(2010) Rilasciati su cauzione gli attivisti del BCWS in Bangladesh
Vorremmo ringraziare tutti coloro che hanno sostenuto il Bangladesh Center for Worker Solidarity (BCWS), e hanno contribuito alla liberazione di Kalpona, Babul e Aminul. Si tratta tuttavia solo del primo passo verso la giustizia per gli imputati. Essi infatti devono ancora affrontare le denunce mosse contro di loro dal governo. Inoltre, la registrazione del BCWS come ONG non è stata ancora ripristinata.
Ulteriori approfondimenti (in inglese)
Restate sintonizzati per seguire gli sviluppi e eventuali richieste di intervento
(2010) Continuano le violenze contro i lavoratori della Viva Global
Anwar Ansari, sindacalista presso la Viva Global, fornitore indiano della grande catena di distribuzione nordeuropea Marks &Spencer, è stato liberato nella notte di mercoledì 25 agosto dopo aver passato un giorno intero nelle mani dei suoi rapitori, picchiato a sangue e minacciato di morte. Mentre Anwar Ansari veniva prelevato con la forza ai cancelli della fabbrica, sedici lavoratrici subivano un brutale pestaggio. Alla Viva Global di Gurgaon sono in atto da tempo agitazioni per migliori condizioni di lavoro.
I lavoratori della Viva Global sono stati aggrediti da energumeni armati di bastoni e mazze da hockey all'arrivo in fabbrica per l'inizio del turno di lavoro, alle 9,30 di mattina di mercoledì 25 agosto. Uno degli aggressori è stato identificato nell'intermediario che reclutava manodopera per l'azienda. Si tratta di un atto intimidatorio, di particolare gravità, diretto a stroncare la lotta che i lavoratori conducono da mesi contro una lunga serie di abusi: licenziamenti illegali e mirati, straordinari obbligatori ed eccessivi, retribuzioni al di sotto dei minimi di legge, abusi fisici e verbali, mancato pagamento dei contributi previdenziali, rifiuto di fornire acqua potabile.
Nelle ultime settimane sono aumentati i licenziamenti, le minacce e la violenza fisica. Lunedì 23 agosto, funzionari aziendali hanno tentato di impedire ai lavoratori di entrare in fabbrica. Quello stesso giorno si è tenuto un incontro fra la direzione della Viva Global, il ministero del lavoro e il sindacato Garment and Allied Workers Union (GAWU), che si è concluso con un accordo in base al quale i licenziamenti avrebbero dovuto essere ritirati e ripristinato un clima di confronto civile. Dopo i fatti di mercoledì, i lavoratori della Viva Global e un gruppo di sostenitori hanno inscenato proteste fuori dai cancelli della fabbrica. La presidente del sindacato di fabbrica, Annanya Bhattacharije, ha iniziato uno sciopero della fame, interrotto solo dopo la liberazione di Anwar Ansari.
Scrivi alla Viva Global per chieder di far cessare immediatamente ogni forma di violenza contro i membri del sindacato e di reintegrare i lavoratori licenziati come previsto dal contratto firmato con il ministero del lavoro
(scrivi nell'oggetto: Stop violence against Viva Global workers)
(2010) Arrestati Kalpona Akter e Babul Ahkter del BCWS
Il BCWS è una delle più autorevoli organizzazioni che operano in difesa dei lavoratori dell'abbigliamento, la principale industria del Bangladesh, conducendo attività di training rivolte ai lavoratori e di advocacy pubblico e legale per migliori condizioni di lavoro nel settore. Kalpona Akter, direttrice esecutiva del BCWS, è un'ex bambina lavoratrice. Babul Ahkter è il direttore esecutivo della Federazione dei lavoratori dell'abbigliamento e dell'industria del Bangladesh. L'arresto, basato sull'accusa infondata di aver fomentato disordini, si inquadra nella strategia del governo di trovare facili capri espiatori fra le organizzazioni per i diritti umani piuttosto che affrontare alla radice le vere cause delle agitazioni operaie, ovvero le miserabili condizioni di lavoro nel settore. Con un salario di 20 centesimi di dollaro all'ora il Bangladesh detiene il record della forza lavoro meno retribuita fra i maggiori produttori mondiali di abbigliamento. L'incuria e l'indifferenza per la sicurezza dei lavoratori è all'origine di numerosi incidenti mortali causati da incendi e crolli di fabbriche. L'arresto dei dirigenti di BCWS arriva al termine di una serie di atti repressivi condotti dal governo contro l'organizzazione, che il 3 giugno scorso si è vista revocare lo status di ong, confiscare i beni e bloccare i conti correnti. Meno di due settimane dopo, un membro dello staff, Aminul Islam, è stato trattenuto dalle forze di sicurezza e percosso gravemente prima di riuscire a fuggire.
(2010) Esponenti del BCWS in Bangladesh temono per la propria vita
Dopo aver annunciato il 29 luglio la sua offerta per l’aumento dei minimi salariali, il governo del Bangladesh ha fatto sapere che non avrebbe tollerato oltre il clima di “anarchia” che si sarebbe instaurato nell’industria tessile al culmine di un periodo di violente agitazioni sindacali. La proposta di portare a 3 mila taka (32 euro) le retribuzioni mensili degli addetti del settore non soddisfa tuttavia le richieste dei lavoratori che continuano a protestare per le strade, incuranti dei mandati di arresto che sono stati emessi in questi giorni a centinaia contro di loro e contro diversi esponenti di organizzazioni non governative.
La repressione ha colpito in particolare, con estrema durezza, il BCWS, una delle più autorevoli organizzazioni a difesa dei diritti dei lavoratori, accusata in un documento ufficiale governativo di “aver fomentato disordini e agitazioni nel settore dell’abbigliamento”. Una vera e propria caccia all’uomo, ad opera di diversi settori degli apparati di polizia, si è scatenata contro esponenti e membri dello staff del BCWS, con pestaggi e intimidazioni nei confronti di familiari e colleghi, e tentando di estorcere con l’inganno informazioni utili per rintracciare il luogo dove hanno trovato rifugio. Il personale del BCWS preso di mira dalle autorità ha buoni motivi per temere per la propria sicurezza e per quella di familiari e colleghi, e corre seri rischi di subire una detenzione illegale e un trattamento disumano e degradante per mano delle autorità.
Scrivete (ancora una volta) alle autorità del Bangladesh per chiedere che siano ritirate le denunce penali e garantita protezione ai leader dei lavoratori sotto attacco. Poiché ci sono fondati motivi per ritenere che un’azienda in particolare, la Nassa Global Wear company, sia coinvolta nella repressione verso il BCWS, vi chiediamo di inviare un messaggio al titolare del Nassa group per condannare il suo comportamento.
(scrivete nell’oggetto della lettera al governo: Withdraw criminal cases against BCWS
scrivete nell’oggetto della lettera al Nassa group: Stop harmful actions against BCWS)
Proposta governativa per i nuovi minimi salariali.
Il 30 luglio il governo del Bangladesh ha annunciato di voler portare il salario minimo mensile a 3 mila taka (32 euro) con decorrenza 1. novembre 2010. Nella somma proposta verrebbero calcolati 2 mila taka di paga base, 800 taka di contributo per l’affitto dell’alloggio e 200 taka per l’assicurazione sanitaria. La retribuzione per gli apprendisti salirebbe a 2.500 taka (27 euro) contro gli attuali 1.200 taka (13 euro).
L’annuncio dei nuovi minimi ha riacceso le proteste dei lavoratori che hanno affrontato le forze dell’ordine in violenti scontri per le strade cui sono seguiti numerosi arresti e migliaia di denunce, spesso presentate in modo anonimo. La stampa ha riportato dichiarazioni governative secondo cui all’origine dei disordini ci sarebbero “provocatori”, “sabotatori” e perfino “terroristi” che istigherebbero i lavoratori alla rivolta, un modo per sminuire l’importanza delle istanze che essi esprimono.
Il 31 luglio un quotidiano locale ha pubblicato una lista di dieci persone ricercate dalle autorità in relazione ai disordini, fra queste Kalpona Akter, Babul Akhter del BWCS e un consulente sindacale, Montu Ghosh, quest’ultimo arrestato la sera del 30 luglio. Gli altri leader sindacali citati nell’articolo sono Mahbub Islam, Bazlur Rashid Feruz, Moshrefa Mishu, Sultan Bahar, Nasim Nasrin, Ruhul Amin e Abul Hossain.
La causa immediata della revoca inflitta al BCWS dello stato giuridico di ong potrebbe ricollegarsi al sostegno offerto a un gruppo di lavoratori impegnati nel dare vita a un sindacato indipendente in una particolare fabbrica di abbigliamento, la Nassa Global Wear. I lavoratori si erano rivolti al BCWS nell’aprile scorso per chiedere assistenza nella risoluzione di una vertenza con i titolari dell’azienda, ufficiali dell’esercito in congedo, che potrebbero aver usato la loro influenza politica per far revocare al BCWS la registrazione come ong. A riprova di questo c’è il fatto che i dirigenti della Nassa erano stati in grado di informare i lavoratori il 6 giugno dell’imminente chiusura del BCWS, quattro giorni prima che il BCWS ricevesse dagli uffici competenti la notifica ufficiale della cancellazione.
Nassa Global Wear produce per diversi marchi europei e nordamericani, fra i più importanti Wal-Mart, Carrefour, Tesco e H&M. BCWS riferisce di aver discusso del caso con funzionari di Wal-Mart in Bangladesh.
(2010) Te la cavi con gli enigmi?
Prova a risolvere quello della sindone. Pubblichiamo la lettera aperta di Daniela Fossat di Bilanci di Giustizia di Torino pubblicata oggi sul "Sole 24 Ore NordOvest" per sollecitare una riflessione pubblica sui criteri di selezione degli sponsor da parte di Enti Pubblici come il Comune di Torino ed Enti ecclesiastici come la Diocesi la Torino in occasione di eventi fondamentali dal grande significato simbolico quale la prossima ostensione della Sindone a Torino.
La lettera su Carta e su La Stampa
Mystery after mystery è il titolo della serie animata per ragazzi che racconta misteri e curiosità sulla Sindone. Da marzo 2009 il mistero che mi appassiona è quello relativo agli sponsor della Sindone. Acquistare è sempre un atto morale oltre che economico. Per questo ho cercato un confronto con le istituzioni ecclesiastiche e civili quando ho saputo che BasicNet, attraverso uno dei suoi marchi, era considerato un potenziale sponsor della Sindone. Inizialmente mi fu detto che si trattava di una voce infondata e che si sarebbero cercati partner affidabili dal punto di vista della responsabilità sociale d’impresa.
Il punto è che il gruppo BasicNet di Marco Boglione è da anni all’attenzione delle campagne di pressione internazionali – come la maggior parte dei marchi dell’abbigliamento sportivo in generale – a causa delle condizioni di lavoro dei subfornitori, per lo più imprese che operano in Cina: salario medio 2 dollari al giorno, un po' di riso e poco altro, turni di lavoro massacranti e, ovviamente, nessuna libertà sindacale. BasicNet è stata oggetto di pressione perché produceva in Birmania: a oggi non credo che produca più in Birmania («stop tecnico», fu definito da Boglione, proprio in un incontro pubblico qui a Torino), ma dove siano prodotte le magliette Robe di Kappa è difficile saperlo: infatti, al contrario di Nike, la lista dei fornitori di BasicNet non è pubblica.
Così – quando a gennaio è diventata ufficiale la sponsorizzazione della Ostensione da parte di BasicNet attraverso il marchio Kway – mi sono addolorata e dispiaciuta. Ho cercato di capire il mistero della sponsorizzazione: in un franco dialogo con l’assessore alla Cultura di Torino Fiorenzo Alfieri, che è stato estremamente disponibile a ricevere me accompagnata da Deborah Lucchetti, portavoce della Campagna Abiti Puliti, presente il responsabile della comunicazione dell’Ostensione, Marco Bonatti, ho capito che si è trattato di una "scivolata". L’emergenza economica di Torino, legata a questa crisi congiunturale ha portato all’Ostensione attraverso l’incontro di due diverse necessità: la diocesi che saluta il cardinale Poletto (il quale lascia l’incarico per raggiunti limiti di età) e la Città che, attraverso l’evento Ostensione, cerca un volano economico attraverso il turismo. Con la crisi, l’Ostensione viene allestita con mezzi inferiori alla precedente e anche il sostegno degli imprenditori non è tale per cui si stia a guardare da dove vengano gli aiuti: e così accadrà ai volontari di ricevere la giacca Kway e ai giornalisti di ricevere lo zainetto.
Aderendo la diocesi al "Coordinamento stili di vita", forse, si sarebbe potuto avviare una riflessione critica e rinunciare a zainetti e giacche a favore, magari, di magliette del commercio equo. Non è andata così. Come credenti e consumatori attenti, alla luce dell’enciclica Caritas in veritate che proprio di questi temi tratta, credo dunque che da questa "scivolata" possiamo trarre uno spunto per camminare verso un economia di giustizia. E quindi chiedere alla Diocesi e al Comune di Torino, di indirizzare i propri sforzi anche "educativi" nei confronti di imprenditori considerati sensibili, affinché tutta la filiera sia resa trasparente e rispettosa dei diritti dei lavoratori e dell'ambiente: sempre più norme indicano una responsabilità di filiera tecnica, oltreché etica, per gli imprenditori.
Perciò io vorrei chiedere a BasicNet, attraverso le pagine de «Il Sole 24 Ore NordOvest» di farsi carico di piccoli passi: pubblicazione elenco dei fornitori e localizzazione; dialogo con la campagna internazionale Clean Clothes. Sarà possibile?
(2010) Repressione del governo contro il BCWS in Bangladesh
Il governo ha spogliato il BCWS del suo status di Ong all'inizio di giugno 2010, accusandolo di alimentare disordini nelle fabbriche di abbigliamento. Il governo aveva inoltre ordinato la confisca dei suoi beni e il congelamento del suo conto in banca. Due settimane dopo, un membro del personale BCWS è stato arrestato da agenti dei servizi segreti della sicurezza nazionale. E’ stato duramente picchiato prima di riuscire a fuggire.
Il BCWS è una organizzazione per i diritti del lavoro di fama internazionale che sta portando avanti il suo legittimo lavoro. Non ci sono prove che la colleghino ai disordini che hanno scosso il settore tessile per diversi mesi. Piuttosto il corso degli eventi suggerisce che questo giro di vite contro il BCWS possa essere accaduto sotto la pressione di una fabbrica di abbigliamento in cui i lavoratori stanno cercando di formare un sindacato indipendente.
Nelle ultime settimane migliaia di lavoratori tessili sono scesi in piazza per chiedere di triplicare il salario minimo a 27 centesimi di euro all'ora. Accusando il BCWS di " fomentare disordini e agitazioni nel settore dell'abbigliamento," il governo esplicita che non è disposto a prendere sul serio le lotte e le rivendicazioni dei lavoratori, che sopravvivono con stipendi da fame nonostante le lunghe ore di lavoro per produrre al servizio dei grandi marchi internazionali.
Il BCWS e I lavoratori tessili chiedono il vostro aiuto per proteggere i loro diritti e ottenere un salario dignitoso. Vi preghiamo di inviare una e-mail oggi stesso al governo del Bangladesh chiedendo loro di ripristinare lo status giuridico del BCWS e di sostenerlo nel lavoro vitale che sta facendo per i diritti dei lavoratori tessili del paese.
Cos'è il Bangladesh Center for Worker Solidarity?
Il Bangladesh Center for Worker Solidarity (BCWS) è stato fondato nel 2001 da due ex-giovani lavoratori tessili in Bangladesh. Il loro obiettivo è promuovere i diritti dei lavoratori e "stabilire un'atmosfera positiva nel luogo di lavoro per aumentare la produttività e contribuire all'economia nazionale." Organizzazione non governativa e apartitica, il BCWS è ampiamente conosciuto per le ricerche autorevoli sul rispetto dei diritti del lavoro nelle fabbriche di abbigliamento ed è impegnato nella ricerca di soluzioni costruttive per correggere le violazioni dei diritti dei lavoratori. Il BCWS lavora nel campo della sensibilizzazione in materia di diritti del lavoro, della formazione alla leadership e della risoluzione dei conflitti. Inoltre propone workshop gestionali di medio livello, gestisce una scuola serale e un asilo nido modello per i figli dei lavoratori tessili. Grazie al lavoro del BCWS, molti lavoratori possono godere di benefici legali, compreso il congedo per maternità, ed esercitare il diritto di fondare e aderire ad associazioni dei lavoratori.
Molestie, percosse ed estorsioni
Il BCWS combatte da lungo tempo contro la repressione del governo del Bangladesh e la sorveglianza delle forze di sicurezza che controllano le loro linee telefoniche, i loro messaggi di posta elettronica, e talvolta i loro uffici. Ma l'attuale giro di vite è il più duro mai visto, e minaccia l'esistenza stessa del BCWS, mettendo il personale e i responsabili organizzativi in grave pericolo fisico.
Quando il 3 giugno del 2010, il NAB - ufficio del governo del Bangladesh, ha annullato la registrazione del BCWS come ONG, l’ha privato del suo diritto legale di esistere e funzionare. Allo stesso tempo, il direttore generale della NAB ha ordinato ai funzionari del governo di sequestrare l'ufficio del BCWS e i suoi beni e ha inoltre incaricato il direttore della banca di chiudere il conto bancario estero per le donazioni, impedendogli così di proseguire il lavoro finanziato dai donatori internazionali. Un quotidiano ha riferito che il governo sta per preparare "un elenco delle erogazioni liberali in valuta e degli mobili e immobili acquistati con donazioni estere per portarli sotto il controllo governativo”
Il 16 giugno 2010 alle 01:50 del pomeriggio ora locale, il membro dello staff Aminul Islam è stato trattenuto presso gli uffici del Direttore del Lavoro mentre stava arrivando per un incontro programmato con l'Ispettore Capo delle Imprese per discutere delle proteste dei lavoratori in corso nelle fabbriche di abbigliamento di proprietà del presidente dell’associazione dei produttori ed esportatori di abbigliamento (BGMEA). Alla riunione erano stati invitati anche 30 lavoratori tessili, quattro altri membri del personale di BCWS e due rappresentanti del BGMEA. L'Ispettore Capo delle Imprese ha riferito di aver ricevuto un permesso speciale dal Ministero del Lavoro per tenere la riunione, nonostante il fatto che il BCWS non era più riconosciuto come soggetto giuridico.
