad informarsi su ciò che si nasconde dietro la produzione degli abiti che indossiamo: sfruttamento, schiavitù, deforestazione, rischi ambientali sono solo alcuni degli aspetti che regolano il settore dell'abbigliamento.
Solo attraverso un approfondimento consapevole, basato su informazioni certe, si può arrivare a quel consumo critico che costringa le aziende a produrre i propri abiti in maniera sostenibile e rispettosa dei diritti fondamentali delle persone.
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l’autore
Franco Sacchetti. Si dedica alla scrittura, all’illustrazione, e alle installazioni, privilegiando i temi dell’ecologia e della sostenibilità. Ha collaborato come vignettista con vari giornali e riviste tra cui l’Ecologist italiano ed Eco-educazione sostenibile. Nel 2009 ha pubblicato il romanzo illustrato: “LA MARCIA DEI FRIGORIFERI VERSO IL POLO NORD” sul tema del riscaldamento globale.
Sito: www.francosacchetti.it
Elezioni europee 2014: impegno a favore di un salario dignitoso
Il 25 maggio in Italia si terranno le elezioni per eleggere i nuovi rappresentanti al Parlamento Europeo.
E' un'occasione importante per chiedere a chi sarà eletto di impegnarsi nei prossimi cinque anni sul tema del salario dignitoso.
Un salario dignitoso è quello che consente a un lavoratore in una settimana regolare di lavoro (non più di 48 ore) di provvedere alle necessità basilari proprie e della famiglia. Fra queste l’alloggio, l’istruzione, l’assistenza medica, e una quota di salario discrezionale da accantonare per spese impreviste.
Il diritto a percepire un salario dignitoso per sé e per la propria famiglia è sancito quale diritto umano nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, nel Patto delle Nazioni unite sui diritti economici, sociali e culturali e in altri documenti, quali la Costituzione dell’ILO, 1919; il Preambolo della Dichiarazione di Filadelfia (Conferenza internazionale del lavoro, 1944); la Dichiarazione dell’ILO sulla giustizia sociale per una globalizzazione giusta, 2008; e infine la Carta sociale europea.
Per questo chiediamo ai membri del Parlamento Europeo di impegnarsi a operare al fine di promuovere l’adozione di un salario dignitoso per tutti i lavoratori che nel mondo producono per conto di imprese europee.
Sei un/una candidato/a
Impegnati a promuovere l’adozione di un salario dignitoso per tutti i lavoratori che nel mondo producono per conto di imprese europee
Sei un/una elettore/rice
Chiedi ai tuoi candidati di sottoscrivere l'appello della Clean Clothes Campaign
Salario vivibile, globalizzazione dei diritti
In qualità di candidato ho ricevuto l’invito da parte di molte associazioni a firmare impegni a favore dei temi di cui si occupano. Ora mi trovo nella bizzarra posizione di prendere impegni per una proposta avanzata dalla Campagna Abiti Puliti di cui io stesso sono esponente.
La richiesta è di operare affinché sia garantito un salario vivibile a tutti i lavoratori che nel mondo producono per conto di imprese europee. Una lista per la verità molto lunga che coinvolge milioni di lavoratori asiatici, africani e dell’Europa dell’Est impiegati lungo tutte le filiere produttive basate sull’appalto e sulla subfornitura. Quelle delle calzature e dell’abbigliamento prima di tutto.
Ormai i grandi marchi che conosciamo non hanno quasi più retroterra produttivo. Per loro è più conveniente investire i profitti nella speculazione finanziaria, piuttosto che costruire fabbriche. La produzione la possono ottenere da stabilimenti altrui di proprietà sudcoreana, cinese, indiana, russa, aperti in paesi come Bangladesh, Romania, Moldavia, Tunisia, Albania. In paesi, cioè, dove la disoccupazione è così alta e la repressione sindacale così spinta, da costringere i lavoratori a lavorare per orari massacranti in cambio di salari che non bastano neanche per i bisogni fondamentali della propria famiglia. Semplicemente perché ogni tentativo di organizzazione sindacale è represso nel sangue e la legge, che rappresenta l’unico appiglio a cui aggrapparsi, fissa i salari minimi a livelli indecenti. In Bangladesh ad esempio il salario minimo legale corrisponde appena al 21% dei bisogni familiari di base. Ma se possibile in Europa dell’est va anche peggio. In Bulgaria e Ucraina siamo al 14%. In Georgia addirittura al 10%.
Questa situazione oltre ad essere un insulto alla dignità delle persone e alla civiltà umana, che sta tornando alla schiavitù, è anche un attentato ai diritti acquisiti dai lavoratori dei paesi industrializzati che si vedono costantemente ricattati dalle imprese: “O accettate retrocessioni salariali e forme di assunzione più precarie o ce ne andiamo” Per tutte queste ragioni la Campagna Abiti Puliti, aderente al coordinamento internazionale Clean Clothes Campaign, si batte per l’introduzione del principio del salario vivibile a livello mondiale, a partire dagli stabilimenti di calzature e abbigliamento inseriti nelle catene di subfornitura. Un principio per certi versi già espresso da alcune convenzioni internazionali in base al quale il salario deve essere sufficiente a coprire i bisogni fondamentali di una famiglia standard, in termini di cibo, alloggio, trasporti, cure e istruzione di base.
Fino ad oggi abbiamo costruito la globalizzazione selvaggia al servizio delle multinazionali. Ora dobbiamo costruire la globalizzazione dei diritti al servizio delle persone, cominciando a introdurre regole universali che le imprese debbono rispettare ovunque. Primo fra tutti quello del salario vivibile. Un obiettivo che si raggiunge non solo garantendo la piena libertà sindacale e di sciopero, ma anche innalzando i salari minimi legali a partire dall’Unione Europea.
In tal senso, l’impegno dei futuri parlamentari è importante. Ma il loro impegno potrà dare risultati solo se sarà sostenuto da una forte pressione popolare perché le imprese si organizzeranno in tutti i modi possibili per bloccare provvedimenti che possono corrodere i loro profitti. Per questo dobbiamo stare tutti all’erta cominciando a sostenere tutte quelle realtà di base che si battono per i diritti. Prima fra tutti la Campagna Abiti Puliti
Il primo atto del nuovo CEO di Benetton: pagare i risarcimenti!
Oggi nella sede del Gruppo Benetton, Marco Airoldi sarà nominato nuovo CEO dell’azienda - ruolo che lo vedrà a capo di una delle più grandi imprese italiane e aziende tessili del mondo in un momento di grandi cambiamenti.