Mentre il signor Islam e gli operai stavano salendo le scale dell’ufficio del Direttore, 30-35 poliziotti del National Security Intelligence (NSI) sono arrivati da un ingresso posteriore e il signor Islam è stato arrestato insieme a tre lavoratori. Secondo la testimonianza di Islam, egli è riuscito a fuggire a tarda notte dello stesso giorno mentre veniva trasportato in un altro distretto. Islam riferisce che gli ufficiali dell’NSI l’hanno bendato, picchiato e minacciato di ucciderlo nel tentativo di estorcere falsa testimonianza contro il BCWS. "Perché hai fermato il lavoro nelle fabbriche tessili?" hanno chiesto gli ufficiali del NSI a Islam. "Se dirai che Babul e Kalpona (leader del BCWS) ti hanno chiesto di fermare il lavoro nelle fabbriche, ti libereremo." Quando il Islam ha risposto di non aver mai detto ai lavoratori di smettere di lavorare e che Babul e Kalpona non avrebbero "mai sostenuto attività illegali o richieste illecite " è stato picchiato. "Mi hanno colpito agli arti. Le braccia, le ginocchia,le articolazioni erano i loro obiettivi. " La testimonianza di Islam continua in strazianti dettagli, descrivendo le percosse e le minacce di ucciderlo e lasciare orfani i suoi figli, coprendo poi l’omicidio con un incidente. Islam è esausto alla fine della sua testimonianza. "Ora sto vivendo con un’ansia estrema," dice. "Io non so nemmeno che cosa dovrei fare adesso. Non riesco a camminare. Non posso neanche muovermi a causa del dolore. Non riesco a dormire. Gli incubi di tortura non mi lasciano dormire ".
Continua la repressione .
La fuga di Islam dagli ufficiali NSI il 16 giugno non segna la fine di questa crisi per il BCWS. Come rivela la sua testimonianza, i veri obiettivi delle forze di sicurezza sono i leader della BCWS che hanno lavorato instancabilmente per sostenere i diritti dei lavoratori negli ultimi anni. Il 2 luglio il BCWS ha riferito che il loro personale era spaventato ma continuava a recarsi al lavoro, nonostante le minacce da parte della polizia di sicurezza. A causa della situazione, gli è stato anche aumentato l’affitto del 60%, mentre Islam non è ancora tornato a casa, ma è riuscito finalmente a vedere la moglie e i figli. Il 22 luglio il BCWS ha riferito che "il nostro telefono è ancora sotto controllo, noi siamo seguiti e riceviamo numerose visite e telefonate dai servizi di sicurezza”. Il personale del BCWS e i suoi leader sono a rischio di detenzione illegale e possibili maltrattamenti da parte delle autorità. Al momento lo status legale del BCWS non è stato ripristinato, anche se il governo non ha ancora cessato la loro attività.
Perché il BCWS è sotto attacco?
C’è la responsabilità di una impresa dietro ai fatti accaduti?
La causa immediata della cancellazione dello status giuridico BCWS sembra essere correlata all’attività di sostegno del BCWS verso i lavoratori che stanno tentando di formare una sindacato indipendente in una particolare fabbrica di abbigliamento. Dopo le minacce nei confronti dei dirigenti sindacali, nel mese di aprile 2010 i lavoratori hanno contattato il BCWS, per ricevere sostegno e aiuto per risolvere il conflitto in fabbrica.
I proprietari dell'azienda sono ufficiali militari in pensione, che possono avere usato la loro influenza politica per fare revocare al BCWS la registrazione come Ong. Mentre il NAB non ha notificato ufficialmente la cancellazione al BCWS fino al 10 giugno, I manager della fabbrica in questione sapevano tutto ed hanno informato i lavoratori il 6 giugno, quattro giorni prima della notifica ufficiale, circa la imminente chiusura del BCWS.
Il 19 giugno, tre giorni dopo che Islam è stato arrestato e percosso dalla polizia di sicurezza nazionale, il management di questa fabbrica ha sporto denuncia penale nei confronti di due membri del personale BCWS, compreso il Islam e 57 lavoratori, sostenendo che avevano picchiato i dirigenti, commesso atti vandalici in fabbrica e sottartto beni di proprietà aziendale. In questo momento, il BCWS segnala tensioni continue in fabbrica, tra cui il pestaggio dei lavoratori da parte di "scagnozzi locali" dentro e fuori il loro posto di lavoro. Il 22 luglio, si stima che 40 lavoratori siano stati feriti in questa fabbrica, secondo le notizie trasmesse dalla TV nazionale.
Minare la legittimità e la credibilità delle richieste dei lavoratori per salari più elevati.
Colpire il BCWS serve a banalizzare le richieste dei lavoratori per migliori condizioni di lavoro e salari più alti. Il salario minimo legale in Bangladesh è il più basso al mondo; con 18 euro al mese (1,662.50 taka del Bangladesh) I lavoratori tessili sono costretti a sopravvivere con salari da fame.
Secondo un’ong di ricerca del Bangladesh, il "requisito minimo per una vita dignitosa" in città come Dhaka e Chittagong è di 1.805 calorie al giorno. Nel 2006, quando i 18 euro al mese di salario minimo sono stati adottati, l’Ong ha stimato che il costo mensile, per persona, per il cibo sufficiente a garantire tale assunzione di calorie era di 15 euro. Dal 2006, i prezzi di quasi tutti gli alimenti indispensabili sono raddoppiati, e in alcuni casi triplicati. Ciò significa che i lavoratori tessili che guadagnano il salario minimo oggi, addirittura non guadagnano a sufficienza per sfamare se stessi, per non parlare delle altre necessità di base per sé e per i loro figli. Questo è il motivo per cui i lavoratori sono scesi per le strade in decine di migliaia, chiudendo le fabbriche e chiedendo il triplo del salario minimo per arrivare alla cifra ancora molto modesta di 54 € al mese (5.000 taka Bangladesh).
Non c'è da stupirsi che i lavoratori tessili che lottano per la loro sopravvivenza chiedano più soldi. Ma è più facile per il governo dare la colpa a organizzazioni come il BCWS, dando il messaggio che le richieste dei lavoratori non sono il frutto di una vera vertenza ma della manipolazione da parte di altre forze. Come se i lavoratori avessero bisogno di sollecitazioni per chiedere il diritto alla sopravvivenza.
Nella comunicazione ufficiale di cancellazione della Ong, il governo accusa il BCWS di "istigazione a creare situazioni riottose e assistenza nella creazione di agitazioni del lavoratori nel settore abbigliamento, e in attività anti-governative e sociali". Il governo accusa due leaders del BCWS di "fomentare disordini e agitazioni nel settore dell’abbigliamento." Invece di riconoscere le reali esigenze umane dei lavoratori e il diritto fondamentale per un salario dignitoso, il governo starebbe pensando di aggiungere al suo apparato repressivo una nuova "polizia industriale", specificamente rivolta al settore abbigliamento. Secondo un quotidiano del Bangladesh questa nuova forza di polizia userà il “pugno di ferro” per affrontare le proteste dei lavoratori, un messaggio davvero agghiacciante.
I lavoratori hanno bisogno del vostro aiuto.
Mentre il BCWS ci ha tenuti al corrente degli sviluppi nell'ultimo mese e mezzo, ha aspettato a richiedere il vostro aiuto fino ad ora, per cercare prima di esplorare ogni possibile soluzione locale. Ora è stato raggiunto il limite oltre il quale c’è bisogno della solidarietà internazionale. Per questo si rivolgono a persone di coscienza in tutto il mondo per aiutarli nella lotta per i diritti fondamentali e per la sopravvivenza dei lavoratori tessili.
"Let it flow" di Sisley: un messaggio volgare
22/09/2010 Il Comitato di controllo dell’Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria ha ingiunto a Benetton Group il ritiro del messaggio pubblicitario “Let it flow” del marchio Sisley giudicandolo sleale, volgare e lesivo della dignità della donna.
La denuncia era partita da un gruppo di associazioni di consumatori.
Atteso rinvio a giudizio per dirigenti Marlane
04/11/2010 Atteso il rinvio a giudizio nel processo ai dirigenti della Marlane, accusati a vario titolo di omicidio colposo, lesioni e disastro ambientale. La fabbrica tessile di Praia a Mare (Cs), di proprietà del gruppo Marzotto, ha chiuso nel 2004 lasciandosi alle spalle in quasi 50 anni di attività 40 morti e 60 malati di tumore (www.vicenzapiu.com)
(2010) Inadeguato il risarcimento per i lavoratori morti alla Garib
Quasi quattro mesi dopo il tragico incendio che è costato la vita a 21 operai mentre 6 sono stati ricoverati in ospedale, non è stata fornito alcun risarcimento alle famiglie interessate per la perdita dei redditi. Allo stesso modo la famiglia di uno dei lavoratori deceduti nell’incendio nello stesso stabilimento nel mese di agosto 2009 è ancora in attesa di quanto dovuto.
La CCC valuta positivamente il fatto che il principale acquirente internazionale della Garib, il distributore svedese H & M (segue...) si è coinvolto non ha appena è giunta la notizia che l’ennesimo incendio in una fabbrica del Bangladesh ha portato via così tante vite. L’azienda ha sviluppato una proposta per il sostegno finanziario agli orfani di età inferiore ai 18 anni, e per i genitori che non sono in grado di lavorare a causa della vecchiaia. Tuttavia, restano grandi preoccupazioni (segue...) in quanto la proposta non comprende altri parenti colpiti dalla perdita di un capofamiglia.
Altri acquirenti internazionali (segue...) non hanno al momento adottato alcuna misura concreta in materia di risarcimento.
Le fabbriche di abbigliamento in Bangladesh sono note per le loro condizioni insicure, ma i proprietari della fabbrica, il governo del Bangladesh e le imprese di abbigliamento non hanno finora preso misure sufficienti a tutelare i diritti fondamentali dei lavoratori a lavorare in un ambiente sicuro. La CCC con altre organizzazioni internazionali impegnate per la difesa dei diritti del lavoro insieme alla International Textile, Garment and Leather Workers Federation (ITGLWF) hanno richiesto (segue...) alle imprese che si riforniscono in Bangladesh di migliorare la sicurezza nel settore, a partire dalla garanzia che i lavoratori possano denunciare le condizioni di assenza di salute e sicurezza attraverso il diritto di organizzarsi. La CCC con i suoi alleati sta discutendo un approccio collettivo alla risoluzione del caso con la maggior parte dei principali buyer dal Bangladesh.
{mooblock=Background: tre fuochi alla Garib& Garib nello scorso anno.}
Il 25 febbraio alle 21:30 circa, un incendio è scoppiato al primo piano dei sette piani della Garib&Garib, situato nella zona di Bogra in Gazipur, Bangladesh. 15 donne e 6 uomini sono morti per asfissia, mentre 6 lavoratori hanno dovuto essere ricoverati periodo lungo a causa di avvelenamento da fumo. Secondo quanto riferito da vigili del fuoco, l'incendio è stato causato da un cortocircuito elettrico. Non appena il fuoco si è propagato, i lavoratori sono rimasti intrappolati ai piani superiori. Sembra, dalle testimonianze e notizie di stampa, che le uscite di emergenza fossero stati bloccate, il cancello d'ingresso chiuso a chiave e le attrezzature antincendio mancanti o inadeguate. Secondo uno dei sopravvissuti, le operazioni di soccorso furono ulteriormente ostacolate dal fatto che i pompieri avevano dovuto tagliare la finestra di griglie per accedere alla struttura e salvare gli operai intrappolati. Questo non è stato l’unico incendio alla Garib e Garib l'anno scorso. Il 22 agosto 2009, un lavoratore e un vigile del fuoco sono morti in un incendio scoppiato in un ripostiglio al secondo piano. E, dopo il grande incendio nel febbraio di quest'anno, un altro incendio è scoppiato il 13 aprile. Questa volta il fuoco è scoppiato intorno alle 13:30 al terzo piano e si è diffuso rapidamente ai piani secondo e quarto. A quel tempo la maggior parte dei lavoratori della fabbrica, che aveva ripreso la produzione dal 1 ° aprile, era fuori per il pranzo. Tuttavia, almeno 10 operai e vigili del fuoco sono rimasti feriti.
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In risposta all’incendio, H & M ha commissionato la ONG Save the Children Svezia e Danimarca (SCSD) il compito di valutare i bisogni dei membri più vicini alle famiglie dei lavoratori defunti e gli operai feriti. La società ha deciso di concentrarsi sui bisogni dei bambini e genitori anziani, ma non di fornire un indennizzo generale proporzionato alla mancanza di reddito atteso fino alla pensione dai familiari delle vittime. La società riferisce di aver richiesto a tutti i suoi fornitori in Bangladesh di rivedere le misure di sicurezza. Inoltre, H & M dichiara di avere accantonato 1 milione corone svedesi (circa 105,000 €) per misure di prevenzione degli incendi, selezionando in particolare esperti in materia di sicurezza e formazione per i lavoratori.
Le critiche dei sindacati e delle organizzazioni per i diritti dei lavoratori
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Nel momento in cui H & M ha annunciato l'intenzione di commissionare una valutazione dei bisogni dei lavoratori feriti e dei parenti degli operai deceduti, la Clean Clothes Campaign ha esortato la società a consultarsi con i sindacati ei rappresentanti dei lavoratori sui requisiti minimi necessari ad un modello di risarcimento. Anche se i rappresentanti di H & M hanno visitato alcune ONG locali e sindacati per informarli circa progetto di valutazione di Save the Children Svezia, Danimarca (SCDS), non è stato attivato un processo inclusivo per negoziare il modello di risarcimento con i sindacati ei rappresentanti dei lavoratori.
Le critiche principali al modello di risarcimento proposto da H & M sono le seguenti:
* la proposta di H & M's non compensa la perdita di reddito futuro del lavoratore deceduto. Ciò comporterebbe una valutazione sulla base dello stipendio più recente fino all'età di pensionamento (dipendenti statali in pensione all'età di 60 anni)
* la proposta di H & M mina di fatto lo standard di risarcimento raggiunto per i lavoratori della Spectrum, uccisi nel crollo della stessa fabbrica nel 2005. In quel caso le aziende hanno deciso di pagare le pensioni ai parenti fino alla morte. (Segue. ..). Inoltre, recentemente è stato pagato un risarcimento alla famiglia di un lavoratore della fabbrica Matrix morto per una crisi di panico a seguito di un falso allarme di incendio. Questa fabbrica produceva per marchi internazionali come Inditex, Gap e HBC, e l'indennizzo corrisposto è stato basato sulla perdita di reddito.
Recentemente il sindacato tessile internazionale ITGLWF ha invitato H & M e gli altri buyer della Grib ad una riunione che si terrà il 21 luglio per discutere il caso. H & M ha confermato la partecipazione alla riunione, fatto che la CCC considera positivo. La riunione, prevista per il 21 luglio a Dhaka, ha lo scopo di esaminare l'evoluzione delle retribuzioni in Bangladesh; esaminare le esigenze delle persone colpite dagli incendi a Garib & Garib; determinare ciò che è stato ricevuto fino ad oggi e quale ulteriore risarcimento potrà essere richiesto; esaminare quali miglioramenti sono necessari in fabbrica, e valutare quali lezioni si possono apprendere dal caso da Garib e Garib.
Gli altri acquirenti della Garib e Garib.
Altre società che hanno confermato di rifornirsi alla Garib e Garib nel 2009 e 2010 comprendono la società italiana Teddy (marchio Terranova), la società turca Taha Group (marchio Waikiki LC), la società spagnola El Corte Ingles, la società francese Provera, e la società canadese Marks Work Wearhouse. Inoltre ci sono prove che la società americana Ulla Popken ha recentemente fatto ordini alla Garib e Garib. La Clean Clothes Campaign, il Maquila Solidarity Network e l'International Labour Rights Forum hanno contattato queste imprese dopo l’incendio. Teddy e LC Waikiki avevano annunciato che erano disposti a contribuire al risarcimento delle vittime. Tuttavia, nessuna proposta concreta è stata sviluppata finora. Provera ha annunciato di essere disposta ad aiutare le famiglie delle vittime, ma non ci ha mai informato su come intende procedere. El Corte Ingles finora non ha fornito alcuna risposta in materia di risarcimento. Mark's Work Wearhouse ha cessato la produzione, parrebbe a causa dei cronici problemi di sicurezza, dopo l'incendio del primo agosto 2009. La CCC invita tutti i buyer a confermare con urgenza la loro partecipazione alla riunione 21 luglio. Ed infine, Ulla Popken non ha mai risposto alle sollecitazioni, e quindi non rimane altra conclusione al di fuori del fatto che non si assumono alcuna responsabilità per quanto accaduto.
Piano di azione per fabbriche sicure in Bangladesh.
Per evitare nuove catastrofi nell'industria dell'abbigliamento in Bangladesh, noto per le sue pessime condizioni di sicurezza ,la CCC, lil Maquila Solidarity Network (Canada), e l'International Labor Rights Forum (USA) hanno invitato tutti i marchi che si riforniscono di indumenti in Bangladesh ad adottare misure proattive e coordinate per contribuire ad eliminare questi problemi strutturali.
In consultazione con i sindacati del Bangladesh e la statunitense Worker Rights Consortium, e con l’integrazione di proposte sviluppate in precedenza dalla International Textile, Garment and Leather Workers Federation (ITGLWF), abbiamo compilato una lista di azioni che le società internazionali di abbigliamento devono condurre entro la loro catena di approvvigionamento proprio per evitare tragedie future. Chiediamo inoltre alle aziende di fare pressione collettiva sul governo del Bangladesh e l’associazione industriale BGMEA perché intraprenda azioni concrete per affrontare questi problemi a livello settoriali in Bangladesh. Clicca qui per l'elenco completo.