Ma prima che il gruppo si dedichi al futuro, è il caso che rimedi agli errori del passato. Dopo un anno di messaggi contrastanti provenienti da Benetton per quanto riguarda il loro impegno a garantire un risarcimento per tutti i sopravvissuti e le famiglie delle vittime del Rana Plaza, Airoldi deve fare chiarezza.
Mentre Marco Airoldi inizia il suo mandato, la Clean Clothes Campaign ricostruisce per lui i fatti che riguardano Benetton e il Rana Plaza e gli chiede, come primo atto, di effettuare un versamento nel Donor Trust Fund.
I fatti
Cosa dice l’azienda: nel Settembre 2013, ha dichiarato“continua il nostro impegno nella ricerca di un approccio coordinato e di settore a questo problema industriale [per il risarcimento] – così come è successo per il Fire and Safety Building Accord.”
I fatti
- Dal Dicembre 2013 un approccio multi-stakeholder è stato messo in campo: l’Arrangement. Ha visto la partecipazione totale del Governo bangladese, delle organizzazioni dei lavoratori, dei sindacati locali e internazionali, delle ONG, dei principali brand del settore tessile e dell’ILO come attore neutrale.
- Nonostante questo, Benetton si rifiuta di contribuire
Cosa dice l’azienda: nel Marzo 2014, in un comunicato stampa Benetton ha dichiarato di essersi ritirata dall’Arrangement perché “stava arrivando a prevedere una contribuzione su base volontaria e non proporzionata all’effettiva presenza in Bangladesh [di ciascuna azienda]”
I fatti:
- La decisione di rendere lo schema a contribuzione volontaria è stata presa in seguito all’incapacità dei marchi – compreso Benetton – nel raggiungere un accordo tra loro sui criteri che avrebbero dovuto regolare le donazioni.
- La Clean Clothes Campaign crede che tutti i marchi in Bangladesh dovrebbero contribuire in relazione alla loro capacità economica, ai rapporti con il Paese e a quelli con il Rana Plaza: per questo crediamo che Benetton debba versare 5 milioni di dollari
Cosa dice l’azienda: Benetton ha dichiarato “Abbiamo quindi deciso di concentrare ulteriormente i nostri fondi e sforzi per il sostegno alle vittime e alle loro famiglie ”. Questo è stato fatto finanziando BRAC.
I fatti:
- Come ha ricordato Gilbert Houngbo, Deputy Director General dell’ILO: ”Il risarcimento è un diritto. La beneficienza è fondamentale per sostenere la riabilitazione e gli altri servizi ma è volontaria per sua natura e non sostituisce l’affermazione di un diritto”.
- BRAC fornisce molto aiuto necessario in Bangladesh, ma questo dovrebbe essere in aggiunta al diritto al risarcimento, come stabilito dal diritto internazionale. Benetton deve pertanto contribuire anche al Donor Trust Fund per garantire ai sopravvissuti e alle vittime di ricevere il sostegno di cui hanno bisogno.
“Marco Airoldi prende le redini di Benetton in un momento cruciale, 379 giorni dopo il crollo del Rana Plaza. Le famiglie delle vittime e i superstiti stanno ancora aspettando di ricevere il sostegno finanziario che gli spetta e di cui hanno un disperato bisogno” ha dichiarato Deborah Lucchetti, portavoce della Campagna Abiti Puliti. “Airoldi ha l’opportunità di iniziare il suo incarico con un passo avanti e dimostrare che Benetton non mette il profitto davanti alle vite di chi produce i suoi vestiti. È tempo di pagare”.
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Il Rana Plaza è crollato il 24 aprile 2014 uccidendo 1.138 persone e ferendone oltre 2000. La maggior parte dei morti e dei feriti lavorava in una delle cinque fabbriche tessili presenti nello stabile. I lavoratori delle banche e dei negozi al piano terra, infatti, si erano rifiutati di entrare nell’edificio insicuro.
L’Arrangement
In accordo con gli standard dell’ILO, l’Arrangement riunisce i marchi (Primark, Loblaw, Bonmarche e El Corte Ingles), il Ministro del Lavoro bangladese, la Bangladesh Employers' Federation (BEF), il Bangladesh Garment Manufacturers and Exporters Association (BGMEA), IndustriALL Bangladesh National Council, il Bangladesh Institute for Labour Studies (BILS), IndustriALL Global Union e la Clean Clothes Campaign, in un Comitato di Coordinamento multi- stakeholder.
Al 30 Aprile 2014, la cifra raccolta nel Rana Plaza Donors Trust Fund ammonta a 9.905.492,45 dollari. Gli impegni assunti ammontano a circa 200mila dollari e un certo numero di altre dichiarazioni di impegno sono sotto esame.
La cifra totale raccolta per risarcire circa 600 beneficiari della New Wave Bottoms Factory, la fabbrica da cui si riforniva anche Benetton, ammonta a 7 milioni di dollari. Questa cifra si aggiunge ai 9,9 milioni di dollari di cui sopra, portando la cifra totale raccolta a circa 17 milioni di dollari.
La cifra necessaria per risarcire tutte le vittime ammonta a circa 40 milioni di dollari
Maggiori informazioni sull’Arrangement sono disponibili qui: www.ranaplaza-arrangement.org
I marchi del Rana Plaza
30 brand sono stati direttamente collegati alle fabbriche del Rana Plaza, sia con ordini recenti che con ordini di prova, o con ordini passati. Crediamo che tutti debbano contribuire pubblicamente al Rana Plaza Donor’s Trust Fund:
Adler Modemärkte (Germany), Auchan (France), Ascena Retail (USA), C&A (Belgium), Benetton (Italy), Bon Marche (UK) , Camaieu (France), Carrefour (France), Cato Fashions (USA), The Children’s Place (USA), LPP (Cropp, Poland), El Corte Ingles (Spain), Gueldenpfennig (Germany), Iconix (Lee Cooper), Inditex (Spain), JC Penney (USA), Loblaws (Canada), Kids for Fashion (Germany),Kik (Germany),Mango (Spain), Manifattura Corona (Italy), Mascot (Denmark), Matalan (UK), NKD (Germany), Premier Clothing (UK), Primark (UK/Ireland), Grabalok (UK), PWT (Denmark), Walmart (USA) and YesZee (Italy).
Rana Plaza: le foto dei flash mob di Firenze e di Milano
Firenze
Immagini del Flash mob in Piazza Santa Trinità a Firenze a cura di EU-ROPA progetto artistico della Compagnia Insomnia dedicato al tema dei diritti umani nell'industria dell'abbigliamento in collaborazione con Filtcem-CGIL, Mani Tese Firenze, ACU Toscana e Villaggio dei Popoli
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Milano
Immagini del Flash mob a Milano in Piazza Duomo a cura di Price is Rice in occasione del Fashion Revolution Day e in collaborazione con Abiti Puliti [fsg_gallery id="6"]
Rana Plaza, un anno dopo. Azioni in Italia e nel mondo per chiedere i risarcimenti delle vittime
Un anno dopo il crollo del Rana Plaza i marchi che si rifornivano presso le aziende ospitate da quel palazzo non sono ancora riuscite a predisporre adeguati finanziamenti per risarcire le vittime e i familiari dei 1.138 morti.