La maggior parte delle imprese contattate hanno risposto a questo invito all'azione, e sono attualmente impegnate in un confronto con le nostre organizzazioni in merito a una strategia collettiva che assicuri reali progressi.
(2010) REPORT - Goal mancato per i lavoratori del pallone
I problemi evidenziati nel rapporto:
* il lavoro minorile esiste ancora nell'industria Pakistana, in particolare presso i lavoratori a domicilio.
* diiscriminazioni di genere nei confronti delle lavoratrici a domicilio, pagate il minimo e a rischio costante di perdere il lavoro a causa della gravidanza;
* abuso di lavoro straordinario, come è stato rilevato in una fabbrica cinese, dove è stato scoperto che si lavora fino a 21 ore al giorno tutti i giorni per un mese intero;
* la mancanza di acqua potabile o strutture di assistenza sanitaria, ed anche servizi igienici, per esempio nelle fabbriche indiane di cucitura
Circa il 75% degli oltre 200 lavoratori intervistati in Pakistan non sono assunti a tempo indeterminato, pertanto non hanno accesso alle prestazioni pensionistiche e alla. sicurezza sociale.
Negli ultimi dieci anni, rapporti periodici sulle violazioni dei diritti umani nella produzione dei palloni da calcio sono stati presentati ai principali attori del settore tra cui i grandi marchi e la FIFA.
La Clean Clothes Campaign è sconcertata dal fatto che dopo tutti questi anni, i bassi salari e altre gravi forme di violazioni dei diritti dei lavoratori sono ancora la norma e non l'eccezione del settore. Ricordate alla FIFA le sue responsabilità verso il settore sportivo sport, e che come i fan di tutto il mondo hanno grandi aspettative verso i campionati mondiali, i cittadini si aspettano che l'industria del pallone dimostri concretamente di rispettare le sue promesse in materia di diritti umani.
(2010) DESA: ancora persecuzioni presso il fornitore di Prada
Vi invitiamo a contattare la direzione della DESA e i marchi internazionali committenti per esprimere il vostro disappunto per l'incapacità di tutelare i diritti dei lavoratori della DESA e per esortarli a garantire che il protocollo sia applicai correttamente e ad adottare misure concrete per sostenere in modo proattivo la libertà di associazione sindacale in fabbrica.
Contesto
Un protocollo d'intesa (link al protocollo originale firmato) tra il sindacato Deri Is e Desa era stato firmato ad agosto del 2009 dopo una campagna internazionale durata un anno contro le pratiche sleali della DESA, azienda turca fornitrice di grandi marchi del lusso europei come Prada, Mulberry, Debenhams, Marks and Spencer e El Corte Ingles. Il protocollo dichiarava che la campagna internazionale sarebbe cessata a condizione che la DESA riassumesse molti dei lavoratori licenziati, rilasciasse una garanzia scritta sul diritto all'associazione sindacale, riconoscesse il Deri Is come sindacato in fabbrica e si impegnasse a non esprimere alcun parere, positivo o negativo, verso la sindacalizzazione dei lavoratori.
La Clean Clothes Campaign ha continuato a monitorare la situazione in Turchia, per verificare l'attuazione del contratto attraverso un dialogo permanente con il sindacato. Fin dall'inizio era chiaro che il protocollo era solo l'inizio di una nuova fase durante la quale i lavoratori avrebbero dovuto essere messi a conoscenza dei loro diritti ed essere rassicurati che l'esercizio degli stessi non può comportare il licenziamento o rappresaglie. Rendere questo processo credibile e autentico richiedeva un cambiamento di direzione da parte della Desa e di un supporto proattivo da parte dei marchi.
Una delegazione della Clean Clothes Campaign ha svolto una missione in Turchia nel dicembre 2009, durante la quale si sono incontrati circa 35 lavoratori della Desa insieme ai rappresentanti del Deri Is. Le interviste effettuate hanno rivelato che il protocollo era stato violato perchè:
• I lavoratori individuati dal Deri Is non sono stati riassunti
• La garanzia del diritto ad organizzarsi secondo quanto elaborato dal sindacato internazionale ITGLWF non è stato distribuito ai lavoratori
• I lavoratori stanno nuovamente subendo episodi di repressione e persecuzione con il chiaro scopo di evitare la loro sindacalizzazione
• La direzione della Desa interferisce attivamente per cercare di impedire ai lavoratori di iscriversi al sindacato
Alla luce di ciò, nel mese di aprile 2010, la Clean Clothes Campaign contattato nuovamente tutti i marchi internazionali informandoli circa le continue violazioni del protocollo siglato. I marchi sono stati anche sollecitati a lavorare con la DESA per porre fine alle vessazioni nei confronti dei lavoratori e attuare pienamente il protocollo in collaborazione con Deri Is. [Link alla lettera inviata]
Solo un numero limitato di marchi ha risposto, affermando tutti che avevano visitato la fabbrica, non erano state rilevate angherie e che erano certi dell'assenza di pratiche inique in fabbrica. Nessuno dei marchi ha parlato o contattato il sindacato o suoi membri. Nessuno di loro ha risposto alle richieste di azioni dettagliate e concrete che abbiamo sottoposto.
(2010) Sgomberati violentemente i lavoratori della Triumph nelle Filippine
12 MAGGIO 2010 - Il 4 maggio, i lavoratori della Triumph nelle Filippine sono stati violentemente allontanati dal picchetto che avevano organizzato. Più di 200 agenti delle forze di sicurezza hanno invaso il campo, allontanando gli operai che protestavano e distruggendo il loro campo d'azione.
I lavoratori hanno istituito un altro picchetto a valle della strada, continuando la loro protesta contro il loro licenziamento a partire dall'estate 2009.
Leggete l'approfondimento (in inglese)
Teddy
Teddy è un gruppo multinazionale di origine italiana proprietario delle catene di abbigliamento ad insegna Terranova, Calliope e Rinascimento, presenti in circa una quarantina di paesi. Commercializza anche abbigliamento con i marchi propri Kitana, Urban Babe, Hacienda Pvblica. Il giro di affari ammonta a 300 milioni di euro. I l gruppo fa riferimento all’imprenditore riminese Vittorio Tadei, che nel 2006 è stato anche candidato sindaco della città romagnola, nelle file del Partito della Libertà (Forza Italia). (Agosto 2010) |
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Fruit of the Loom
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Fruit of the Loom è un gruppo di origine statunitense attivo nel settore dell’abbigliamento per lo sport e per il tempo libero. Possiede vari marchi, tra cui Fruit of the Loom, Russell Athletic e Spalding, questi ultimi due attraverso la filiale Russell Corporation. (Agosto 2010) |
Hanesbrand
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Asics
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(2010) I vestiti nuovi del consumatore
Guida ai vestiti solidali, biologici, recuperati: per conciliare estetica ed etica nel proprio guardaroba
Il libro è acquistabile on-line e nelle librerie.
(2010) I sopravissuti all’incendio della Garib chiedono giustizia e sicurezza
Giovedì 25 febbraio 21 lavoratori sono morti alla Garib & Garib Sweater Factory in Gazipur, Bangladesh a causa di un incendio scoppiato per la seconda volta in sei mesi.
Leggi il primo resoconto e di seguito l’aggiornamento sulle cause della tragedia e su quanto hanno fatto finora i soggetti coinvolti dopo tragica notte del 25 febbraio.
Unisciti alla campagna per chiedere ai marchi, al proprietario dell’azienda e al governo del Bangladesh di assumere impegni immediati per assicurare giustizia alle vittime ed evitare che tragedie come questa accadano in futuro. Il numero dei morti nell’industria tessile bengalese dal 2000 è salito a 230. Data la chiara conoscenza dei rischi collegati alla mancata sicurezza nelle fabbriche tessili di Dhaka, la mancanza di prevenzione equivale ad una negligenza criminale.
Cosa è successo alla Garib?
Un’indagine autorizzata dal governo per verificare le cause dell’incendio informa che ha avuto origine da un corto circuito elettrico al secondo piano della fabbrica.
Il fuoco è immediatamente divampato fino agli altri piani grazie a sostanze e prodotti infiammabili come i filati di lana. Durato quasi due ore, il fuoco ha prodotto un denso fumo nero e ha consumato l’ossigeno nell’aria, soffocando i lavoratori. Il fumo non poteva fuoriuscire grazie alla scarsa ventilazione e alla presenza di strutture non autorizzate utilizzate per lo stocccaggio di materiali altamente infiammabili in cima al palazzo. I lavoratori non potevano scappare perchè le uscite erano chiuse a chiave e i materiali bloccavano le scale. Gli estintori erano “praticamente inutili” secondo il Dhaka Fire Service and Civil Defence e, secondo le testimonianze, nessuna delle guardie di sicurezza in servizio sapeva come operare con estintori e idranti.
Il 7 marzo le famiglie dei deceduti hanno ricevuto 200.000 Taka (circa 2.085 euro) di risarcimento. I feriti sono stati ricoverati in diversi ospedali di Dhaka. Non ci sono notizie sui prossimi passi che saranno intrapresi per completare il risarcimento, visto che 200.000 Taka sono del tutto insufficienti. Occorre inoltre predisporre risarcimenti di lungo periodo sia per le famiglie delle vittime che per i feriti. La fabbrica rimarrà chiusa per il mese di marzo. Poichè il 10 di marzo i lavoratori della Garib hanno ricevuto il pagamento dello stipendio di febbraio (inclusi i giorni successivi all’incendio), essi rimangono in attesa dei pagamenti relativi al periodo di chiusura della fabbrica.
Audit fallimentari
La Clean Clothes Campaign ha contattato le imprese committenti europee e statunitensi che secondo testimonianze si rifornivano alla Garib & Garib Sweater Ltd. La svedese H&M ha risposto alla CCC che sta lavorando insieme all’italiana Teddy, proprietaria del marchio Terranova, per la definizione del risarcimento dei lavoratori feriti e delle famiglie dei defunti. Accogliamo positivamente questa prima iniziativa per rispondere alle esigenze dei lavoratori e delle famiglie delle vittime, tuttavia sollecitiamo tutti i clienti ad assicurare soluzioni di lungo periodo con il coinvolgimento dei sindacati e dei lavoratori.
Desta preoccupazione il fatto che H&M neghi i problemi strutturali della sicurezza alla Garib & Garib. Secondo l’audit condotto ad ottobre del 2009 le uscite di emergenza erano chiaramente indicate, come gli estintori. In ogni caso, l’indagine del governo ha evidenziato che le cause principali dei decessi sono state l’insufficiente sistema di ventilazione e una struttura d’acciaio illegale installata sul tetto dell’edificio di sette piani.
L’inadeguatezza del sistema di ispezione non poteva essere meglio dimostrata. Il movimento per la difesa dei diritti del lavoro esprime da anni una forte critica verso i sistemi di ispezione che falliscono nel rilevare l’assenza di conformità giorno per giorno. Registrare semplicemente l’esistenza di uscite di emergenza non serve, se le scale sono bloccate. Allo stesso modo la disponibilità di estintori non è sufficiente, se nessuno sa come usarli. Coinvolgere i lavoratori nel monitoraggio delle condizioni di salute e sicurezza resta un prerequisito fondamentale per assicurare che tali incidenti non accadano in futuro.
Inoltre, data la pericolosità dell’industria tessile bengalese, non è possibile che le carenze negli standard di sicurezza rilevate dagli audit siano mantenute segrete. L’intera industria tessile dovrebbe diventare più trasparente e verificabile da parte dei lavoratori coinvolti, anche attraverso la condivisione dei rapporti con i sindacati, il governo e tutti gli stakeholders.
Responsabilità
Tristemente l’incendio non era solo evitabile, era anche prevedibile e pertanto per nessuna ragione può essere definito un incidente. Dal 2000 la Clean Clothes Campaign insieme ai suoi partner in Bangladesh richiede una decisa revisione del settore tessile bengalese in seguito al ripetersi di incidenti fatali come quest’ultimo, tutti con le stesse caratteristiche – inclusi il blocco delle scale con materiali e prodotti, la chiusura a chiave delle porte, la pessima ventilazione, l’assenza o inadeguatezza degli estintori e la mancanza di personale formato per casi di emergenza. Ad oggi nè il governo, la Bangladesh Garment Manufacturers and Exporters Association (BGMEA) o i marchi internazionali hanno assunto misure sufficienti e strutturali per migliorare il settore industriale.
Sosteniamo quindi completamente le richieste che provengono dai sindacati bengalesi e dalle organizzazioni dei lavoratori indirizzate al proprietario della Garib & Garib, al governo, al BGMEA e ai marchi internazionali.
Chiediamo al proprietario della fabbrica, al governo del Bangladesh, al BGMEA, ai marchi e ai distributori internazionali che si rifornivano presso la Garib & Garib di:
1. assicurare l’immediato pagamento di 500.000 Taka alle famiglie dei lavoratori deceduti;
2. assicurare che trattamenti medici appropriati e risarcimenti necessari per i lavoratori feriti siano garantiti (in accordo con un parere medico indipendente);
3. adottare misure efficaci per il risarcimento delle vittime nel lungo periodo, coinvolgendo il governo, il proprietario, i marchi committenti, il BGMEA, il sindacato e I rappresentanti della società civile nel processo decisionale;
4. rendere pubblici tutti i rapporti d’inchiesta, inclusi quelli dei clienti internazionali e degli agenti, sulle le condizioni di lavoro alla Garib & Garib Sweater Ltd.;
5. assicurare una inchiesta credibile, coinvolgendo le organizzazioni dei lavoratori e per i diritti umani, sulle circostanze che hanno permesso che una tale tragedia accadesse, e rendere pubblici i risultati
6. applicare in maniera seria tutte le leggi relative alla salute e alla sicurezza e assicurare risorse sufficienti per l’ispettorato del lavoro e la gestione (anonima) delle denunce dei lavoratori e dei sindacati. I lavoratori dovrebbero avere accesso a tutte le informazioni per esporre denuncia e essere informati sugli sviluppi
7. riconoscere il diritto dei lavoratori ad organizzarsi in sindacati scelti liberamente e il diritto dei sindacati di contattare i lavoratori e condurre tutte le attività necessarie a rappresentare veramente i suoi membri
Inoltre chiediamo al governo in particolare di:
1. assicurare una inchiesta penale credibile sull’incidente e l’apparente trascuratezza delle norme in materia di salute, sicurezza ed emergenza, e assicurare l’arresto immediato e il processo penale per ogni presunto colpevole
2. rivedere le leggi esistenti in material di salute, sicurezza ed emergenza, sulla base di una indagine imparziale e trasparente a partire dagli incidenti analoghi accaduti negli ultimi anni
Infine chiediamo alle imprese clienti della Garib & Garib di:
1. Sostenere pubblicamente le domande indirizzate al governo e assicurare la loro applicazione
2. Negoziare direttamente con il sindacato per assicurare che tutte le azioni richieste e le misure di risarcimento siano effettive
Vi preghiamo di agire subito! Inviate le vostre lettere al proprietario della Garib&Garib Sweater Ltd, al governo del Bangladesh, al BGMEA e ai marchi internazionali H&M and Teddy, proprietario del marchio Terranova.
(2010) 21 morti nell'incendio della Garib in Bangladesh
I sindacati bengalesi e le organizzazioni internazionali a difesa dei diritti dei lavoratori chiedono un'azione immediata ai marchi internazionali e al governo del Bangladesh per affrontare le conseguenze del grave incidente che ha causato almeno 21 morti e 50 feriti. La Garib Sweater Factory di Gazipur, Bangladesh produceva abbigliamento per distributori come la H&M e l'italiana Teddy con prodotti a marchio Terranova.
Il sito dell'azienda cita anche Otto, 3Suisses International, Pimkie, Provera, Lindex, Littlewoods, WalMart e JC Penny. La Campagna Abiti Puliti sta raccogliendo e verificando le informazioni in relazione ai marchi coinvolti e alle dinamiche dell'incidente.
L'incendio sembra essere stato causato da un corto circuito, comnciato alle 21.30 di giovedì 25 febbraio. Non appena il fuoco è divampato, i lavoratori sono rimasti intrappolati. Sembra da testimoni oculari e notizie stampa, che le uscite di emergenza fossero bloccate, il cancello di ingresso chiuso a chiave e gli estintori mancanti o non appropriati. Secondo un sopravvissuto, le operazioni di soccorso sono state ulteriormente ostacolate dal fatto che i pompieri hanno dovuto tagliare le inferriate delle finestre per accedere al piano e salvare i lavoratori. Nessuno è stato in grado di dire ai soccorritori quanti lavoratori erano presenti in fabbrica al momento dell'incendio.
- l'arresto immediato del proprietario della fabbrica
- il pagamento immediato di 500 mila Taka alle famiglie dei lavoratori deceduti
- appropriate cure mediate e adeguato risarcimento per i lavoratori feriti
- efficaci ed immediate misure di risarcimento di lungo periodo per le famiglie delle vittime
- l'avviamento di una seria indagine sulle circostanze che hanno causato tale tragedia
(2009) I lavoratori della Triumph lasciati "in mutande" producono slip a sostegno della protesta
I lavoratori sindacalizzati licenziati in massa dalla Triumph hanno trasformato il loro presidio in una fabbrica di confezionamento di mutande con il marchio “Try Arm”. Dal 16 di ottobre infatti centinaia di lavoratori hanno occupato i piani del Ministero del Lavoro per protestare contro i licenziamenti di massa operati dalla Body Fashion Thailand, sussidiaria della Triumph International.
I membri del sindacato protestavano da più di 100 giorni di fronte alla fabbrica di Bangkok ma quando la direzione ha rifiutato di parlare con loro, hanno deciso di fare arrivare la loro protesta direttamente al Ministro del Lavoro per chiedergli di difendere i diritti dei lavoratori thailandesi nelle filiere internazionali come questa. La Triumph International non è stata disponibile a condurre una trattativa tempestiva e trasparente circa il suo piano di tagli con i rappresentati sindacali degli stabilimenti, come previsto dalla convenzione ILO 158 e dalla Linee Guida OCSE per le imprese multinazionali.
Quasi 200 lavoratori hanno cominciato a cucire reggiseni e intimo presso il ministero; si sono messi a lavorare su tutte le fasi del prodotto e ciò è stato possibile grazie all'aiuto di un designer e di un tecnico esperto di confezionamento, entrambi licenziati dalla Triumph. Con la produzione di una linea propria di mutande, i membri del sindacato sperano di raccogliere i fondi necessari a sostenere la loro lotta. Il primo paio di mutande sarà presentato al Direttore Generale del Dipartimento del Lavoro. La lotta continua grazie alla creatività dei lavoratori!
Manda un messaggio alla Triumph, puoi fare la differenza!
(2009) Storica vittoria dei lavoratori della Russel Athletic in Honduras
Tra le cose positive, Russell aprirà una nuova fabbrica nell’area per riassumere e garantire opportunità di lavoro ai lavoratori del JDH con l’impegno a mantenere una posizione neutrale nei confronti della libertà di associazione; questo aprirà le porte ad un percorso di sindacalizzazione di tutte le aziende della Fruit of the Loom in Honduras
Russell Athletic/Fruit of the Loom è la più grande impresa del settore priviato in Honduras ed è una sussidiaria della Berkshire Hathaway.
L’accordo è il risultato dello sforzo massiccio e congiunto di studenti, sindacalisti e difensori di diritti del lavoro in Honduras, Stati Uniti, Canada e Europa. Il lavoro della campagna della United Students Against Sweatshops (USAS) ha portato più di 90 collegi e università a sospendere gli accordi di fornitura con la Russel; gli accordi – alcuni dei quali valevano anche più di 1 milione di dollari – concedevano alla Russell di mettere il logo delle università su magliettem felpe e pile.
La CCC ha collaborato con i sindacati e il Maquila Solidarity Network (MSN) per denunciare il caso di violazione alla Fair Labour Association, mentre Labour behind the Label (la CCC inglese) ha lavorato insieme alla campagna di studenti People and Placet per mobilitare proprio gli studenti nei confronti della Russell. Uno dei lavoratori coinvolti nella lotta sta visitando proprio in questi giorni l’Inghilterra e la Spagna in un tour organizzato dalla CCC per le prossime due settimane.
Alcuni aspetti dell’accordo raggiunti sono particolarmente degni di nota poiché esso include misure per proteggere la libertà di associazione sindacale che, a nostra conoscenza, non hanno precedenti in America Centrale. In particolare si tratta di:
a) accesso al sindacato e gestione congiunta tra sindacato e management di corsi di formazione alla libertà di associazione in tutte le fabbriche non organizzate in Honduras,
b) neutralità del datore di lavoro vero l’attività organizzativa di sindacalizzazione
c) predisposizione di meccanismi di terza parte per la risoluzione dei conflitti.
Di estrema rilevanza il fatto che la Russell ha accettato di procedere al graduale smantellamento dell’attuale sistema di rappresentanza “solidarista” presente nelle fabbriche non sindacalizzate per assicurare che ciò no ostacoli il diritto dei lavoratori alla libera associazione.
Per informazioni aggiuntive, potete leggere l’annuncio del Workers Rights Consirtium qui allegato
Oppure l’aggiornamento del Maquila Solidarity Network
(2009) Un salario dignitoso a difesa di tutti
OTTOBRE 2009 - In genere la persona che confeziona i vestiti che indossiamo è una donna, oberata di lavoro e sottopagata, in cattive condizioni di salute e a rischio di ritorsioni e molestie se prova a denunciare la sua condizione di sfruttamento. E’ una donna che deve mantenere la famiglia e prendersi cura dei figli.
Anche se il costo della vita è minore nei paesi di produzione come la Cina, il Bangladesh o l’Indonesia rispetto all’Europa e al Nord America dove i vestiti vengono commercializzati, le persone hanno il diritto di guadagnare quanto occorre per condurre una vita dignitosa. Hanno diritto ad un salario dignitoso.
(2009) Campagna internazionale per il salario dignitoso
In genere la persona che confeziona i vestiti che indossiamo è una donna, oberata di lavoro e sottopagata, in cattive condizioni di salute e a rischio di ritorsioni e molestie se prova a denunciare la sua condizione di sfruttamento. E’ una donna che deve mantenere la famiglia e prendersi cura dei figli. Anche se il costo della vita è minore nei paesi di produzione come la Cina, il Bangladesh o l’Indonesia rispetto all’Europa e al Nord America dove i vestiti vengono commercializzati, le persone hanno il diritto di guadagnare quanto occorre per condurre una vita dignitosa.
Chi può intervenire per modificare questa situazione?
Le imprese che definiscono gli standard di produzione nell’industria tessile globale - incluse multinazionali come Carrefour, Tesco, Walmart, Aldi e Lidl - hanno la responsabilità di assicurare che ai lavoratori che producono gli abiti che commercializzano sia pagato un salario dignitoso. Anche altri soggetti, come i governi e i fornitori, giocano un ruolo importante per la risoluzione del problema, ma non c’è dubbio che i giganti della distribuzione che governano le filiere internazionali dell’abbigliamento devono cambiare le loro pratiche di acquisto per consentire ai lavoratori di ottenere un salario dignitoso.
Alcune imprese sosterranno che è impossibile definire un salario dignitoso ma noi non siamo d’accordo. In Asia, dove avviene lgran parte della produzione di abbigliamento globale, una coalizione crescente di organizzazioni locali ha calcolato il livello del salario dignitoso minimo per l’Asia. I grandi distributori possono assumere un impegno concreto per porre fine al dilagare di salari da fame nelle fabbriche che forniscono i loro negozi; possono farlo lavorando in stretta collaborazione con l’alleanza per l’Asia Floor Wage perchè il salario dignitoso diventi una realtà tangibile.
Oggi puoi fare la tua parte!
Dai forza a coloro che stanno chiedendo un salario dignitoso per i lavoratori tessili.
Invia il messaggio allegato a coloro che hanno il potere di decidere nelle catene distributive dove acquisti (o potresti acquistare in futuro)
Messaggio per i distributori
Caro distributore,
credo che il salario dignitoso sia un diritto umano.
L’alleanza per l’Asia Floor Wage, una crescente coalizione di organizzazioni per i diritti del lavoro nel settore tessile, ha calcolato il salario minimo dignitoso per i paesi chiave asiatici dove viene prodotto gran parte dell’abbigliamento del mondo.
Chiedo alla vostra impresa di impegnarsi pubblicamente a fare i passi necessari ad assicurare l’applicazione del salario dignitoso, tenendo in considerazione la proposta formulata dall’Asia Floor Wage e di mettere in campo misure proattive per assicurare che tutti i lavoratori coinvolti nella produzione di abbigliamento per la vostra impresa siano pagati secondo quanto definito dalla alleanza asiatica.
Come importante committente che si rifornisce in Asia, la vostra impresa deve assicurarsi che il diritto ad un salario vivibile non sia negato alle donne e agli uomini che producono i prodotti tessili che commercializzate. Vi prego di tenermi informato sugli impegni e i passi concreti che farete per garantire l’applicazione del salario dignitoso presso i vostri fornitori.
Cordialmente
Il salario dignitoso è un diritto umano
Il diritto ad un salario dignitoso è stato ampiamente discusso e concordato all’interno della comunità internazionale.
La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948 dichiara che “Ogni individuo che lavora ha diritto ad una rimunerazione equa e soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia una esistenza conforme alla dignità umana ed integrata, se necessario, da altri mezzi di protezione sociale. (Articolo 23, sezione 3).
Per chiarire che guadagnare un salario dignitoso non significa avere più lavori e orari di lavoro estenuanti la Dichiarazione Universale dice “Ogni individuo ha diritto al riposo ed allo svago, comprendendo in ciò una ragionevole limitazione delle ore di lavoro e ferie periodiche retribuite. (Articolo 24). Lo stesso è stato espresso nel 1974 dall’International Covenant on Economic, Social, and Cultural Rights” (Parte III, Articoli 7 e 11).
I lavoratori tessili hanno diritto al salario dignitoso e le imprese della distribuzione hanno la responsabilità di assicurare che tale diritto sia applicato.
Elusione fiscale per Benetton
01/10/2009 La Commissione Tributaria di Treviso ha disposto che il Gruppo Benetton dovrà versare all’erario complessivamente 3 milioni di euro per aver dedotto nel 2003 dei costi sostenuti a favore di due società con sede nell’isola di Man. A sua volta l’Agenzia delle Entrate ha aperto un fascicolo su una società del gruppo per una presunta elusione fiscale di 90 milioni di euro. La vicenda riguarderebbe la Bencom che gestirebbe i rapporti con le società affiliate del gruppo (fonte: La tribuna di Treviso)
(2009) Vittoria per i lavoratori della Desa in Turchia
Il protocollo stabilisce che:
• DESA riconoscerà il Deri Is come l’unico sindacato autorizzato in fabbrica
• DESA non metterà in campo alcun comportamento, positivo o negativo, nei confronti dei lavoratori in riferimento al sindacato
• DESA riassumerà 5 lavoratori subito e 1 successivamente, oltre ai 6 già reintegrati. Gli altri lavoratori licenziati avranno la priotrità di reintegro non appena si presenteranno nuove opportunità di assunzione.
• A tutti i lavoratori sarà consegnato un documento recante la dichiarazione che il sindacato è un diritto costituzionale
Deri Is concorda nel sospendere la campagna internazionale e nel sostenere positivamente l’azienda perchè possa riguadagnare la reputazione e i clienti.
Accogliamo con favore questo protocollo e esortiamo i marchi committenti di DESA a seguire questa azienda per assicurare che la decisione di rispettare la libertà di associazione sindacale sia sostenuta attraverso l’aumento di ordini e investimenti.
La Clean Clothes Campaign resterà in contatto con il sindacato Deri Is per monitorare l’attuazione dell’accordo e fare circolare aggiornamenti regolari sul lavoro del sindacato. I primi segnali sull’attitudine di DESA di onorare questo accordo sono positivi. Speriamo che ciò evolva verso un maturo sistema di relazioni industriali nei prossimi anni.
Grazie a tutti coloro che hanno sostenuto la campagna e ai lavoratori della DESA. Un ringraziamento speciale a Emine Arslan, leader delle operaie della DESA, per aver lottato in prima persona per i diritti di tutti, diventando così motivo di ispirazione per molte altre donne in Turchia. La solidarietà internazionale è stata cruciale nel sostenere la lunga e coraggiosa lotta delle donne che si sono alzate in piedi per ottenere i loro diritti. Vi chiediamo di continuare a sostenere queste campagne e di rispondere alle future richieste di aiuto attraverso la rete delle azioni urgenti della Clean Clothes Campaign.
Leggete la lettera della CCC inviata ai marchi committenti sul protocollo
(2009) Mandato di arresto per i leaders di una pacifica protesta contro la multinazionale Triumph
Il 28 di agosto il Dusit Police Bureau di Bangkok ha emesso un mandato di arresto nei confronti di tre attivisti sindacali per la loro partecipazione ad una pacifica dimostrazione contro il licenziamento di quasi 2000 lavoratori della Body Fashion Thailand, sussidiaria di totale proprietà della Triumph International.
Il giorno prima centinaia di lavoratori della Triumph si erano riuniti di fronte al Parlamento per consegnare una petizione al Primo Ministro Abhisit Vejjajiva. Per tutta risposta Abhisit Vejjajiva aveva rifiutato di incontrare i rappresentanti sindacali mentre i lavoratori hanno fronteggiato la polizia che ha addirittura utilizzato il sistema sonico LRAD per disperdere la folla. Questa controversa arma militare produce un'alta concentrazione di onde sonore che possono causare sordità temporanea, vista offuscata e danni permanenti al sistema uditivo. Secondo le organizzazioni per i diritti umani, quest'arma non letale può essere classificata come una tecnica di controllo politico che minaccia le libertà civili.
Bunrawd Saiwong (33), segretario del sindacatoTriumph International Thailand Labour Union (TITLU), Jitra Kotchadej (34), consulente indipendente del TITLU e Sunthorn Boonyod (50), responsabile del Labour Congress Centre for Labour Unions of Thailand, sono accusati di avere violato l' Internal Security Act (ISA), che proibisce manifestazioni di più di 10 persone nel distretto di Dusit a Bangkok. L'ISA, che offre ampi poteri alle autorità per arrestare e detenere, in questo caso è stato utilizzato per reprimere una pacifica dimostrazione e la libertà di parola in relazione ad un caso di violazione di diritti del lavoro commessa da una impresa multinazionale europea.
La dimostrazione tenutasi di fronte al parlamento thailandese fa parte delle numerose proteste organizzate dal sindacato della Triumph contro i licenziamenti previsti per la metà dei lavoratori della sussidiaria Body Fashion Thailand. Il sindacato ha subito pesanti comportamenti antisindacali a partire dall'estate 2008. Si teme che l'annuncio di riduzione del personale sia un nuovo tentativo finalizzato a fare fuori un'impresa sindacalizzata; questo risulta evidente a partire dal fatto che altre fabbriche in Thailandia, possedute dalla stessa Triumph ma non sindacalizzate, si stanno invece espandendo. La Triumph inoltre non rispetta la convenzione ILO158 e le Linee Guida OCSE per le imprese multinazionali, che richiedono alle aziende di sviluppare e negoziare i piani di riduzione del personale con il sindacato, oltre al fatto di fornire informazioni dettagliate che motivino il piano di riduzione. Durante il mese di agosto i dirigenti della multinazionale hanno ripetutamente cancellato gli incontri con il sindacato.
(2009) REPORT - Amazzonia che macello!
L'indagine di Greenpeace "Slaughtering the Amazon" pubblicata nel mese di giugno 2009 denuncia la corresponsabilità nella deforestazione dell'Amazzonia di marchi delle calzature e della grande distribuzione
GIUGNO 2009 - Centinaia di allevamenti illegali all'interno della foresta pluviale amazzonica brasiliana, ottenuti con il taglio indiscriminato degli alberi e il lavoro in stato di schiavitù, riforniscono i macelli e le concerie di colossi come Bertin, JBS e Marfirg per entrare nelle filiere internazionali dell'alimentazione, dell'arredamente e delle calzature. Le aziende coinvolte nei settori di cui ci occupiamo: Adidas, Hugo Boss, Carrefour, Clarks, Geox, Gucci, Tom Hilfiger, Ikea, Lidl, Nike, Prada, Reebok, Tesco, Timberland, Louis Vuitton, Wal-Mart).
A fine luglio Nike e Timberland annunciano una nuova politica di acquisti della pelle bovina concordata con Greenpeace. Geox si impegna a garantire che il pellame acquistato non provenga dalla distruzione della foresta amazzonica. Seguono in agosto gli impegni di Adidas e Clarks.
(2009) Diritti negati e lavoro pericoloso presso il fornitore turco Menderes
Sostenete il sindacato turco nella loro lotta nei confronti della Menderes e delle multinazionali della distribuzione. Scrivete una lettera a IKEA, Wal-Mart e Carrefour, Otto, Ibena, Target and Kohl’s e chiedete condizioni giuste e dignitose lungo tutta la filiera produttiva.
Background
La Menderes Tekstil nel Sud-Ovest della Turchia produce tessile per la casa per il mercato interno e per l'esportazione. Nell'ultimo anno, quattro lavoratori sono morti per incidenti sul lavoro. L'ultimo avvenuto il 20 Novembre 2008 ha visto un lavoratore morire a causa della caduta in una canna fumaria di una caldaia a carbone. Secondo i lavoratori la caldaia non aveva misure di sicurezza necessarie per prevenire l'incidente. Dopo l'incidente tragico, la direzione dell'azienda ha ordinato a tre colleghi della vittima di calarsi nella canna fumaria e recuperare il corpo. Di nuovo, senza alcuna protezione individuale i tre hanno respirato gas tossici nel boiler; ciò ha causato un avvelenamento polmonare che ha richiesto un trattamento ospedaliero.
A Marzo del 2008, il sindacato nazionale TEKSIF ha cominciato ad organizzare i lavoratori in fabbrica. Da allora il management della Menderes ha chiamato i responsabili sindacali ad uno ad uno mettendoli di fronte ad un out-out: lasciare il sindacato o essere licenziati.
Ancora, la Menderes sta continuando la sua campagna antisindacale. La direzione ha continuato a minacciare i lavoratori sospettati di essere membri del sindacato, forzandoli a lasciare il sindacato oppure a firmare lettere di dimissioni volontarie.
Ad agosto del 2008 i lavoratori e i rappresentanti sindacali hanno cominciato le proteste fuori dalla fabbrica. La protesta è durata 190 giorni ed era mirata a conquistare il riconoscimento del sindacato quale interlocutore fondamentale. Nonostante queste mobilitazioni, l'azienda ha continuato a minacciare i sindacalisti e ha rifiutato qualunque forma di dialogo con il sindacato.
Nel frattempo, otto casi sono per licenziamenti illegittimi stati portati in tribunale. Ma sappiamo che i tempi della giustizia possono essere lunghi.
Ulteriori approfondimenti sul sito internazionale della Clean Clothes Campaign
(2009) La corte suprema da ragione ai lavoratori della DESA mentre i marchi del lusso tacciono
La corte suprema da ragione ai lavoratori della DESA mentre i marchi del lusso tacciono
Ma la lotta non è ancora finita. Senza il vostro aiuto, i 18 lavoratori potrebbero essere ancora privati del legittimo posto di lavoro e le minacce potrebbero persistere. Dopo la decisione della Corte Suprema, la DESA ha infatti ricominciato a minacciare i lavoratori, in particolare quelli vicini ai colleghi licenziati. Ai lavoratori è stato comunicato che quelli sindacalizzati sono sotto il controllo delle telecamere e che chiunque si avvicini a parlare con loro rischia il licenziamento
AGISCI ORA - dite ai clienti della DESA, tra cui Prada, M & S, Debenhams, Mulberry e Jaeger, che DESA deve rispettare la libertà di associazione sindacale, attraverso l’immediata riassunzione dei lavoratori illegalmente licenziati e l’apertura dei negoziati con il sindacato.