Nonostante sia stato siglato un accordo innovativo tra marchi, governo del Bangladesh, lavoratori, sindacati nazionali e internazionali e ONG, supervisionato dall’ILO, per predisporre un programma di risarcimento delle vittime del Rana Plaza inclusivo e trasparente, conosciuto come l’Arrangement, il Donor Trust Fund volontario istituito per raccogliere le donazioni è ad oggi tristemente sotto finanziato. Un anno dopo il crollo i marchi e i distributori hanno contribuito con soli 15 milioni di dollari, appena un terzo dei 40 milioni necessari.
“I grandi marchi internazionali della moda hanno nuovamente fallito nel garantire il rispetto dei lavoratori che producevano per loro.” dichiara Deborah Lucchetti della Campagna Abiti Puliti, “Oggi, violando il diritto dei sopravvissuti e delle famiglie delle vittime del Rana Plaza a ricevere il giusto risarcimento per un disastro che poteva e doveva essere evitato, i marchi europei e nord americani infliggono a migliaia di persone una sofferenza continua, ingiusta e intollerabile. Se poi guardiamo ai profitti realizzati dalla Famiglia Benetton nel 2012” continua Lucchetti “constatiamo che la richiesta di 5 milioni di dollari per il Fondo di risarcimento equivale appena all’1,4% degli utili realizzati da gruppo, una percentuale davvero marginale per un’azienda che deve il suo successo economico anche al lavoro sottopagato e rischioso dei lavoratori bangladesi. Non ci sono scuse per non pagare, le imprese coinvolte devono assumersi le proprie responsabilità, è una questione di diritti e di civiltà.”
Per celebrare il primo anniversario dal crollo, attivisti, cittadini e cittadine in tutto il mondo entreranno in azione al fianco dei familiari delle vittime. In Italia, fra le iniziative di pressione verso le imprese italiane Benetton, Manifattura Corona e Yes Zee in favore della costituzione del Fondo di risarcimento, il 24 aprile saranno organizzati:
Firenze | ore 12: Flash mob in Piazza Santa Trinità a cura di EU-ROPA progetto artistico della Compagnia Insomnia dedicato al tema dei diritti umani nell'industria dell'abbigliamento in collaborazione con Filtcem-CGIL, Mani Tese Firenze, ACU Toscana e Villaggio dei Popoli
Milano | ore 15: Flash mob in Piazza Duomo a cura di Price is Rice in occasione del Fashion Revolution Day e in collaborazione con Abiti Puliti
Treviso | h.10-19: Palazzo dei 300, mostra L'arte del lavoro a cura Ass. culturale Pulperia in cui saranno ospitati immagini e materiali sul Rana Plaza.
Saranno inoltre organizzate iniziative di sensibilizzazione e raccolta firme a sostegno della petizione internazionale verso Benetton in diverse Botteghe del Commercio Equo e solidale.
A Dhaka, lavoratori e sindacalisti ricorderanno con una serie di eventi tutti coloro che hanno perso la vita quel giorno: tra i vari eventi si potrà assistere al racconto delle vittime presso il Worker Solidarity Center a Dhaka e ad una catena umana sul luogo del crollo.
A livello internazionale, l’Asia Floor Wage Alliance, la Clean Clothes Campaign, l’International Labor Rights Forum (ILRF), il Maquila Solidarity Network e il Worker Rights Consortium organizzeranno eventi commemorativi nelle strade dello shopping e in spazi pubblici.
La richiesta di tutti sarà che i marchi che continuano a rifiutarsi di contribuire al Donor Trust Fund facciano dei versamenti significativi e in tempi rapidi. Tra questi le aziende italiane Benetton, Manifattura Corona e Yes Zee. E poi Adler Modermarkte, Ascena Retail, Auchan, Carrefour, Cato Fashions, Grabalok, Gueldenpfennig, Iconix (Lee Cooper), J C Penney, Kids for Fashion, Matalan, NKD e PWT (Texman), tutte aziende che avevano produzioni al Rana Plaza durante il crollo e poco prima.
Liana Foxvog dell’ILRF aggiunge: “Children’s Place, il cui CEO ha guadagnato 17 milioni di dollari lo scorso anno, ha pagato una cifra pari a soli 200 dollari per famiglia. L’azienda considera davvero la vita delle persone così a buon mercato? Devono pagare di più. I bambini rimasti orfani, i lavoratori rimasti senza arti, le famiglie che hanno perso chi portava l’unico reddito, contano su un risarcimento adeguato ai loro bisogni fondamentali”
Il Donor Trust Fund è aperto a donazioni volontarie ed è supervisionato dall’ILO come attore neutrale. “Per raggiungere l’obiettivo dei 40 milioni di dollari è anche necessario che il Governo e gli industriali del Bangladesh aumentino i loro contributi. Parallelamente anche i governi Usa e Ue devono fare passi immediati e concreti per assicurarsi che le aziende dei loro paesi paghino quanto è necessario: esattamente quanto abbiamo chiesto al Governo e alle istituzioni italiane durante il tour con Shila Begum, sopravvissuta del Rana Plaza, lo scorso 1 di aprile durante le audizioni con il sottosegretario al lavoro Teresa Bellanova, la Vice Presidente del Senato Valeria Fedeli, la Presidente della Camera Laura Boldrini e il Presidente della Commissione Diritti Umani Luigi Manconi” ha dichiarato ancora Deborah Lucchetti.
Dal 24 marzo scorso il processo di risarcimento è iniziato e si sta lavorando perché tutti coloro che hanno perso un famigliare o sono rimasti intrappolati nella fabbrica ricevano adeguato risarcimento. “Se mancano i fondi, allora non saremo in grado di fare un buon servizio a queste persone e la situazione si farà molto difficile” ha concluso il Dott. Mojtaba Kazaki, il Commissario Esecutivo dell’Arrangement.
Entra in azione
Firma la petizione per chiedere a Benetton di pagare i risarcimenti alle vittime: aspettano da troppo tempo!