(2009) La lotta dei lavoratori della DESA compie 1 anno
La lotta dei lavoratori DESA compie 1 anno
I lavoratori attendono giustizia mentre Emine Arslan sarà premiata per la sua battaglia sui diritti umani
APRILE 2009 - Cari amici e sostenitori della campagna Abiti Puliti, mentre si sta avvicinando il primo anniversario dall’inizio della lotta del sindacato Deri IS, i lavoratori e le lavoratrici stanno ancora protestando ogni giorno fuori dai cancelli della fabbrica DESA chiedendo di riassumere i 44 lavoratori licenziati in seguito alla loro iscrizione al sindacato. Nei mesi di dicembre 2008 e aprile 2009 il tribunale turco ha confermato che 25 lavoratori sono stati illegalmente licenziati a causa delle loro attività sindacali e sono pertanto da riassumere. DESA ha deciso di fare ricorso alla corte superiore anche se nessuna nuova evidenza è stata avanzata durante le recenti udienze, a testimonianza che il ricorso non è altro che un nuovo tentativo di allungare il processo. Una tattica frequente per prolungare le dispute nella speranza che i lavoratori cessino di lottare stremati dalle difficoltà economiche. Ringraziamo tutti coloro che hanno sostenuto la campagna in questi mesi difficili; continuate a farlo, il vostro prezioso contributo può fare la differenza!
Le intimidazioni verso il sindacato continuano
A marzo 2009 Emine Arslan e Nuran Gulenc del Deri Is sono venute in Europa per un tour di sensibilizzazione che ha coinciso con la giornata di mobilitazione internazionale contro Prada tenutasi il 7 marzo. Il 22 marzo, dopo il loro rientro in Turchia, in un servizio apparso sulla televisione turca la direzione della DESA collegava il Deri IS a Ergenekon, un gruppo armato responsabile di numerosi assassini in Turchia. DESA ha dichiarato che la campagna sindacale faceva parte di un piano di destabilizzazione dell’economia turca. Pochi giorni dopo il sito del Deri Is ha subito un attacco da parte di hacker; il 30 marzo qualcuno ha fatto irruzione nell’ufficio del sindacato rubando la macchina fotografica e un computer. Stranamente i soldi non sono stati toccati. Secondo la polizia si è trattato di un’operazione condotta da professonisti.
I marchi rallentano il processo risolutivo
Nonostante a dicembre ci fosse stato qualche segnale positivo circa la possibilità che la direzione DESA e i marchi committenti si sedessero ad un tavolo negoziale, è oggi chiaro che non si trattava dell’apertura di un confronto reale ma del un tentativo di fermare la campagna internazionale. Alcuni committenti hanno risposto alla campagna e comunque solo una delle imprese, la spagnola El Corte Ingles, ha acconsentito ad incontrare il sindacato e ha richiamato DESA ad aprire il confronto con il sindacato. Gli altri, nello specifico Debenhams, M&S e Mulberry hanno incontrato l’ ITGLWF ma hanno rifiutato di parlare con il sindacato in Turchia e di chiedere con forza l’apertura di un negoziato tra la DESA e il Deri IS. Prada, il principale cliente di Desa, ha rifiutato di fare qualunque passo concreto per la soluzione del caso mentre Aspinalls of London, Nicole Fahri e Luella non hanno mai risposto alla campagna.
Un premio per i diritti umani per Emine Arslan
Nonostante i grandi marchi internazionali non riconoscano l’importanza del lavoro del Deri IS, le attiviste in Turchia e in tutta Europa sono state ispirate dal lavoro e dal coraggio di Emine Arslan. Come riconoscimento al valore del suo lavoro e del suo impegno civile le è stato riconosciuto un prestigioso premio in materia di diritti umani dalla Istanbul Chambers of Doctors: il Sevinc Ozguner Human Rights, Peace and Democracy Award 2009.
La lotta continua
Nonostante le reali difficoltà economiche fronteggiate dai lavoratori licenziati e le continue intimidazioni nei confronti del sindacato, i lavoratori e le lavoratrici della DESA continuano tenacemente la loro lotta per la giustizia.
Il sostegno ricevuto dai sindacalisti e dagli attivisti in tutto il mondo ha veramente contribuito a rafforzare i lavoratori e ha mostrato l’importanza della solidarietà internazionale in quelle che spesso si rivelano essere lunghe lotte per il riconoscimento di sindacati liberi. Grazie a tutti coloro che hanno dato un contributo per risolvere il caso, in particolare grazie a tutte le persone che hanno partecipato al tour italiano nel mese di marzo a fianco di Emine Arslan e Nuran Gulenc e continuano a sostenerci. Il vostro contributo fa davvero la differenza.
Abbiamo ancora bisogno del vostro aiuto! Grazie alla campagna in corso i grandi marchi si sono incontrati per affrontare il caso ma adesso occorre fargli sapere che questo non è abbastanza e che non cesseremo la campagna finchè i lavoratori e le lavoratrici della DESA non otterrano la giustizia che meritano. Vi preghiamo di inviare una mail oggi stesso per chiedere l’apertura del tavolo negoziale ADESSO!
(2009) Prada: il vero prezzo del lusso
Prada: il vero prezzo del lusso
Continua il tour europeo della delegazione turca per chiedere a PRADA un comportamento responsabile
9 MARZO 2009 - Emine Arslan e Nuran Gulenc continuano il loro viaggio per denunciare in quali condizioni vengono confezionati i prodotti dei marchi del lusso europeo e dell'italiana PRADA nell'azienda DESA in Turchia. Dopo l'Italia, dove ha incontrato la Commissione Etica Regiornale toscana e il coordinamento delle RSU di PRADA, la delegazione turca si è diretta a Parigi per la giornata internazionale di protesta tenutasi il 7 marzo davanti ai negozi di Prada a Milano, Parigi, Londra e Madrid.
Oggi, insieme alla Clean Clothes Campaign spagnola, si svolgerà l'incontro con il sindacato spagnolo e El Corte Ingles, importante e famoso marchio cliente di DESA, che ha accettato di incontrare le protagoniste della lotta sindacale che dura da 300 giorni, dimostrando un'attitudine decisamente diversa da quella di PRADA, che non ha invece risposto allo stesso invito pervenuto dai sindacati tessili italiani e dalla Campagna Abiti Puliti.
(2009) Desa: i marchi internazionali devono intervenire
I marchi internazionali devono intervenire
FEBBRAIO 2009 - Nel novembre 2008 la Clean Clothes Campaign e LabourStart hanno lanciato un appello urgente volto a sostenere i lavoratori turchi della DESA ingiustamente licenziati che producevano per alcuni dei più lussuosi marchi europei. Da allora il tribunale turco ha confermato che i lavoratori della DESA sono stati licenziati per attività sindacali; numerosi incontri hanno avuto luogo tra il sindacato e la DESA. Nonostante questo apparente progresso, poco è cambiato per i lavoratori e le lavoratrici nelle fabbriche del lusso.
C’è bisogno di maggiore pressione per spingere la DESA e i suoi clienti ad assumere comportamenti responsabili verso i lavoratori e proteggere il loro diritto a formare un sindacato libero e
indipendente.
Troppe parole, ancora pochi fatti
Il nostro primo appello invitava le imprese committenti a partecipare ad un incontro coordinato dal sindacato internazionale International Textile Garment and Leather Workers Union fissato per il 20 dicembre 2008. A quanto ci risulta nessuno dei committenti ha acconsentito a partecipare.
Fortunatamente per loro, il focus si è spostato dalla necessità di ottenere un incontro tra i committenti quando la DESA ha improvvisamente accettato di incontrare i sindacati per discutere delle loro richieste. Il primo incontro è avvenuto venerdì 19 dicembre e secondo i presenti è stato utile e costruttivo. Tuttavia nessun accordo era stato raggiunto circa il reinserimento dei lavoratori licenziati e pertanto si decise di aggiornare l’incontro al lunedì successivo
Lunedì 22 dicembre i rappresentanti del Deri Is si incontrarono nuovamente con la dirigenza di DESA, ma questa volta l’incontro fu meno fruttuoso; non solo nessun accordo era stato raggiunto, anche il clima era diverso visto che DESA aveva ritrattato su alcuni punti discussi il 19. Nonostante la richiesta del DERI IS di rilasciare un documento che tenesse traccia degli avanzamenti discussi, nulla di scritto è mai pervenuto.
Dal 22 dicembre si sono tenuti diversi altri incontri, l’ultimo il 13 gennaio. Nesun progresso è stato fatto e nessun documento prodotto. Siamo preoccupati che DESA stia oggi utilizzando tali incontri per fermare la campagna, visto che non si capisce perchè l’azienda continui a rifiutare qualunque documento scritto. E’ importante mostrare a DESA che fare incontri su incontri non porta ad una risoluzione ed esortarla a riprendere un approccio positivo allo scopo di giungere ad una risoluzione.
Il tribunale conferma le discriminazioni sindacali
Il 24 dicembre Emine Arslan operaia dalla fabbrica di Sekafoy e altri quattro lavoratori della fabbrica di Düzce sono finalmente riusciti a portare il loro caso in tribunale. Il tribunale ha rilevato che sono stati licenziati in seguito all’attività sindacale e che devono essere reintegrati o adeguatamente risarciti per ingiusto licenziamento. DESA ha presentato ricorso. Il 20 di gennaio, il tribunale ha esaminato altri 3 casi, seguiti da ulteriori 5 il 22 gennaio 2009. Secondo il tribunale, tutti gli 8 lavoratori sono sono stati illegalmente licenziati per motivi sindacali. DESA deve ancora dare risposte in merito alle sentenze, invece di continuare a rifiutare la reintegrazione di Emine e di una serie di altri lavoratori.
Sentenza del tribunale su Emine Arslan
I continui licenziamenti dimostrano la necessità di una rappresentanza sindacale
30 lavoratori licenziati a causa della 'crisi economica' 4 dei quali erano membri del sindacato. Dato che questo è avvenuto nel corso di una controversia in corso, si potrebbe sostenere che, se veramente DESA avesse voluto dar prova di buona fede al Deri Is, avrebbe evitato di licenziare ancora lavoratori loro membri. Questi quattro, Aysen Yilmaz, Nursen Meydan, Serda Yilmaz e Zeki Acar, continuano a lottare per la reintegrazione. Ci risulta che DESA sarebbe d’accordo alla loro reintegrazione se solo i committenti piazzassero ordini di produzione ma nulla stato messo per scritto.
I lavoratori e le lavoratrici in tutto il mondo sono di fronte al rischio di pesanti esuberi a causa della crisi economica mondiale in continuo peggioramento. Non sappiamo se DESA sta davvero afrontando difficoltà finanziarie, o se questo è solo un altro modo di intimidire i lavoratori. In entrambi i casi la situazione rende ancora più urgente la necessità di ottenere il riconoscimento del sindacato e di garantire che i lavoratori siano adeguatamente consultati in caso di qualsiasi piano di esubero futuro.
Dai marchi nessuna assunzione di responsabilità
L'ultimo appello all’azione rivolto ai committenti di DESA non ha prodotto alcun tipo di assunzione di responsabilità per cercare di migliorare le condizioni alla DESA. Questi includono Prada, Mulberry, Nicole Fahri (di proprietà di French Connection), Luella, Samsonite, e Aspinalls di Londra.
Luella and Samsonite non hanno mai risposto alle lettere e neppure hanno contattato il sindacato internazionale ITGLWF, il Deri Is o la Clean Clothes Campaign.
Prada, di gran lunga il principale cliente della DESA, ha risposto alle email della Clean Clothes Campaign italiana e del sindacato ITGLWF ma la risposta è stata deludente. Prada ha semplicemente sottolineato che un audit era stato fatto e nessun problema era stato riscontrato, che membri del sindacato erano in fabbrica così non ci poteva essere un problema di libertà di associazione sindacale e che avrebbe atteso l'esito dei procedimenti giudiziari.
Aspinals of London a novembre ha risposto per dire che stava “investigando”. Non abbiamo più saputo nulla da allora. Nicole Fahri ha detto la stessa cosa e poi ha smesso di rispondere alle email.
Altri marchi coinvolti nel caso, ma non nella campagna includono il gigante spagnolo El Corte Ingles e le aziende di grande distribuzione inglese Marks & Spencer e Debenhams. Essi hanno continuato a essere più attivi rispetto agli altri e hanno contattato DESA per sollevare le loro preoccupazioni. M & S ha anche commissionato un nuovo audit che riteniamo essere più credibile, ma che non è mai stato reso pubblico o condiviso con gli altri marchi, i sindacati e gli attivisti. Nessuno dei marchi ha mostrato disponibilità a lavorare insieme e nessuno ha intrapreso il tipo di azione proattiva necessaria a sostenere una positiva soluzione del caso.
La nostra risposta: abbiamo bisogno di azioni non di ispezioni
la Clean Clothes Campaign ha nuovamente contattato tutti i committenti la scorsa settimana con una lettera congiunta. Con una dichiarazione pubblica il sindacato internazionale ITGLWF, insieme con i sindacati spagnoli, italiani e inglesi ha chiesto loro di intervenire per risolvere caso.
Lettera inviata dalla CCC
Quasi tutti i committenti hanno fatto menzione di audit condotti presso la fabbrica come parte della loro 'risposta' alle accuse. Comprendiamo la necessità di chiarire i fatti, ma questo caso è aperto dall’aprile 2008. I fatti sono noti e piu 'ispezioni' non cambieranno la situazione. L'unico modo per risolvere questo caso è attraverso la negoziazione e le vie legali.
Nessuno dei marchi si è impegnato in una qualunque forma di negoziato, nonostante i ripetuti tentativi per spingerli a farlo. Invitiamo i committenti a chiedere alla DESA di fornire documenti scritti di tutte le riunioni che si svolgono e un report sullo stato di avanzamento del processo negoziale. Li invitiamo nuovamente a prendere parte essi stessi a questo processo partecipando agli incontri sia con il sindacato, sia con DESA.
Prada, insieme ad altri marchi ha dichiarato che "qualora emergessero prove di violazioni di normative giuslavoristiche, comprovate dale autorità turche” sarebbe stata pronta a prendere le misure necessarie. Il tribunale ha confermato tali violazioni ma nel mese successivo alla decisione del giudice, Prada e gli altri si sono dimostrati tutt'altro che disposti a prendere le 'misure necessarie.
I marchi e la DESA devono sapere che la campagna non sarà messa a tacere attraverso il ricorso a riunioni fasulle e inutili indagini. Il tribunale turco ha accolto le denunce fatte dai lavoratori e questo basta. I marchi devono ora prendere le iniziative che hanno promesso per garantire che i lavoratori ottengano la giustizia che meritano.
(2008) Confermato licenziamento Jitra Kotshadej
Il 27 novembre il tribunale del lavoro di Bangkok ha dato ragione alla Body Fashion Thailand (BFT), filiale della multinazionale svizzera dell’intimo Triumph International, che aveva licenziato la presidentessa del sindacato aziendale, Jitra Kotshadej, per essere apparsa il 29 luglio scorso in un programma televisivo sostenendo il diritto dei cittadini thailandesi ad opporsi all’abuso del reato di “lesa maestà”, per esempio il rifiuto di alzarsi in piedi quando viene suonato l’inno reale, utilizzato per reprimere il dissenso politico.
Dopo 45 giorni di sciopero i lavoratori della BFT hanno dovuto riprendere il lavoro accettando la sentenza che avrebbe emesso il tribunale, ma malgrado gli accordi, non sono riusciti a evitare le ritorsioni: ai più attivi è stata ridotta la quantità di lavoro, subiscono molestie e non hanno più diritto ai permessi. Wanphen Wongsombat, la leader sindacale che all’inizio di ottobre aveva incontrato i vertici della Triumph International in Svizzera, senza per altro riuscire a scuoterli dall’immobilismo rispetto alla gravità della violazione di un diritto fondamentale come quello della libertà di espressione, ha ricevuto minacce telefoniche da sconosciuti. Resta in forse l’accordo strappato alla direzione della BFT per mettere in piedi una commissione con il compito di verificare i comportamenti antisindacali e i tentativi di corruzione denunciati dal sindacato nei giorni dello sciopero dei lavoratori. Il sindacato chiede che della commissione facciano parte rappresentanti della casa madre e del consiglio di fabbrica della sede tedesca.
Scrivi a Triumph International per chiederle di tener fede al proprio codice di condotta, di attivarsi contro gli abusi e le discriminazioni, di aderire alla commissione allargando il suo mandato all’esame dei comportamenti antisindacali dopo la fine dello sciopero dell’estate scorsa.
Scrivi nell’oggetto: Implement Triumph code of conduct in BTF outstanding labour issues
http://www.cleanclothes.org/urgent/08-11-06.htm
(2008) Il sindacato è un diritto, non un lusso!
Il sindacato è un diritto, non un lusso!
Ditelo a Prada, Mulberry, Louis Vuitton, Aspinals of London e Samsonite
NOVEMBRE 2008 - Chiunque decide di comprare una borsa di pelle o un paio di guanti di Prada, Mulberry, Louis Vuitton, Aspinals of London e Samsonite probabilmente dà per scontato che pagando prezzi così alti i prodotti in questione siano esenti da abusi e sfruttamento di chi li confeziona.
La realtà invece è molto diversa, come testimoniano i lavoratori della DESA in Turchia. Orari di lavoro eccessivi, salari molto bassi e condizioni pessime sono la norma e da sei mesi l’azienda sta conducendo una campagna di intimidazione contro il sindacato che i lavoratori hanno organizzato per fare valere i propri diritti.
Leggi l'inchiesta de L'Unità (INSERIRE 4 PDF)
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Nell’aprile del 2008, centinaia di lavoratori della DESA hanno deciso di iscriversi al sindacato DERI IS. Da allora 44 sono stati licenziati e altri 50 sono stati obbligati a lasciare il sindacato. La DESA produce articoli di pelletteria per Prada, Mulberry, Louis Vuitton, Samsonite, Aspinals of London, Nicole Fahri e Luella.
I lavoratori stanno lottando e manifestando davanti ai cancelli della DESA nella zona industriale di Düzce per il loro legittimo diritto ad organizzarsi, nonostante la repressione continua e gli arresti da parte della polizia locale. A Emine Arslan, una delle donne leader sindacali dello stabilimento DESA di Instanbul (Sefaköy), è stato offerto denaro per cessare le sue rivendicazioni verso DESA e le manifestazioni davanti alla fabbrica. In seguito al suo rifiuto, la sua famiglia è stata minacciata e alcune ore dopo sua figlia è scampata ad un tentativo di rapimento da parte di un uomo in moto.