Partecipa ad un evento
Firenze | ore 12: Flash mob in Piazza Santa Trinità a cura di EU-ROPA progetto artistico della Compagnia Insomnia dedicato al tema dei diritti umani nell'industria dell'abbigliamento in collaborazione con Filtcem-CGIL, Mani Tese Firenze, ACU Toscana e Villaggio dei Popoli
Milano | ore 15: Flash mob in Piazza Duomo a cura di Price is Rice in occasione del Fashion Revolution Day e in collaborazione con Abiti Puliti
Treviso | h.10-19: Palazzo dei 300, mostra L'arte del lavoro a cura Ass. culturale Pulperia in cui saranno ospitati immagini e materiali sul Rana Plaza.
Pubblica un tweet sulla vicenda Rana Plaza tra quelli della lista che abbiamo preparato.
Dalla Cina con speranza
Buone notizie dalla Cina: 70 mila operai della Yue Yuen, gruppo che produce scarpe per marchi come Nike, Adidas, Reebok, Puma, Asics, Timberland, sono scesi in lotta per migliori condizioni di lavoro.
Benché il più grande produttore del mondo di scarpe, con 420mila dipendenti, pochi lo conoscono perché è una multinazionale di secondo livello. Una novità della globalizzazione. Un tempo le aziende che detenevano i marchi erano anche imprese produttrici. Oggi, invece, tendono sempre di più a sbarazzarsi del retroterra produttivo per occuparsi dei due estremi della filiera: quella iniziale della progettazione e quella finale del marketing. Quanto alla produzione è relegata ad imprese terziste che producono su contratto, dove la licenza di sfruttamento è più alta: Asia, Africa, America Centrale. Tipica Yue Yuen, un’impresa con casa madre a Taiwan, ma stabilimenti in Cina, Indonesia, Vietnam, Messico e molti altri paesi ancora.
La protesta, iniziata ai primi di aprile, è scoppiata a Dongguan, una cittadina nel Sud della Cina, dove Yue Yuen gestisce vari stabilimenti che complessivamente occupano 70mila lavoratori, per la maggior parte immigrati dalle zone più povere della Cina. Oltre a forme di assunzioni più stabili, i lavoratori chiedono il pagamento dei contributi sociali utili a poter ottenere una pensione, l’assicurazione antinfortunistica, l’assistenza sanitaria. I lavoratori contestano anni di mancato di versamento che ha permesso all’azienda di intascare 117 milioni di euro. Un modo spiccio per realizzare profitti nel tempo della finanza globale che assomiglia molto ai vecchi ladri di polli.
La protesta alla Yue Yuen si aggiunge all’ondata di scioperi che da qualche mese scuote la Cina non solo nel settore calzaturiero, ma anche in quello elettronico e meccanico. Segno che il tempo del lavoro in semischiavitù, tipico dell’inizio della globalizzazione sta passando. E dopo la globalizzazione della produzione sta lentamente arrivando il tempo della globalizzazione dei diritti. Purtroppo non per volontà della politica, tristemente stretta in un abbraccio mortale col mondo degli affari, ma dei lavoratori, che sfidando la repressione, la galera, talvolta perfino la morte, si sono organizzati e oggi stanno raccogliendo dei frutti.
Le proteste in corso nel Sud del mondo ci insegnano che la politica da seguire non è quella di abbassare i nostri diritti, come ci stanno imponendo i governi occidentali tramite provvedimenti tipo il Job’s act, ma di innalzarli con la capacità di estenderli se non a livello mondiale almeno a livello continentale. Se vogliamo evitare che Fiat, Indesit, Electrolux continuino a ricattarci: “o accettate salari più bassi o ce ne andiamo nell’Est europeo”, dobbiamo fare in modo che in tutta Europea valga un livello standard di diritti e di salari che nessuna impresa può oltrepassare. Solo così potremo fermare le aziende sempre con la valigia in mano e potremo ricreare le condizioni per lavori stabili e dignitosi in tutta Europa se non in tutto il mondo.
Il viaggio in Italia delle vittime del #RanaPlaza
Ecco alcuni momenti significativi del viaggio in Italia delle vittime del #RanaPlaza.
Foto del Worker Torur
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Conferenza stampa al presidio
Evento Casa dei Beni Comuni
Rassegna stampa
Presa Diretta - Made in Italy
La Repubblica - Articolo
La Repubblica - Video Conferenza stampa
La Repubblica - Video Intervista a Shila Begum
La Repubblica - Video Intervista Deborah Lucchetti
Il Manifesto - Articolo
La Tribuna di Treviso
Radio 3 - Fahreneit
Rai News - Video Intervista
Sky TG 24 - Intervista Shila Begum
Radio Vaticana
Avvenire - Articolo
TG1 - Video Intervista
Redattore Sociale
Radio Articolo 1 - Intervista a Shila Begum
Radio Popolare Roma - Intervista Shila Begum e Deborah Lucchetti
Il gazzettino - Treviso
Mai più Rana Plaza: in Italia le vittime per chiedere giustizia
Dal 1 al 4 aprile avremo l'opportunità di ospitare in Italia Shila Begum, una lavoratrice bengalese sopravvissuta al crollo del Rana Plaza, il palazzo di otto piani che ospitava 5 fabbriche tessili e che è costato la vita a 1138 persone, e Safia Parvin, segretario generale del National Garment Workers Federation, il principale sindacato tessile del Bangladesh.
L'Italia è solo la prima tappa (scarica il programma) di un più ampio tour europeo organizzato dalla Clean Clothes Campaign e dai suoi partner.
Questo il programma:
Firma la petizione per chiedere a Benetton di pagare i risarcimenti alle vittime: aspettano da troppo tempo!
Martedì 1 aprile - Incontri istituzionali
La delegazione sarà ricevuta tra l’altro dalla Presidente della Camera Laura Boldrini, dal Sottosegretario al Ministero del Lavoro Teresa Bellanova, dalla Commissione diritti umani e dalla Vice Presidente del Senato Valeria Fedeli. Sarà l'occasione per raccontare la loro esperienza, per presentare le proposte e le richieste in termini di sicurezza e rispetto dei diritti umani nelle fabbriche tessili bengalesi e per fare il punto sul tema dei risarcimenti alle vittime del Rana Plaza
Giovedì 3 aprile - 14.30 Presidio a Treviso
Ci sarà un presidio in sostegno delle vittime del Rana Plaza a Treviso in piazza Indipendenza, a partire dalle ore 14.30.
Già numerose le adesioni pervenute: ADL- Cobas, Coordinamento degli studenti medi, Italia Nostra, Mani Tese, Cooperativa Pace e Sviluppo, Prendiamo la parola – TV, Dipingiamoci di donna, ZTL Wake Up!, Fuoriclasse scuola di italiano per stranieri, Associazione per la decrescita sostenibile, WWF Villorba, Associazione Ecofilosofia, Legambiente Circolo Piavenire, Legambiente Circolo Treviso, GIT Banca Etica, Coalizione YA BASTA Marche, Nordest, Emilia Romagna e Perugia, Rete Radié Resch, coordinamento Gas Treviso, Sherwood.it
La diretta dell’evento sarà trasmessa in streaming sul sito www.sherwood.it
Mercoledì 2 aprile - Incontro con i giornalisti
Benetton basta false promesse!
Benetton è stata di nuovo colta in fallo. Un’inchiesta giornalistica ha scoperto che Benetton non ha fornito la lista completa dei suoi fornitori come previsto dall’Accordo sulla prevenzione degli incendi e sulla sicurezza in Bangladesh, nonostante fosse uno dei principali adempimenti richiesti ai firmatari dell’Accordo vincolante. Questo significa che Benetton potrebbe rifornirsi presso fabbriche che non vengono adeguatamente ispezionate, nascondendo questo fatto al pubblico.
Benetton conosce bene i rischi che si corre nell’utilizzare fabbriche pericolose. Prodotti a marchio Benetton sono stati ritrovati tra le macerie del Rana Plaza, il palazzo crollato dove almeno 1.138 persone hanno perso la vita lo scorso 24 aprile 2013. Ma omettere alcune fabbriche dalla lista dei fornitori può mettere a rischio delle vite umane.
Le azioni di Benetton dimostrano che l’azienda non tiene asssolutamente in considerazione le vite dei lavoratori e delle lavoratrici che producono i suoi indumenti. A un anno di distanza dalla tragedia del Rana Plaza, Benetton non ha ancora versato un centesimo nel Rana Plaza Trust Fund, il fondo che sta raccogliendo i contributi per risarcire i feriti e i familiari delle vittime.
Siamo fiduciosi che i promotori dell’Accordo sulla sicurezza inseriranno queste fabbriche nella lista di quelle da ispezionare. Ma Benetton deve cambiare strada. Manda un messaggio a Benetton per ricordargli che la vita dei lavoratori vale e per chiedergli di versare immediatamente 5 milioni di dollari nel Rana Plaza Donors Trust Fund.
Sappiamo che Benetton si preoccupa molto di quello che pensa la gente. Del resto ha firmato l’Accordo sulla sicurezza lo scorso anno solo dopo che una campagna pubblica ha raccolto un milione di firme di persone che gli chiedevano di farlo. Ora Benetton sta ignorando la situazione delle vittime del Rana Plaza. Noi chiediamo che si assuma le proprie responsabilità.
Cara Benetton,
sono sconvolto dall’apprendere che state rifiutando di pagare il risarcimento alle vittime del Rana Plaza e che state cercando di nascondere le vostre fabbriche agli ispettori incaricati dall’Accordo sulla sicurezza. I lavoratori bengalesi che producono i vostri prodotti meritano di più.
E’ tempo di pagare. Vi chiedo di contribuire immediatamente al Rana Plaza Trust Fund con un contributo di 5 milioni di dollari e di assicurarvi che le vittime del Rana Plaza ottengano la giustizia che meritano.
Cordialmente
Firma la petizione per chiedere a Benetton di assumersi le sue responsabilità
Entra in azione
Rana Plaza: per i marchi della moda è ora di pagare! Al via la campagna Pay up!
Oggi mancano esattamente due mesi al primo anniversario del crollo del Rana Plaza, il peggior disastro industriale che ha colpito l’industria tessile, con 1.138 morti e più di 2.000 feriti
Per ricordare quel giorno, la Clean Clothes Campaign e i suoi partners in Bangladesh e in tutto il mondo lanciano la campagna PAY UP! per chiedere a tutti i marchi collegati al Rana Plaza o che si riforniscono in Bangladesh di pagare immediatamente i risarcimenti alle vittime attraverso dei versamenti nel Rana Plaza Arrangement's Donor Trust Fund
Che cos’è il Rana Plaza Arrangement?
Il Rana Plaza Arrangement è un meccanismo innovativo per garantire ai sopravvissuti e ai familiari delle vittime del Rana Plaza il supporto per la perdita del reddito e per le spese mediche di cui hanno disperatamente bisogno.
L’impegno congiunto del Ministero del Lavoro del Governo bengalese, dell’industria tessile locale e internazionale, dei sindacati locali e internazionali e delle organizzazioni non governative, con l’International Labour Organization (ILO) come attore indipendente e neutrale, ha portato all’istituzione di un Donor Trust Fund e ad una gestione centralizzata delle richieste di risarcimento.
Tali richieste saranno inserite in un processo implementato da organizzazioni locali e esperti internazionali che supporterà le vittime e i loro familiari nell’elaborare le richieste, valutare il livello dei pagamenti da effettuare a ciascun beneficiario, intraprendere valutazioni mediche e fornire ulteriore sostegno dove necessario.
Il Donor Trust Fund volontario previsto dall’Arrangement sta raccogliendo le donazioni e inizierà ad erogare i primi pagamenti, non appena sarà stato versato denaro sufficiente.
Servono 40 milioni di dollari entro il primo anniversario del terribile crollo del Rana Plaza, il 24 Aprile.
Cosa chiediamo?
I sopravvissuti e i familiari delle vittime hanno sofferto abbastanza e non dovrebbero rivivere quell’orribile giorno senza essere certi che le loro perdite finanziarie possano almeno essere coperte.
Hanno sofferto ferite terrificanti, perso mariti e mogli, figli e genitori, fratelli e sorelle; ne porteranno i segni fisici e psichici per tutta la vita. Questo non potrà mai essere risarcito. Ma almeno le perdite finanziarie e le spese mediche si.
E ciò deve prima di quell’anniversario.
Chiediamo ai marchi di versare significativi contributi nel Donor Trust Fund, proporzionati ai loro rapporti commerciali col Rana Plaza, con il Bangladesh e alle loro capacità economiche.
Porteremo la campagna di pressione pubblica in piazza, nei centri commerciali, nelle strade di Dhaka e in tutta Europa nei prossimi due mesi per garantire ai sopravvissuti e ai familiari delle vittime che non debbano aspettare ancora per avere i loro risarcimenti.
Aspettano da troppo tempo
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Violenze in Cambogia: 4 morti e 39 feriti. Arrestate 23 persone
Il 2 e 3 gennaio scorsi, in Cambogia, 4 persone sono state uccise e 39 ferite durante la dura repressione messa in campo da polizia ed esercito per soffocare le proteste che dal 24 dicembre 2013 chiedevano un aumento del salario minimo da 80 dollari a 160. La cifra resterebbe comunque lontana dalla soglia del salario dignitoso calcolata dalla Clean Clothes Campaign e dall’Asia Floor Wage Alliance in circa 285 dollari al mese.