La storia di una lavoratrice:Emine Arslan
Solo una piccolissima parte delle centinaia di euro che i consumatori pagano per i prodotti di lusso confezionati in DESA vanno ai lavoratori. Tutti guadagnano pochissimo, fanno orari estenuanti, e soffrono di numerosi disturbi causati da una scarsa attenzione alle condizioni di salute e sicurezza. Denunciano che non ci sono abbastanza servizi igienici per tutti e quelli esistenti sono sudici. L’unica acqua da bere proviene da un buco ricavato nel pavimento del bagno. Il cibo garantito dall’azienda è di scarsa qualità e, senza servizi per la cura e l’assistenza dei bambin, molte lavoratrici sono costrette a lasciare il loro lavoro una volta diventate madri.
Le condizioni di lavoro alla Desa
DESA produce per molti marchi europei e nordamericani. Molti di loro sono stati contattati dall’ ITGLWF e/o dalla Clean Clothes Campaign negli scorsi mesi. Nessuno ha preso le misure necessarie per assicurare che i lavoratori della DESA possano godere dei diritti che gli spettano.
Vi chiediamo di agire subito e di fare pressione sui marchi del lusso perché sostengano il diritto di organizzarsi dei lavoratori della DESA.
(2008) United Business of Benetton
OTTOBRE 2008 - In edizione integrale il libro United business of Benetton: sviluppo insostenibile dal Veneto alla Patagonia di Pericle Camuffo (Stampa Alternativa, 2008) che mostra il dietro le quinte del marchio Benetton dando voce a tante campagne di denuncia dal basso.
(2008) I lavoratori Triumph incontrano i vertici aziendali
OTTOBRE 2008 - Dal 23 settembre al 3 ottobre Wanphen Wongsombat del Triumph International Thailand Labour Union e Premjai Jaikla della Thai Labour Campaign hanno tenuto una serie di incontri pubblici e con i sindacati locali in Germania, Danimarca, Norvegia, Svezia e Svizzera sul caso riguardante Jitra Kotshadej, leader del sindacato della Body Fashion Thailand, licenziata dalla filiale thailandese della multinazionale dell’intimo Triumph International per aver espresso in un contesto privato le proprie opinioni politiche.
La CCC è soddisfatta della visibilità data al caso dalla stampa e della solidarietà ricevuta. Wanphen e Premjai hanno anche incontrato in Germania i vertici di Triumph alla presenza del consiglio di fabbrica tedesco. Il risultato è stato deludente in quanto Triumph continua a respingere ogni richiesta di intervento diretto. Continueremo a seguire il caso
(2008) Commercio equo in Argentina
In Argentina lungo il filo di cotone di un progetto ambizioso di commercio equo
Reportage di Sandra Cangemi - Coordinamento Nord/Sud del Mondo
Giugno 2008 - Questa storia nasce da una serie di incontri casuali. Come quello, nel 2002, tra Harold Picchi, un argentino in fuga dal default argentino, e la cooperativa di commercio equo milanese Chico Mendes. Da cui nasce un progetto che sembra delirante: una filiera tessile (quasi) tutta equa e solidale, nell’Argentina della crisi. Cominciamo dalla fine. Da chi le magliette di questa filiera le cuce.
Anche questo è stato un incontro fortuito. Ce lo raccontano le ragazze del laboratorio di cucito della cooperativa La Juanita, nata dal movimento dei disoccupati de La Matanza, barrio di un paio di milioni di abitanti a un’oretta di macchina da Buenos Aires (quando non piove: perché allora le strade diventano fiumi di fango e di ore ce ne vogliono tre, come è successo a noi). “Nel 2003, stavamo vendendo abiti di tessuti riciclati al mercato solidale di Palermo Viejo (un quartiere di Baires, ndr) e abbiamo incontrato Harold Picchi, che ci ha parlato del progetto. Il laboratorio era nato due anni prima, con un corso di formazione gratuita dell’Università di San Martin. Non avevamo nemmeno le macchine per cucire, le prime tre ce le ha regalate l’ambasciata svizzera. I primi anni cucivamo insieme pezzetti di stoffa riciclata per fare indumenti e coperte.
Per nostra fortuna, abbiamo incontrato molti sognatori. Tra questi appunto Harold, che ci ha aiutato a rafforzarci, a lavorare sui punti critici e a imparare a produrre magliette adeguate al gusto europeo, molto esigente. Il nostro motto? “Rendiamo il lavoro di moda”. L’abbiamo scritto anche su alcune magliette”. L’impegno per la dignità del lavoro e per l’autogestione, il rifiuto di ogni forma di clientelismo e assistenzialismo e la passione per l’educazione alla libertà sono i capisaldi della cooperativa La Juanita, che ha sede in una ex scuola e gestisce anche una casa editrice, un asilo, una panetteria popolare con annessa scuola, un laboratorio di riciclaggio di computer e formazione informatica, un circuito di microcredito, corsi di alfabetizzazione per adulti, un laboratorio di stampa di tessuti.
Anche la cooperativa tessile Juana Azurduy (22 soci in tutto; gestiscono anche una panetteria e una pizzeria e lavorano il ferro)ha sede in una scuola abbandonata di La Plata, città universitaria nei dintorni di Buenos Aires. Pareti coperte di murales, due stanzoni pieni di stoffe e macchine per cucire. Sette ragazze: interrompono il lavoro per raccontarci la loro avventura bevendo mate. “Le macchine le abbiamo comprate con un piccolo finanziamento a fondo perduto del governo federale. Abbiamo iniziato in tre, due anni fa, cucendo grembiuli, uniformi scolastiche e t-shirt che vendevamo alla Sur, la serigrafia di un’altra associazione. E’ grazie alla Sur che abbiamo conosciuto il commercio equo. Ci è sembrato perfetto: proprio quello che cercavamo. Vogliamo un’economia dove le persone sono più importanti dei soldi, senza padroni, che lavori in rete e in solidarietà con altri gruppi del movimento. Non vogliamo produrre per l’economia “normale”, anche se questo vuol dire guadagnare solo il minimo per sopravvivere, per ora”. Le ragazze hanno sistemato le macchine in modo da potersi guardare in faccia, e devono puntare la sveglia sull’orario di uscita perché altrimenti si scorderebbero di andare a casa; mentre lavorano sono praticamente in assemblea permanente, perché qui si decide tutto insieme. “Sotto padrone nulla è tuo, qui invece tutto è nostro. Vuol dire più responsabilità, impegno reciproco, rispetto delle colleghe ma anche dei compagni del movimento, di Altromercato... Ora stiamo cercando di aiutare l’avvio di altri laboratori nel quartiere: diamo formazione, prestiamo le nostre macchine e aiutiamo per la distribuzione dei prodotti”. Risaliamo la filiera scendendo a sud per 600 chilometri. La Textiles Piguè, dove si producono i tessuti per le magliette, è in piena pampa, in una cittadina di 15mila abitanti. La Textiles è una delle 220 imprese recuperate argentine: portate al fallimento da imprenditori irresponsabili, occupate e rimesse in produzione dai lavoratori costituiti in cooperativa, che hanno resistito a una denuncia per usurpazione, a un violento sgombero, al tentativo di acquisto da parte di un fondo finanziario americano, fino a ottenere una sentenza di esproprio temporaneo. L’organizzazione del lavoro, gli investimenti, i salari (quello di base, 800 pesos, è uguale per tutti, poi ci sono indennità di responsabilità, fino a un massimo di 1.100) vengono decisi dall’assemblea dei 130 soci lavoratori, che eleggono anche il Cda, “i cui sette membri sono pagati meno”, spiega il presidente, Francisco Martinez, “perché è un ruolo di servizio, non di potere”. Si lavora in gruppi, ognuno con un responsabile. In quattro anni non c’è stato nessun incidente grave: le norme sulla sicurezza vengono rigorosamente rispettate. E non si scaricano più nel fiume i residui di lavorazione, come quando c’era il padrone; ora c’è il depuratore. Il 5, 6% della produzione è per il commercio equo, ma l’impresa lavora al 30% circa delle sue potenzialità, solo con filati forniti dai committenti, perché l’accesso al credito è un grosso problema. In via di superamento, però: la Textiles è la prima fabbrica recuperata argentina che nel febbraio 2008 ha firmato un accordo con la ministra della produzione per acquistare l’impresa in 10 anni, a un tasso bassissimo (9% annuo, con un’inflazione al 22), grazie a un fondo di fideiussione costituito da Credicoop (una banca cooperativa argentina) e dallo stesso ministero della produzione; altri fondi verranno dalla vendita di un terreno. Potrebbe essere un’esperienza pilota che apre la strada a una legge di espropriazione definitiva e a un fondo agevolato per imprese recuperate. “Il mio sogno”, dice Martinez, “è poter arrivare a salari dignitosi e all’accesso al credito, e poter mettere un giorno la mia esperienza a disposizione della società. Il lavoro nella filiera tessile, il lavoro con i disoccupati organizzati e con i campesinos è già parte di questo sogno”.
A questo punto la filiera salta un anello. I filati vengono prodotti da un’impresa vicina a Buenos Aires che rispetta i criteri della responsabilità socio-ambientale, ma niente di più. “Si tratta di produzioni industriali, dove per ora è praticamente impossibile trovare aziende eque”, spiega Picchi. E anche la tracciabilità dei filati, ufficialmente garantita, non è poi così certa.
Risaliamo verso nord per 1.800 km e arriviamo in Chaco, una delle province più povere. Sono gli indigeni Toba della Union Campesina a produrre il cotone biologico (e di ottima qualità) per le magliette, tra mille difficoltà. Le sementi vengono fornite dal governo provinciale, ma non sempre sono di buona qualità. E mancano macchinari, attrezzi, mezzi di trasporto. Molti non hanno nemmeno il titolo di proprietà delle terre su cui vivono, a causa delle lentezze burocratiche. Non si può fare la rotazione delle colture, anche se eviterebbe l’impoverimento del terreno, perché il governo sussidia solo il cotone. Mancando un ente commerciale in grado di fatturare, anche per l’opposizione dei funzionari del governo provinciale, finora gli indigeni non sono riusciti a ottenere né un vero e proprio contratto, né un prefinanziamento. La grande paura degli indigeni è quella di perdere la terra, cedendo all’offensiva dei latifondisti che producono soia, e ridursi a braccianti. “Il commercio equo ha evitato peggioramenti, ma per adesso non ha ancora prodotto miglioramenti evidenti; del resto, il progetto è iniziato da poco”, spiega Luis Skupien, agronomo e responsabile del progetto in Chaco. “In più, la richiesta sta diminuendo: nel 2008 sono previste solo 90 tonnellate. Ma il problema di base è l’equa distribuzione e la proprietà della terra e degli strumenti di produzione”. Nei campi è iniziato il raccolto: donne e uomini chini sotto il sole nei campi vicino a casa, che può essere una capanna di terra battuta, mattoni e legno o di rami e stracci. Alcuni coltivano mais, manioca, batate e allevano galline, capre o vacche. “Siamo al secondo raccolto”, spiega Esther, sette figli, “ma forse quest’anno non ce ne saranno altri, il seme non è buono. “E per poter comprare i vestiti e le scarpe per mandare a scuola i figli dobbiamo arrivare al quarto, quinto raccolto”.
(2008) Triumph International. nuovo caso di libertà violata
SETTEMBRE 2008 - Dal 30 luglio al 13 settembre più di 2 mila lavoratori della Body Fashion Thailand, filiale del colosso svizzero dell’intimo Triumph International, hanno scioperato per ottenere il reintegro della presidentessa del loro sindacato, Jitra Kotshadej, licenziata il 29 luglio per aver partecipato in veste privata ad un programma televisivo indossando una maglietta con la scritta “Chi non si alza in piedi non è un criminale. Pensarla in modo diverso non è reato”. La scritta si riferisce al diritto dei cittadini thailandesi di non mettersi sull’attenti quando viene suonato l’inno reale e all’abuso del reato di lesa maestà allo scopo di reprimere il dissenso politico.
Dopo 45 giorni di sciopero e la resistenza opposta da Triumph, i lavoratori hanno dovuto accettare un accordo che vincola la riassunzione di Jitra alla decisione del tribunale al quale Jitra si era appellata per ottenere la riapertura del suo caso, dopo che il magistrato aveva avallato con un’ordinanza il suo licenziamento impedendole però di comparire in aula per difendersi. Dopo quello della Fibres and Fabrics International di Bangalore, è la seconda volta in poco meno di un anno che affrontiamo un caso di ingerenza ad opera delle imprese commerciali nella sfera di un diritto universale basilare come quello dell’espressione del pensiero. Dal 23 settembre al 3 ottobre Wanphen Wongsombat dell’International Thailand Labour Union e Premjai Jaikla della Thai Labour Campaign visiteranno cinque paesi europei e cercheranno di incontrare i vertici della Triumph International in Svizzera e in Germania.
(per maggiori informazioni: http://www.cleanclothes.org/urgent/08-09-23.htm)
(2008) REPORT- Olimpiadi: Vincere gli ostacoli - Campagna PlayFair2008
GIUGNO 2008 - Vincere gli ostacoli è il rapporto internazionale della Campagna PlayFair2008 sulle condizioni di lavoro nell'industria sportiva globale che "confeziona" le Olimpiadi di Pechino 2008.
L'edizione italiana, curata dalla Campagna Abiti Puliti, ospita i contributi di Luciano Gallino, ordinario di sociologia all'università di Torino e Valeria Fedeli, presidente della Federazione Sindacale Europea del Tessile Abbigliamento e Cuoio.
In Italia il rapporto è stato presentato da Suki Chung del Labour Action China che ha chiesto un impegno concreto al governo e alle imprese italiane.
(2008) Accordo raggiunto dai lavoratori della A-One in Bangladesh
Accordo raggiunto alla A-One
I lavoratori illegalmente licenziati dal fornitore della italiana Tessival accettano il pagamento della liquidazione dopo due anni di lotta.
FEBBRAIO 2008 - Dopo due anni di lotta per la giustizia, 50 lavoratori della A-One in Bangladesh hanno finalmente ricevuto una compensazione dall’impresa italiana Tessival, unico cliente rimasto.
I lavoratori, che hanno ricevuto la somma di 5.000 Taka ciascuno (53,50 euro), erano stati licenziati nell’Ottobre 2005, dopo avere partecipato alle elezioni di un Comitato interno di Rappresentanza (WRWC) alla A.One, fabbrica situata nella Zona Franca per l’Esportazione (EPZ) di Dhaka. Sebbene i lavoratori avessero chiesto il reintegro in fabbrica, sono stati alla fine costretti ad accettare il risarcimento per fare fronte ai bisogni delle loro famiglie. La A-One era fornitore di diverse imprese internazionali, incluse Tessival, Coin, Tchibo, Miles e C&A.
I lavoratori della A-One e i loro difensori ringraziano quanti hanno dato il loro contributo e supporto in questi due anni. Il sostegno della campagna internazionale ha consentito il raggiungimento di un accordo, seppur parziale.
La campagna di A-One contro l’affermazione dei diritti dei lavoratori.
Le violazioni delle condizioni di lavoro alla A-One nel 2005 includevano l’ostacolo alla libertà di associazione sindacale, lo straordinario obbligatorio, salari sotto il mimino e orari estenuanti. Quando il management decise di licenziare il Comitato di Rappresentanza eletto e altri 246 lavoratori, gli operai cominciarono una protesta pacifica durata 10 mesi. I licenziamenti erano parte della strategia di A-One per scoraggiare il tentativo di organizzazione sindacale in fabbrica, nonostante le regole della EPZ prevedessero la possibilità di eleggere comitati interni di rappresentanza.
Nel giugno 2006, i lavoratori tessili del Bangladesh, inclusi quelli della A-One, si riversarono nelle strade per protestare contro le insopportabili condizioni di lavoro e le ripetute violazioni nelle EPZ. Dopo che il governo Bengalese si era impegnato a aumentare il salario minimo e ad assumere posizioni chiare contrarie agli industriali che rifiutavano di rispettare misure elementari di salute e sicurezza, le proteste si placarono. La A-One, che aveva chiuso durante le manifestazioni, riaprì, ma I 255 lavoratori non furono riassunti. 50 lavoratori continuarono a battersi per il reintegro mentre il resto fu costretto ad accettare un’insufficiente liquidazione e a cercare un nuovo posto lavoro.
Tessival ha pagato la liquidizione, ma ha fallito il compito di fare quanto in suo potere per ottenere giustizia
Quando la A-One riaprì, Tessival era l’unico cliente europeo rimasto. Gli indumenti prodotti alla A-One erano distribuiti sul mercato con il marchio Herod, posseduto da Tessival, ma anche con il marchio Oviesse del gruppo Coin, che utilizzava Tessival come proprio agente.
Il 15 Febbraio 2007, la CCC aveva incontrato Tessival per cercare una soluzione peri rimanenti 50 lavoratori. Tessival rifiutò di fare pressione sul suo fornitore per la loro riassunzione, e offrì invece di pagare direttamente la liquidazione. I 50 lavoratori valutarono di non avere altra scelta se non quella di accettare il pagamento della somma, pervenuta il 25 di ottobre 2007, direttamente dalla Tessival.
La CCC è fortemente delusa dal fatto che nessuno dei committenti della A-One abbia seriamente lavorato per attuare il rispetto della libertà di associazione sindacale, per quanto debole, nella EZ di Dhaka.
Questo è particolarmente grave dato che era stato raggiunto un accordo preliminare il 7 Marzo del 2006 tra il cliente Tedesco Tchibo, il suo agente Systain, il management di A-One e l’ ITGLWF che prevedeva il reintegro dei lavoratori e l’insediamento del Comitato di Rappresentanza. Purtroppo l’accordo non è mai entrato in vigore.