23 lavoratori sono stati arrestati: tra loro operai tessili, autisti e il Presidente dell’Independent Democracy of Informal Economy Association (IDEA), Vorn Pao. Alcuni di loro non stavano nemmeno prendendo parte alle manifestazioni.
Due uomini tra gli arrestati hanno bambini appena nati, molti altri hanno lasciato a casa famiglie ignare di cosa accadrà dopo. Yon Sok Chea, di appena 17 anni, e Bou Sarith sono gli unici due lavoratori rilasciati su cauzione. Gli altri 21 sono ancora detenuti nel carcere CC3, noto per le sue condizioni difficili, nel nord della capitale cambogiana Phnom Penh.
Manifestazioni di solidarietà con i lavoratori cambogiani si sono svolte in tutto il mondo: migliaia di cittadini si sono recati davanti alle ambasciate cambogiane da Seoul a Bruxelles, da Hong Kong a Dhaka, da Berlino a Washington. La Clean Clothes Campaign si è unita al coro di voci che chiedono al governo cambogiano di liberare i 23 lavoratori arrestati, cancellando tutte le accuse a loro carico e restituendogli la libertà.
Insieme a molti partner internazionali, la CCC ha mandato lettere di protesta agli ambasciatori e al Primo Ministro Hun Sen.
Chiediamo a tutti i cittadini e le cittadine di sottoscrivere la petizione per chiedere il rilascio immediato dei 21 lavoratori ancora detenuti e la cancellazione dei reati a carico di tutti e 23.
Violenze in Cambogia Le richieste dellla Clean Clothes Campaign
La Clean Clothes Campaign, insieme alle organizzazioni in difesa dei diritti dei lavoratori e a sindacati da tutto il mondo, condanna duramente le violenze verificatesi recentemente in Cambogia ai danni dei lavoratori e delle lavoratrici del tessile.
Venerdì 10 Febbraio inizierà una settimana di mobilitazione internazionale per chiedere al governo cambogiano di mettere fine alla violenza sui manifestanti e di ascoltare la loro richiesta di salario minimo dignitoso.
Le manifestazioni dei lavoratori del tessile, iniziate lo scorso 24 Dicembre con la convocazione di uno sciopero nazionale per chiedere un salario di 160 dollari al mese, hanno avuto un esito drammatico.
Il 3 gennaio, infatti, la polizia ha aperto il fuoco sulla folla di manifestanti uccidendo 4 persone e ferendone molte altre. Molti lavoratori e lavoratrici sono stati picchiati ed arrestati.
Le proteste erano esplose dopo l’annuncio dell’accordo sulla nuova formula per calcolare il salario minimo, che avrebbe dovuto portare gli stipendi mensili a 100 dollari, una cifra del tutto insoddisfacente per condurre una vita dignitosa in quel paese. Secondo i calcoli di alcuni sindacati asiatici e di organizzazioni di difesa dei diritti umani un salario dignitoso che garantisca ad una famiglia un livello di sussistenza in Cambogia dovrebbe aggirarsi intorno ai 394 dollari al mese: quasi 4 volte la proposta di salario minimo. Ben oltre anche la richiesta dei manifestanti, che appare quindi tutt’altro che assurda.
Per trovare una soluzione rapidamente chiediamo ai marchi che si riforniscono in Cambogia e al governo del paese di:
- Porre fine immediatamente all'uso della violenza e alle intimidazioni contro i lavoratori ei loro rappresentanti.
- Rilasciare tutti coloro che sono stati arrestati nelle lotte.
- Rispettare la libertà di associazione e il diritto di sciopero degli operai
- Evitare ripercussioni per i lavoratori e i dirigenti sindacali che hanno partecipato allo sciopero.
- Impegnarsi a riprendere i negoziati di pace sul salario minimo.
- Costringere i responsabili delle violenze a pagarne le conseguenze.
Lettere contenenti le richieste sono già state spedite ai principali marchi che hanno interessi in Cambogia: H&M, Puma, adidas, Mark&Spencer, C&A, Next, Tesco, Inditex, GAP, Walmart, Levi's.
H&M, Gap, Puma, Adidas e Inditex hanno inviato una lettera al governo cambogiano perché metta fine alle violenze.
Sono previste manifestazioni davanti alle ambasciate cambogiane in tutta Europa, nonché la sottoscrizione di una petizione già disponibile online.
Strage di Prato: chi saranno le prossime vittime?
Campagna Abiti Puliti si stringe intorno ai familiari delle vittime della tragedia di Prato, dove 7 persone hanno perso la vita nell’incendio di un capannone sede di un’azienda tessile.
Il parallelo con quanto avvenuto a Dakha in Bangladesh, poco più di un anno fa, quando 112 persone sono morte bruciate vive nella fabbrica Tazreen, aumenta l’indignazione che tali tragedie suscitano subito dopo che accadono. Non solo perché questa volta la macabra conta dei morti avviene a due passi dalle nostre case. Ma soprattutto perché, ora come allora, ci si trova di fronte a disastri che si potevano evitare.
Il fenomeno dei laboratori clandestini, a Prato e non solo, spesso legati alla produzione e al confezionamento di abiti per conto di grandi marchi della moda nazionale e internazionale, è stato denunciato da tempo. Non ci sono alibi per non essere intervenuti prima che una simile tragedia si verificasse.
Al momento non sembra esserci alcun marchio coinvolto nella vicenda con contratti di appalto o subappalto. Ma tutte le verifiche del caso sono ancora in corso.
Le istituzioni da anni sono impegnate nella costruzione di un sistema economico basato sull’ottenimento del profitto in una logica di concorrenza sfrenata. È ora che intervengano per mettere fine a queste condizioni di schiavitù in cui si ritrovano decine di migliaia di persone.
Chiediamo che si inverta la rotta, iniziando ad anteporre i diritti umani e la difesa dei lavoratori agli affari. Tutte le parti in causa devono assumersi le loro responsabilità e dare il proprio contributo a rifondare un patto di civiltà.
Le istituzioni devono ripristinare un sistema pubblico di controllo efficiente per la protezione dei lavoratori nelle fabbriche, reinvestendo in istituti di prevenzione come l’ispettorato del lavoro o l’INAIL, da anni vittime di tagli e ristrutturazioni. È inoltre urgente che il Parlamento emani una legge che obblighi le imprese alla trasparenza sulla filiera produttiva.
Le aziende devono attrezzarsi per garantire il rispetto dei diritti umani in tutta la loro filiera produttiva, corrispondendo ai fornitori prezzi che permettano il pagamento di salari dignitosi e garantendo tempi di consegna adeguati.