Quale ultimo cliente rimasto, il rifiuto della Tessival di utilizzare il suo potere contrattuale per chiedere il reintegro dei lavoratori alla A-One è da ritenersi del tutto insoddisfacente. Tuttavia, la CCC riconosce la volontà della Tessilval di pagare la liquidazione spettante ai 50 lavaoratori, come un primo passo nella direzione di assumere la responsabilà per il rispetto degli standard sociali nella sua catena di fonitura.
(2008) A tre anni dal crollo della Spectrum ancora ritardi nei risarcimenti
MAGGIO 2008 - L’11 aprile scorso cadeva il terzo anniversario del crollo della Spectrum, maglificio per l’esportazione installato alla periferia di Dhaka in un edificio abusivo. Nel crollo sono morte 64 persone e 80 sono rimaste ferite. Il fondo per il risarcimento costituito da alcuni committenti europei, Inditex (Zara), KarstadtQuelle, New Wave Group, Scapino e Solo Invest, ha avuto un inizio difficile, anche a causa della situazione politica del paese, e si è limitato nell’aprile scorso alla distribuzione a 22 persone di una tranche di 3mila dollari sul primo stanziamento quantificato in 60mila dollari.
Da allora i progressi sono stati molto lenti, con non più di 75 dollari aggiuntivi erogati a persona. Le cure mediche continuano ad essere regolarmente somministrate. I sindacati tessili del Bangladesh hanno indetto una conferenza stampa nel giorno dell’anniversario per denunciare l’incompleta attuazione dei programmi di risarcimento. La Clean Clothes Campaign continua a chiedere l’adesione al fondo alle aziende che non l’hanno ancora fatto, Carrefour in testa.
(2008) Codici di condotta
Cosa dovrebbero fare le imprese per migliorare il rispetto dei diritti dei lavoratori lungo l'intera filiera produttiva?
APRILE 2008 - Le campagne di successo condotte dalla CCC insieme ai difensori dei diritti del lavoro in tutto il mondo hanno spinto molte imprese ad adottare "codici di condotta", una lista di standard che i fornitori devono rispettare. La CCC spinge le imprese a rendere questi strumenti davvero significativi rinforzandoli con l'adozione di stringenti meccanismi di monitoraggio, di risoluzione delle controversie e l'adozione di pratiche commerciali che consentano ai fornitori di garantire condizioni di lavoro dignitose per un salario vivibile.
La CCC ha messo a punto uno strumento completo di analisi e proposta che indica alle imprese i passi concreti da compiere per assicurare che i loro prodotti siano confezionati rispettando i diritti dei lavoratori:
Primo passo - adottare un codice di condotta completo, credibile e trasparente basato sulle Convenzioni Internazionali dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro e sulla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.
Secondo passo - implementare il codice di condotta con disposizioni per il monitoraggio, i sistemi di verifica, le pratiche di acquisto, la collaborazione a livello settoriale con altre imprese e l'attenzione alle problematiche di genere
Terzo passo - partecipare ad una iniziativa multi-stakeholder credibile che coinvolge nel miglioramento delle pratiche imprese, sindacati, ONG e soprattutto i lavoratori delle fabbriche
Quarto passo - addottare un approccio proattivo e positivo verso la libertà di associazione sindacale di genuina contrattazione collettiva
(2008) Il punto sulle nuove norme ISO 26000 sulla RSI
di Ornella Cilona CGIL Nazionale
FEBBRAIO 2008 - Slitta al 2010 la pubblicazione di Iso 26000, le linee guida sulla responsabilità sociale delle organizzazioni su cui sta lavorando un apposito gruppo di lavoro all’interno dell’International Standards Organization (Iso). Molti esperti hanno, infatti, chiesto all’Iso di ritardare di qualche mese la conclusione dei lavori, in modo da giungere a un testo più accurato e completo su materie fondamentali come la difesa dei diritti dei lavoratori e dei consumatori. La decisione è stata presa al termine dell’ultima riunione del gruppo, svoltasi a Vienna lo scorso novembre, dopo un’animata discussione. I vertici dell’Iso - che premevano per una rapida approvazione di Iso 26000 – hanno alla fine accettato lo slittamento, dopo aver preso atto che alcune categorie di stakeholder erano irremovibili nella propria decisione.
Una seconda decisione assunta a Vienna ha riguardato le procedure. Come è noto, per la prima volta collaborano fin dall’inizio alla redazione di una norma Iso rappresentanti di sei categorie di parti interessate: consumatori, associazioni imprenditoriali, sindacati, Ong, governi e ricercatori (fra questi ultimi troviamo docenti universitari ed esponenti di società di certificazione). Le rigide regole Iso per quanto riguarda la stesura delle norme si sono così incontrate e scontrate con le esigenze di rappresentanti delle parti sociali, della società civile e della pubblica amministrazione provenienti da tutto il mondo: il gruppo di lavoro di Iso 26000 è, infatti, composto di oltre 300 esperti, la metà dei quali proviene da Paesi in via di sviluppo. Fino a oggi, il gruppo, che ha iniziato a riunirsi formalmente agli inizi del 2005, ha assegnato un ampio spazio alle posizioni delle diverse parti interessate, intese come gruppi di stakeholder al di là della loro provenienza geografica. L’Iso, però, intendeva spostare già nei prossimi mesi l’asse delle decisioni verso il livello nazionale, così come prevedono le procedure. In ogni Paese dove vi è un organismo aderente all’Iso opera, infatti, un Comitato formato dai rappresentanti delle parti interessate e dell’ente locale di normazione, che ha l’obiettivo di contribuire alla messa a punto di Iso 26000. In questi Comitati nazionali spesso mancano però i rappresentanti dei consumatori, dei sindacati e delle Ong, come dimostra il fatto che nel gruppo Iso 26000 è molto scarsa la partecipazione soprattutto delle prime due categorie (all’ultima riunione, per fare un esempio, i sindacalisti presenti, su un totale di 300 esperti, erano appena una quindicina). A frenare la loro partecipazione sono sostanzialmente due fattori: i costi elevati che comporta la partecipazione alle riunioni di Iso 26000 e l’insufficiente attenzione che molti enti nazionali di normazione dedicano al coinvolgimento degli stakeholder. Alla fine, l’Iso ha convenuto che occorre dedicare ancora del tempo per il rafforzamento dei Comitati nazionali, prima di affidare a questi ultimi un ruolo decisivo nell’approvazione delle linee guida sulla responsabilità sociale.
Per quanto riguarda i contenuti di Iso 26000, sono stati compiuti alcuni importanti passi in avanti nei mesi scorsi. Esiste ormai una bozza di testo, che registra i punti acquisiti e quelli sui quali ancora non si è raggiunto un consenso. Il meccanismo prevede, infatti, che sui contenuti non si voti a maggioranza, ma si cerchi di raggiungere il consenso da parte di tutte e sei le categorie di parti interessate. Vi sono ancora molte questioni aperte e proprio per ottenere un accordo trasparente e un pieno coinvolgimento degli esperti è stato deciso a Vienna di istituire un gruppo di pilotaggio, chiamato Idtf (Integrated Drafting Task Force), composto di esponenti dell’Iso e delle parti interessate, che proverà a sciogliere i nodi ancora in discussione prima della prossima riunione, prevista per l’estate.
Il sindacato italiano collabora attivamente a Iso 26000 fin dall’inizio del processo, grazie anche al ruolo di stimolo e di discussione sulla materia assunto nel nostro Paese dall’Uni, l’ente di normazione che aderisce all’Iso. L’Uni ha, infatti, costituito un gruppo di lavoro sulla responsabilità sociale ben prima che di questo tema se ne discutesse a livello internazionale e questo gruppo, composto di rappresentanti delle parti sociali, della società civile e del governo, è ora uno di quelli più impegnati in Europa nella messa a punto di Iso 26000. L’impegno della Cgil, che coordina il tavolo Uni, in rappresentanza anche di Cisl e Uil, è stato peraltro recentemente confermato dalla sua nomina nel Comitato di pilotaggio Idtf per Iso 26000. Si tratta di un riconoscimento importante, poiché la Cgil è l’unico sindacato europeo a farne parte.
(2008) Imprese italiane del tessile e della grande distribuzione in Birmania
Le risposte al nostro questionario inviato alle imprese presenti nella lista nera della CISL
a cura di Ersilia Monti
FEBBRAIO 2008 - Come ricorderete, il sindacato italiano CISL ha reso pubblica nell’autunno scorso la lista delle imprese italiane che commerciano con il regime birmano (vedi Newsletter n. 7, ottobre 2007). Abbiamo inviato un questionario alle imprese del tessile-abbigliamento e della grande distribuzione presenti nella lista: Anzi Besson, Arena Italia, Asics Italia, Auchan, Conceria Masini, Conte of Florence, Cose di Lana, Gariglio Confezioni, Gruppo Coin, Inticom, Monnalisa, Nencini Sport, Zeus Sport. Non siamo riusciti a rintracciare i recapiti di I.T. Italtessile che figura per altro nella parte alta della lista e di Six Jeans; non sono state contattate per difficoltà diverse Gruppo Pam, Centro Moda, Sport Up. Alcune imprese possono esserci sfuggite in quanto non facilmente identificabili.
Ecco le risposte in sintesi:
ANZI BESSON (azienda torinese fornitrice di abbigliamento per lo sci per sei squadre nazionali): non risponde al questionario. Contattata telefonicamente, la responsabile marketing e comunicazione dichiara che l’azienda non ha rapporti con la Birmania ma non ritiene di rispondere a domande né nello specifico né in generale sulle politiche commerciali aziendali.
ARENA ITALIA (azienda di Macerata parte di un gruppo internazionale, abbigliamento per il nuoto): ha risposto al questionario. Dichiara di aver cessato i rapporti commerciali con aziende produttive in Birmania dai primi mesi del 2007. Riguardo alle garanzie richieste ai fornitori, afferma: “Compatibilmente con l’esistenza di un panel di fornitori piuttosto ricco, che annualmente comporta avvicendamenti “fisiologici” con l’ingresso di nuovi partner e la dismissione di altri, ciascuna relazione tra Arena e ogni singolo partner/produttore è regolata da un formale contratto di fornitura […] ciascun contratto contiene una appendice interamente dedicata al codice etico di comportamento che Arena considera come prerequisito fondamentale per iniziare un percorso comune con qualsiasi azienda partner […] Gli impegni richiesti in sede contrattuale costituiscono i presupposti su cui si innestano le nostre periodiche visite ispettive”. Allega copia del codice di condotta
ASICS ITALIA: non risponde al questionario. Contattato telefonicamente, il responsabile ufficio acquisti dichiara che l’azienda ha interrotto gli approvvigionamenti dalla Birmania dal gennaio 2007. Non fornisce precisazioni in merito alle garanzie socio-ambientali richieste ai fornitori.
AUCHAN: ha risposto al questionario. Dichiara di aver effettuato un’unica importazione dalla Birmania per una tipologia di prodotto tessile, cessata dopo aver accertato, nel maggio 2007, che il partner commerciale cinese si riforniva per quello specifico prodotto in Birmania. Non esclude che possano trovarsi sugli scaffali degli ipermercati Auchan alcuni esemplari del prodotto in questione fino all’esaurimento delle scorte. Riguardo alle garanzie richieste ai fornitori, afferma: “Auchan pretende che tutti i lavoratori della filiera produttiva siano trattati con dignità e rispetto, in un ambiente sicuro e sano. La nostra volontà è di commercializzare prodotti realizzati in ottemperanza ai principi di etica commerciale, che rispettino i requisiti legali ed i diritti di proprietà intellettuale. Per rafforzare questo impegno, Auchan ha sviluppato un Codice di Etica Commerciale che racchiude i principi e gli standard operativi e condiviso questo codice con tutti i fornitori per garantire che le pratiche di business di tutta la filiera siano assolutamente coerenti. Auchan ha chiesto a tutti i fornitori di sottoscrivere formalmente l’impegno ad aderire ai nostri principi, e ad adottare le azioni necessarie per aderirvi in modo sostanziale. I temi sui quali il nostro Codice di Etica Commercial esige il rispetto degli standard sono vari e vanno dal divieto del lavoro minorile e del lavoro forzato all’obbligo di garantire un luogo di lavoro sano e sicuro, dall’orario di lavoro ai salari minimi, dalla libertà sindacale ai divieti di discriminazioni”. Non allega copia del codice di condotta.
CONCERIA MASINI (azienda di Pisa, trattamento pelli per calzature): non risponde al questionario; ripetuti tentativi di contatto telefonico infruttuosi.
CONTE OF FLORENCE (azienda di Firenze, abbigliamento per lo sport e il tempo libero): fornisce una risposta parziale. Dichiara di aver interrotto i rapporti con partner commerciali che si rifornivano in Birmania, per ragioni non dipendenti dalla risoluzione OIL della quale l’azienda non era a conoscenza, a partire dalla stagione 2004/05. Aggiunge che i volumi trattati non erano per l’azienda significativi. Non fornisce precisazioni in merito alle garanzie socio-ambientali richieste ai fornitori.
COSE DI LANA (azienda di Arezzo, maglieria): non risponde al questionario. Contattato telefonicamente, il responsabile importazioni dichiara che l’azienda non ha rapporti con la Birmania, ma si riserva di svolgere un’indagine interna. Nessuna reazione successiva.
GARIGLIO CONFEZIONI (azienda di Vercelli, impermeabili e cappotti): non risponde al questionario. Contattata telefonicamente, la segreteria aziendale conferma la ricezione della richiesta ma non garantisce la risposta dei titolari. Nessuna reazione successiva.
GRUPPO COIN: ha risposto al questionario. Dichiara di aver realizzato un’unica produzione di camiceria uomo con un unico fornitore in Birmania e di aver in seguito deciso di cessare le importazioni nonostante l’azienda in questione rispettasse gli standard prescritti dal gruppo. Riguardo alle garanzie richieste ai fornitori, afferma: “Tutti i nostri fornitori, prima di entrare a far parte del nostro parco dei “fornitori nominati”, devono sottoscrivere un impegno [di tipo etico, con riferimento anche al] lavoro minorile, tema rispetto al quale siamo particolarmente sensibili. Prima di iniziare qualsiasi relazione con il gruppo, i fornitori vengono sottoposti ad audit da parte di aziende internazionali esperte in materia per verificare che quanto dichiarato corrisponda alla realtà. Una volta superato l’audit ed instaurato un rapporto commerciale, saltuariamente personale del gruppo Coin appositamente addestrato effettua quotidianamente, a rotazione, dei controlli sui fornitori. Anche nel caso dell’azienda birmana abbiamo effettuato quanto dichiarato”.
INTICOM (azienda di Varese, intimo femminile con marchio Yamamay): non risponde al questionario. Contattato telefonicamente, il responsabile acquisti e importazioni dichiara di essere a conoscenza di un’unica operazione commerciale con la Birmania mai realizzata. Si riserva di verificare e di rispondere. Nessuna reazione successiva.
MONNALISA (azienda di Arezzo, abbigliamento per bambine): ha risposto al questionario. Dichiara che una ricerca accurata svolta nell’intera catena di fornitura dell’azienda al ricevimento del questionario non ha evidenziato alcun tipo di relazione commerciale con la Birmania. Ritiene possa trattarsi di un caso di omonimia con un’altra azienda e comunica di aver avviato un’indagine in merito chiedendo la collaborazione del sindacato. Riguardo alle garanzie richieste ai fornitori, afferma: “Due volte l’anno, abitualmente, visitiamo i laboratori esteri che lavorano per noi e ci avvaliamo di un servizio internazionale di controllo tramite SGS International per le aziende più lontane, nel rispetto della norma SA8000 alla quale abbiamo aderito e che ci contraddistingue dal 2002”.
NENCINI SPORT (distributore di articoli sportivi nel centro Italia): non risponde al questionario. Contattato telefonicamente, il direttore generale dichiara che l’azienda non importa dalla Birmania. Si riserva di verificare e di rispondere. Nessuna reazione successiva.
ZEUS SPORT (azienda di Napoli, abbigliamento sportivo): non risponde al questionario. Dopo un contatto telefonico viene rispedito il questionario. Nessuna reazione successiva.
(2008) Moda e pellicce:cresce la strage di animali
La lista dei peggiori stilisti e di chi ha fatto una scelta di civiltà
di Ersilia Monti
GENNAIO 2008 - Ogni anno oltre 40 milioni di animali allevati o catturati vengono uccisi per la loro pelliccia, 300 mila solo in Italia. Gli animali da allevamento trascorrono la loro breve vita (7-8 mesi) in gabbie strettissime, le zampe lacerate dal fondo in rete metallica, esposti al vento e al freddo per infoltirne il pelo. Vengono uccisi nei modi più barbari, con scosse elettriche per via anale e genitale, asfissiati in camere a gas, per rottura delle ossa cervicali, con iniezioni di stricnina.
Ogni anno milioni di animali selvatici sono vittime di trappole, un metodo di cattura crudele che l’Unione Europea ha vietato pur continuando ad importare dal Canada pellicce di animali uccisi in questo modo (linci, volpi, lontre, castori). L’Italia è anche importatrice di pelli di cuccioli appartenenti a diversi specie di foche e otarie.
Le specie più utilizzate dall’industria della pelliccia sono i conigli, i visoni e le volpi, ma anche cincillà, foche, marmotte e coyote. Il numero di animali sacrificati per confezionare una sola pelliccia dà i brividi: dai 10 ai 24 per la volpe, dai 30 ai 60 per il visone, fino a oltre 200 per l’ermellino e il cincillà. Lo scorso anno il governo italiano ha posto delle restrizioni agli allevamenti e dal dicembre 2008 non sarà più possibile importare nell’Unione Europea pellicce di cani e gatti. Queste ultime rappresentano l’ultimo grande business dell’industria della pelliccia che è riuscita in pochi anni a rilanciare un settore dall’immagine appannata introducendo attraverso la grande distribuzione, oltre che nei negozi delle griffe, capi e accessori addizionati di inserti e orlature in pelo di animali domestici a prezzi bassi, per lo più di origine cinese, camuffandone la provenienza in etichetta (se presente) con nomi di fantasia: asian jackal, wildcat, special skin, sobaki, asiatic racoonwolf, ecc. La verità è che fare applicare le leggi in assenza di controlli e obblighi di etichettatura di origine è estremamente difficile. Malgrado ciò è stato possibile alle associazioni animaliste italiane, grazie a campagne di pressione incisive e partecipate, ottenere lo scorso anno l’impegno ufficiale da parte del gruppo Rinascente e di Upim di cessare la commercializzazione di capi con pelo animale (già nel 2007 Upim e nella stagione autunno/inverno 2008 La Rinascente). Il gruppo Coin ha annunciato il 25 gennaio scorso che adotterà un politica “fur free” graduale in un arco di tempo fra il 2008 e il 2011.