L’accordo internazionale raggiunto in Bangaldesh, che prevede ispezioni indipendenti negli edifici, formazione dei lavoratori in merito ai loro diritti, informazione pubblica e revisione strutturale delle norme di sicurezza, studiato per la situazione bengalese, può rappresentare, adeguatamente riadattato al contesto italiano, un valido esempio di assunzione di responsabilità di tutte le parti in causa.
Incendio Tazreen: un anno dopo continua la battaglia per avere giustizia
12 mesi dopo che 112 persone hanno perso la vita restando intrappolate nella fabbrica Tazreen Fashions a Dhaka in Bangladesh, i marchi rifiutano di impegnarsi nel processo di risarcimento ai sopravvissuti e alle loro famiglie.
Il 24 novembre 2012, la Tazreen Fashion, da cui si rifornivano marchi internazionali dell’abbigliamento, è stata avvolta dalle fiamme. Un anno dopo le vittime, i familiari e i sopravvissuti stanno ancora aspettando un pieno e giusto risarcimento.
Fino ad oggi solo C&A si è prodigata per erogare fondi e per sviluppare un processo che ne garantisca la distribuzione alle vittime, e anche Li & Fung ha effettuato pagamenti. Mentre alcuni marchi hanno dichiarato di voler erogare contributi volontari, nessuno ha finora pagato quanto dovuto. Questi marchi comprendono: l’italiana Piazza Italia, Delta Apparel (USA), Dickies (USA), Disney (USA), Edinburgh Woollen Mill (UK), El Corte Ingles (Spagna), Enyce (USA), Karl Rieker (Germania), KiK (Germania), Sears (USA), Teddy Smith (Francia), and Walmart (USA).
Un anno dopo l’incendio, la Clean Clothes Campaign e l’International Labor Rights Forum chiedono a tutti i marchi coinvolti nel caso Tazreen un intervento immediato e urgente per:
- impegnarsi a lavorare insieme con gli altri marchi e stakeholders per garantire un pieno e giusto risarcimento per tutte le vittime dell’incendio alla Tazreen, sulla base dello schema (detto Arrangement) messo a punto per il caso Rana Plaza;
- impegnarsi a fornire un congruo contributo economico affinché il fondo sia completamente finanziato.
“I sopravvissuti e le famiglie dei deceduti hanno perso l’unica fonte di reddito, devono affrontare ingenti spese mediche e non sono in grado di trovare un nuovo lavoro, anche per i traumi psicologici subiti.“ dichiara Deborah Lucchetti della Campagna Abiti Puliti. “Se le imprese coinvolte continuano a ritardare il processo di risarcimento e a non assumersi alcuna responsabilità, condannano alla povertà e all’insicurezza le vittime di una tragedia che poteva essere evitata”
CCC e ILRF sottolineano in particolare il ruolo di Walmart che non ha compiuto alcuna azione concreta pur essendo il principale acquirente della fabbrica. “Come principale distributore del mondo, Walmart ha una responsabilità maggiore nel garantire la sicurezza delle persone che producono per il suo circuito. La scusa che si trattasse di un sub-appalto non autorizzato non è sufficiente per declinare ogni responsabilità. Non intervenendo per risarcire le vittime dell’incendio, Walmart mostra totale disprezzo per la vita umana” ha dichiarato Liana Foxvog dell’International Labor Rights Forum.
Alcune famiglie delle vittime sono sottoposte ad una doppia ingiustizia: da una parte hanno perso un familiare e dall’altra si vedono negare l’esistenza stessa del defunto dai funzionari pubblici. Ad un anno di distanza, infatti, continua la battaglia per l’identificazione dei cadaveri, che impedisce ai parenti di accedere al risarcimento.
Le cifre pagate dal governo bengalese, dal marchio C&A, dall’azienda Li & Fung e dal Bangladesh Garment Manufacturers & Exporters Association (BGMEA) sono molto lontane dalla quantità di denaro necessaria e sono stati distribuiti senza un’adeguata e sufficiente trasparenza.
Dal giorno del tragico crollo del Rana Plaza nell’Aprile di quest’anno, è stato elaborato dai marchi dell’abbigliamento e dagli altri stakeholders , un metodo per calcolare e distribuire l’esatto ammontare del risarcimento per la perdita degli stipendi e per le cure mediche noto come l’Arrangement. Questo meccanismo è stato costruito utilizzando le linee guida fornite dalla Convenzione 121 dell’International Labour Organization sull’Employment Injury Benefits e su modelli già utilizzati in precedenti tragedie accadute nell’industria tessile bengalese.
(2013) REPORT - Tutto quello che la moda non dice
Mentre migliaia di lavoratori in Bangladesh continuano a lottare per condizioni di lavoro sicure, la Clean Clothes Campaign lancia l’Urgent Appeal Annual Review, un rapporto interattivo che mostra in che modo l’organizzazione supporta questi e tutti gli altri lavoratori che combattono per un lavoro più sicuro, per il salario dignitoso e per la libertà di associazione sindacali.
Il rapporto annuale Facts Behind Fashion del 2012 presenta le vere storie accadute all’interno dell’industria tessile di tutto il mondo. La versione online permette ai visitatori di scoprire le condizioni in cui si trovano alcune delle fabbriche da cui provengono i loro abiti e le modalità con cui la CCC lavora insieme ai lavoratori, alle organizzazioni locali e ai sindacati per fermare le violazioni dei diritti dei lavoratori.
La CCC è intervenuta nel 2012 su 30 azioni urgenti per supportare lavoratori e lavoratrici tessili. Più di 38 aziende sono state chiamate a rispondere delle condizioni critiche degli operai coinvolti.
Le mappe e i casi mostrano le violazioni che la CCC ha trattato in tutto il 2012. I tipi di violazioni sono stati suddivisi in quattro categorie:
- libertà di associazione;
- stipendi e contratti;
- salute, incendi e sicurezza;
- persecuzione e altre minacce.
Le altre minacce comprendono le discriminazioni di genere e altre incredibili violazioni come persecuzioni e omicidi. Il 2012 ha visto inoltre alcuni dei peggiori incendi di fabbriche che hanno colpito il settore tessile negli ultimi anni con 398 lavoratori e lavoratrici morti intrappolati nella Ali Enterprises in Pakistan e nella Tazreen Fashions in Bangladesh. Il rapporto annuale contiene anche una timeline, composta da report, nuovi articoli, campagne e video, relativi distributore tedesco KIK cliente di entrambe queste fabbriche.
Durante quest’anno ci sono stati anche molti momenti positivi, come la vittoria nel caso Kizone ad inizio 2013, quando ADIDAS dopo un’enorme pressione pubblica ha accettato di contribuire al fondo di risarcimento di 1,8 milioni di dollari per i 2800 lavoratori e lavoratrici rimasti senza lavoro dopo la chiusura della fabbrica.
Molte delle azioni urgenti che hanno avuto successo non solo sono state importanti per i lavoratori a livello locale, ma hanno creato un precedente con un enorme potenziale di ricaduta per rivendicazioni future su scala globale: queste vittorie possono servire da ispirazione per tutti quei lavoratori che si trovano ad affrontare problemi simili in altri luoghi di lavoro e in altri paesi.
(2013) REPORT - Aspettando ancora: le vittime del Rana Plaza in attesa dei risarcimenti
Sei mesi dopo il crollo del Rana Plaza, il più grande disastro della storia nell’industria dell’abbigliamento, un nuovo report della Clean Clothes Campaign e dell’International Labor Rights Forum esamina i progressi che sono stati compiuti finora sul tema dei risarcimenti verso i lavoratori colpiti da questa tragedia e le loro famiglie. CCC e ILRF sottolineano che, seppur alcuni passi avanti siano stati realizzati, ancora non è stato fatto abbastanza per evitare che i lavoratori e le lavoratrici feriti in maniera permanente precipitino in una situazione di indigenza irreversibile.
CCC e ILRF hanno sostenuto il sindacato internazionale IndustriALL nell’obiettivo di riunire intorno ad un tavolo i marchi internazionali che si rifornivano presso il Rana Plaza e tutte le altre parti in causa per discutere del processo di risarcimento. Il primo incontro, tenutosi lo scorso settembre a Ginevra e presieduto dall’ILO, ha prodotto un “Accordo” atto a predisporre un meccanismo di calcolo e di distribuzione dei risarcimenti alle famiglie del Rana Plaza e per istituire un fondo nel quale i marchi possono versare i propri contributi.
Ci sono segnali promettenti che questo Accordo, predisposto dal Rana Plaza Compensation Coordination Committee formato dai marchi, dal governo bengalese, dal BGMEA, da sindacati e Ong locali e internazionali, possa trasformare le richieste tanto attese di un risarcimento in realtà. Tuttavia, CCC e ILRF avvertono che resta vacante l’impegno della maggior parte dei marchi coinvolti nel disastro a contribuire ai fondi così disperatamente attesi.
Il report inoltre distingue tra i marchi che si stanno assumendo le loro responsabilità e quelli che non lo stanno facendo. Primark e Loblaw vengono segnalati per il loro impegno nel fornire i primi aiuti e, in particolare Primark, per aver definito un processo di distribuzione alle famiglie colpite. Queste due aziende, insieme a Benetton, finalmente sedutasi al tavolo negoziale multistakholder, e El Corte Ingles fanno parte del Coordination Committee. Mentre Inditex, Bon March e Mascot hanno segnalato la loro disponibilità a contribuire al fondo stabilito dall’Accordo.
A tutti gli altri brand collegati al Rana Plaza, invece, gli estensori del report chiedono di impegnarsi per aderire all’Accordo, per contribuire al fondo e per garantire che il risarcimento sia pieno e giusto. Questi marchi sono: Adler Modemärkt (Germania), Auchan (Francia), Camaieu (Francia), Carrefour (Francia), Cato Fashions (US), Children’s Place (US), LPP (Polonia), Iconix (US), JC Penney (US), Kids for Fashion (Germania), Kik (Germania), Mango (Spagna), Manifattura Corona (Italia), Matalan (UK), NKD (Germania), Premier Clothing (UK), Store 21 (UK), Texman (Danimarca), Walmart (US), YesZee (Italia), C&A (Germania/Belgio), Dress Barn (US), Gueldenpfennig (Germania) e Pellegrini (Italia).
La pubblicazione mette in evidenza anche il legame tra salari da fame e sicurezza, sottolineando come una paga bassa possa costringere le persone a continuare a lavorare in edifici non sicuri.
Il rapporto conclude, infine, con una serie di raccomandazioni da seguire per soddisfare i bisogni urgenti dei lavoratori colpiti dai recenti disastri e delle loro famiglie e per garantire riforme sostenibili per il settore da realizzare nel breve termine.
Il sogno di Nupur: finire la scuola (Bangladesh)
Prima di iniziare a lavorare in una fabbrica tessile, Nupur, 19 anni, viveva in un villaggio e frequentava la scuola. Purtroppo ha dovuto smettere al 5° grado. I suoi genitori non riuscivano più a permettersi di pagare le tasse scolastiche.
Nupur e suo padre sono le uniche fonti di sostegno per tutta la famiglia. Ma suo padre non può lavorare troppo a lungo a causa di una malattia cronica. Di fatto la famiglia si affida allo stipendio da lavoratrice del tessile di Nupur.
Il sogno di Phalla: risparmiare per il suo atelier personale (Cambogia)
Phalla guadagnava 120 dollari al mese, compreso di straordinari. Si prendeva cura dei suoi genitori ammalati e cercava di curare i suoi acciacchi. Il suo sogno era di mettere da parte un po’ di denaro per studiare e aprire un suo atelier, ma ci ha raccontato che per una lavoratrice tessile risparmiare è impossibile. “Non riesco mai a risparmiare denaro. Se lo facessi i miei genitori morirebbero e io morirei con loro”.
Il sogno di Ratna: una gravidanza sicura (India)
Ratna era incinta di otto mesi e lavorava con un contratto a Bangalore quando ha cominciato ad avere le doglie. Non ha avuto altra scelta che andare a lavorare lo stesso visto che era giorno di paga e non poteva permettersi di perdere il suo salario - se lei non fosse stata presente avrebbe dovuto aspettare fino alla fine del mese per ricevere lo stipendio.
I dolori peggiorarono intorno alle 10 del mattino. Avvicinò il supervisore per chiedergli il permesso di andare via, ma le fu risposto che doveva rivolgersi al capo. Riuscì ad andare via solo alle 12 e 30, ma perse altro tempo a causa dei controlli delle guardie di sicurezza. Una volta uscita riuscì a camminare a malapena per 10 metri e alla fine partorì il suo bambino sul marciapiede.
Purtroppo non riuscendo a tagliare il cordone ombelicale a causa della mancanza di un’adeguata assistenza sanitaria, il bambino morì prima ancora che Ratna potesse raggiungere la sua casa
Il sogno di Salong: un bagno sicuro
“La stanza è minuscola (2m x 3m) e brutta. Abbiamo solo una stuoia, una zanzariera e una stufa a gas per tutti e quattro. Guadagno 80 dollari al mese. Paghiamo 40 dollari al mese per questa stanza - ognuno paga 10 dollari - elettricità e acqua inclusi. È molto, ma siamo fortunati perché il padrone di casa ha installato un bagno annesso alla nostra camera. Ci fa sentire più sicuri ".