L’Associazione Animalisti Italiani ha steso un elenco degli stilisti “più cattivi” (vedi “Dossier pellicce 2007 http://www.animalisti.it/prg/upload/campagne_dati/DOSSIER%20PELLICCE%20%202007%20pdf.pdf), che sono Roberto Cavalli (utilizza pellicce di ogni specie animale: lupi, giaguari volpi, leopardi, cavallini e pitoni), Dolce & Gabbana (nel 2004 hanno prodotto addirittura pellicce per bambine), Prada (è uno dei pochi stilisti in Europa ad utilizzare ancora pelli di foca), Simonetta Ravizza (ha fatto della pelliccia una cifra stilistica; a breve uscirà una sua linea di sneaker Superga foderate in pelo), Donatella Versace (per la sua cocciutaggine gli animalisti hanno coniato per lei uno slogan ad hoc: “La pelliccia è portata da animali stupendi e persone orrende”), Giorgio Armani (si dichiara contrario alle pellicce ma le usa nei capi di alta moda perché, ha dichiarato ai giornalisti, la pelliccia fa subito “couture”). Si rifiutano di creare modelli con pellicce gli stilisti Stella McCartney, Todd Oldham, Calvin Klein, Betsey Johnson, Mark Bouwer. La griffe americana Guess ha ceduto alle pressioni e promette di diventare “fur free” dall’autunno/inverno 2008.
L’Associazione Italiana Pellicceria, per proteggere un giro d’affari di quasi 2 miliardi di euro dai tassi di crescita promettenti, ha presentato nel novembre 2007 un progetto di etichettatura volontaria con il quale si propone di garantire la provenienza delle pelli e il rispetto delle leggi sul benessere animale.
Per seguire le campagne animaliste: www.oipaitalia.com, www.animalisti.it/, www.campagnaaip.net/
(2008) Chiuso il caso FFI
Se dovessero esserci denunce da parte dei lavoratori, delle organizzazioni locali, della CCC e dell’ICN riguardo alle condizioni di lavoro negli stabilimenti, esse potranno essere sottoposte all’Ombudsman che tenterà di trovare una soluzione. I lavoratori saranno liberi di organizzarsi in un sindacato liberamente scelto.
Sulla base di questo accordo, la Clean Clothes Campaign e l’ICN sono fiduciosi che qualunque violazione dei diritti sarà comunicata tempestivamente e risolta nel modo giusto. Le parti pertanto richiedono al tribunale di non dare seguito alla richiesta di giudizio per le differenze di opinioni emerse e per le accuse avanzate dalle organizzazioni locali e contestate dalla FFI/JKPL, così come per gli eventi occorsi negli anni 2005-2006. Pertanto la FFI ritira tutti i procedimenti legali e la CCC e l’ICN pongono fine alla campagna di pressione verso la FFI/JKPL e l’impresa olandese G-Star. La CCC e l’ICN accolgono molto positivamente la notizia che la G-Star, il cliente più importante della FFI/JKPL, intende riavviare le sue relazioni commerciali con la FFI/JKPL:
Di seguito il comunicato stampa del ministro ed ex-primo ministro olandese, Ruud Lubbers, che ha condotto il processo di mediazione dallo scorso Dicembre 2007.
I report consultabili nei nostri archivi sono basati sulle interviste con i lavoratori della FFI/JKPL, condotte da organizzazioni locali indipendenti di Bangalore.
Nel corso del 2006 era emerso che molte delle violazioni rilevate presso le unità produttive della FFI/JKPL erano state risolte. I report qui presenti pertanto non offrono un quadro della situazione attuale presso la FFI/JKPL ma, unitamente alle altre informazioni che troverete in questa sezione del sito, costituiscono la memoria storica di questo caso.
Approssimativamente nello stesso momento in cui veniva reso pubblico il report contente notizie positive circa il miglioramento delle violazioni riscontrate alla FFI/JKPL, l’impresa indiana ha avviato un procedimento legale per diffamazione nei confronti delle organizzazioni locali.
La CCC and ICN hanno difeso la propria posizione, chiarendo con nettezza che una vera politica di responsabilità sociale richiede, quali premesse, un dialogo libero e aperto con gli stakeholder locali e con organizzazioni esterne e indipendenti. Hanno inoltre messo in evidenza come il procedimento legale pregiudicasse l’esercizio della libertà di parola e dell’associazione sindacale, ottenendo l’appoggio di molte ong e sindacati.
Con il ritiro della denuncia per diffamazione e degli altri procedimenti penali e con l’incarico di un ombudsman, la situazione si è normalizzata e le parti possono procedere ad affrontare le questioni all’ordine del giorno.
La CCC pubblicherà regolarmente i report relativi alle attività dell’ombudsmen nell’archivio del caso.
(2007) Intervista a Sabrina Giannini, autrice di "Schiavi del lusso" (Report, RAI3, 2.12.2007)
(Report, RAI3, 2.12.2007)
a cura di Ersilia Monti
DICEMBRE 2007 - Intervista stimolo per utili riflessioni sul concetto di lusso e di qualità. Sono necessariamente sinonimi? I retroscena del mondo della moda e le responsabilità dei mezzi di informazione per un "made in Italy" ormai solo di facciata.
(2007) Interrogazione al Governo sul caso FFI
DICEMBRE 2007 - Gli onorevoli Mantovani, Siniscalchi e Rashid hanno presentato una interrogazione parlamentare a risposta immediata alla Commissione Affari Esteri con l'obiettivo di chiedere al Governo quali iniziative intende intraprendere per promuovere la difesa dei diritti umani e dei diritti sindacali dei lavoratori vittime di gravi abusi e violazioni denunciate dalla Campagna Abiti Puliti e impiegati per la produzione di marchi come Gstar, Mexx, Tommy Hilfiger, Gap, Guess e gli italiani Armani e Rare.
(2007) Lettera aperta a Oliviero Toscani
Fra poco calerà il sipario mediatico sulla sua ultima campagna commerciale a sfondo sociale, intorno al tema dell’anoressia, e con questa sulle polemiche innescate dalla decisione del giurì dell’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria di intimare ai suoi associati il ritiro delle affissioni.
Lei avrà concluso il suo lavoro con una certa dose di “successo” in più, il suo committente Flash&Partners, proprietario dei marchi RaRe e Nolita, tirerà le somme della sua esposizione pubblica, forse raccogliendo il lustro sperato per i suoi fino a ieri oscuri marchi della moda. Il tempo dirà quale beneficio sociale abbia portato tutto questo. A giudizio delle associazioni dei malati di anoressia, nessuno.
Resteranno la censura, il sopruso, la negazione della libertà di espressione. Questi sì. Ma non nel senso che intende lei. Di una ben più grave censura è corresponsabile proprio la Flash&Partners, che appalta la produzione a una importante azienda indiana, la Fibres & Fabrics International (FFI), solita confezionare i suoi jeans in condizioni di lavoro ritenute indegne dai lavoratori intervistati. Di fronte alla denuncia di tali condizioni, la FFI ha reagito portando in tribunale associazioni e sindacati con l’obiettivo di silenziare tutti. E per la prima volta nella storia della nostra campagna - la Clean Clothes Campaign(CCC)-, è stato spiccato un mandato di cattura per alcuni attivisti europei, rei di avere diffuso informazioni circa le violazioni in corso.
Proprio in questi giorni un tribunale di Bangalore sta decidendo della speranza di trovare ascolto fra i creatori e i consumatori di moda del nostro ricco e viziato mercato per migliaia di mal pagati e abusati lavoratori indiani della FFI. Un SOS che non vogliono più affidare a una bottiglia nell’oceano della loro deriva sociale. Per questo da oltre quindici anni la nostra rete internazionale – la CCC -, lavora per difendere i diritti dei lavoratori del tessile dando loro voce nei paesi dei consumatori finali.
Sarà ancora possibile per i lavoratori difendere i loro diritti dopo che un provvedimento restrittivo della libertà di espressione, emesso dal tribunale, chiude ormai da oltre un anno la bocca ai sindacati e alle organizzazioni della società civile di Bangalore, pena alcuni anni di carcere? Sarà ancora possibile il nostro impegno se a breve il mandato di arresto che ha colpito il nostro staff europeo ci inseguirà in tutti i paesi che hanno in vigore un accordo di estradizione con il governo indiano? E tutto questo solo perchè si è avuto il coraggio di togliere il velo su quello che accade dietro i cancelli della FFI.
Se vuole conoscere i reati di cui i lavoratori della FFI si sono macchiati, e noi con loro, non ha da far altro che chiedere a Flash&Partners che, oltre ad essere il committente della sua campagna sull’anoressia, è anche il committente di FFI per i propri jeans, e da più di un anno tace sulle denunce contenute in un rapporto circostanziato, frutto di indagini e delle testimonianze raccolte dalle organizzazioni oggi condannate al silenzio.
La censura esiste – in questo siamo d’accordo con lei – con una differenza: porta notorietà a lei e paradossalmente rafforza il potere economico al quale, per sua stessa ammissione, la lega un rapporto di mutua assistenza. Contemporaneamente però condanna altri all’invisibilità e alla negazione del diritto a una vita degna.
Ha ragione quando dice, come riportano i giornali, che il nostro paese è conosciuto all’estero più per le borse e le scarpe che per i prodotti dell’ingegno. Non perchè sono “prodotti da terzo mondo”, ma proprio perchè sono prodotti nel terzo mondo. Infatti, Flash&Partners indica nel suo sito la strategia della delocalizzazione come uno dei capisaldi del suo successo e dei vantaggi competitivi che caratterizzano i suoi marchi. E ciò si ottiene con una politica di “consegne” e di “flash stagionali” per assecondare le “esigenze di un mercato sempre più affannato alla ricerca della novità”. Traducendo, Flash&Partners agisce nella più classica logica di mercato, quella che nel settore della moda ha fatto del consumo effimero e veloce la sua ragion d’essere, e della riduzione drastica dei tempi di consegna e dei prezzi il suo strumento.
Senza curarsi tuttavia delle conseguenze che questo tipo politica comporta, e che i dipendenti indiani di FFI hanno raccontato in dettaglio: ritmi produttivi insostenibili, straordinari obbligatori e non pagati, abusi fisici e verbali, lavorazioni nocive, divieto di attività sindacale.
Sui tabelloni a marchio Nolita, che fino a pochi giorni fa campeggiavano nelle strade delle nostre città, al posto di una modella anoressica a mostrare senza veli i segni della sua malattia, poteva a buon diritto, e con altrettanto impatto, comparire un’altra nudità: quella di un povero ragazzo spogliato e picchiato di fronte ai compagni di lavoro all’unico scopo di intimidirli.
L’anoressia è una malattia del nostro tempo, che in altra forma colpisce anche i lavoratori indiani di Flash&Partners, per troppa fame repressa di dignità, di salario, di libertà di espressione e di organizzazione.
Un record negativo in più rende il nostro paese riconoscibile: le sue aziende di prodotti della moda sono sempre le ultime a poter dimostrare di aver assunto impegni di responsabilità sociale. Su sette imprese committenti internazionali, Armani e Flash&Partners sono le uniche a non aver mai risposto ai ripetuti
appelli a intervenire presso il loro fornitore per chiedere il ripristino della libertà di espressione, appelli avanzati dalla nostra campagna e dai tanti cittadini e consumatori che vi hanno aderito.
Se per Flash&Partners “l’intento aziendale è quello di usare i mezzi pubblicitari come strumento di sensibilizzazione ai mali sociali”, come dichiara, perché tace colpevolmente?
Dato che lei ama definirsi “testimone del proprio tempo”, la invitiamo ad aiutarci a rendere evidente quale desolazione sociale sta dietro il denaro che rende possibile il suo lavoro. Saremo felici di incontrare lei e la sua impresa committente per discutere di tutto questo. Contro la censura e la negazione del diritto alla parola non c’è altro tempo da perdere.
Per la Campagna Abiti Puliti
Francesco Gesualdi
Deborah Lucchetti
Ersilia Monti
RISPOSTA DI OLIVIERO TOSCANI
Siamo alla ricerca disperata di qualcuno [qualcuno che non siamo noi, possibilmente ben identificabile in un «nemico»] che ci sollevi dal senso di colpa. Il senso di colpa generico, ma non per questo meno fastidioso, che ci coglie tutte le volte che la povertà e l’ingiustizia si rivelano ai nostri occhi distratti.
Siamo alla ricerca di qualcuno contro cui prendersela, possibilmente con nome e cognome, ogni qual volta il degrado della vita che viviamo colpisce in modo visibile un debole, un emarginato, una vittima.
I palloni garantiti «cuciti senza impiego di manodopera minorile», i «clean clothes», i vestiti puliti, i giocattoli politically correct, la raccolta differenziata dei rifiuti: spie del disagio che corrode il sistema in cui crediamo e che ci affanniamo a perfezionare, dove contano competitività, spregiudicatezza, profitto.
Ma spie anche, paradossalmente, di un modo di eludere il cuore di problemi drammatici, attirando l’attenzione sulla parte più spettacolare di essi, sull’aspetto emotivo, sul senso di inadempienza che la nostra cattiva coscienza registra nei confronti della ricchezza e della sua ingiusta distribuzione.
Basta giocare a calcio con un pallone garantito lavorato da mani adulte per sentirsi a posto di fronte allo sfruttamento planetario delle masse che affollano ogni domenica gli spalti degli stadi? Basta un abito «pulito», lavorato obbedendo alle norme che regolano la produzione e il profitto, e non frutto di lavoro clandestino, per avallare la legittimità di quelle norme e il perdurare, anche questo planetario e non limitato alla Turchia o all’India, dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo? È sufficiente giocare con una bambola confezionata da operai maggiorenni per eludere il grave problema del consumo di massa, quello a cui vengono addestrati i bambini fin da piccoli da dosi massicce di pubblicità, per abituarli ad assimilare, da subito, il concetto che «tutto quel che vedi lo puoi comprare»? Crediamo davvero di contribuire alla salvezza del pianeta buttando i rifiuti nei contenitori gialli verdi e blu della raccolta differenziata? E siamo davvero sicuri che la violenza principale sui bambini sia quella dei pedofili additati ogni giorno al nostro disprezzo dalle pagine di cronaca dei giornali?
Il bisogno continuo di capri espiatori sui quali rovesciare il nostro impotente desiderio di giustizia, non ci trasformerà troppo superficialmente in giudici?
Non sarà che a forza di illuminare scandalisticamente la parte più mediatica del tutto, il tutto finisca per restare scandalosamente in ombra?
E questi comitati che spuntano come funghi per difendere bambini, cani gatti e cavalli, maglioni e palloni non sentono mai sulla propria pelle il dubbio che brucia a me: quante facce ha la verità? chi ha il diritto di accusare facendo nomi e cognomi di altri che non sono lui? quanto siamo responsabili, ognuno di noi, del sistema che si autoalimenta sulla nostra coazione a consumare, sulla nostra bulimia?
Basterà mettersi due dita in bocca e vomitare, una volta sui vestiti, una volta sui palloni, una volta sui bambini, una volta sui rifiuti, per riacquistare un metabolismo naturale, per tornare a nutrirsi di riso in bianco, dopo i sughi da trattoria di terz’ordine o da nouvelle cuisine a cui ci condannano le repubbliche fondate sugli ipermercati? Mi brucia questo dubbio: questi comitati, questi giornalisti che sparano scoop sui bambini che lavorano nelle pagine di Economia [notoriamente dedicate a evidenziare il rialzo dei titoli in Borsa quanto più i profitti delle imprese quotate sono raggiunti con spregiudicatezza; e già qui la contraddizione tra la denuncia e l’effetto rivela la verità contorta e cinica che muove il meccanismo del libero mercato] sono legittimati per il semplice fatto di fremere indignati di fronte a un pallone, a un vestito, a una bambola cuciti da un bambino?
Non saranno anche loro complici di un sistema che ha bisogno di lavare con la mano sinistra il fango che sporca la destra, di esorcizzare con l’emozione e lo sdegno occasionali, una tantum, la perpetua e ormai definitiva sopraffazione della ricchezza sulla povertà, della protervia sulla dignità?
L’America, il Paese che ha realizzato il modello migliore del capitalismo, è ricca di comitati «politicamente corretti» e di scoop sui giornali contro le varie dignità calpestate.
Ma si può davvero dire per questo che l’America abbia realizzato il modello migliore della giustizia sociale? E, per estensione, basta denunciare un crimine per considerarsi o essere considerati automaticamente assolti dal concorso in reato?
Non vorrei mai che si tacesse, ovviamente, sul lavoro minorile, sulla violenza, sulle discriminazioni razziali e sul degrado dell’ambiente e del mondo. Credo di averlo dimostrato con il mio lavoro. Ma mi brucia il dubbio su quale sia la strada giusta per raggiungere la consapevolezza vera e profonda sul dramma della povertà e dell’ingiustizia, su chi ha il diritto di parlarne e su chi deve o non deve accettare di essere zittito. Mi brucia il dubbio su quale sia la via per toccare non soltanto il mio cuore, ma quella giusta e utile per fare finalmente luce nel mio cervello.
REPLICA ABITI PULITI
Non “siamo alla ricerca disperata di qualcuno che ci sollevi dal senso di colpa”. I sensi di colpa non ci appartengono e li lasciamo a chi va a nozze col potere con l’augurio che riescano a risolverli col loro padre spirituale o col loro psicoanalista. Il nostro pane non è il frutto di rapporti speciali con i potenti, ma del lavoro umile di chi si trova fra gli ultimi gradini della scala sociale. Noi siamo alla ricerca di giustizia perche' pensiamo che tutti abbiamo solo da guadagnare da un mondo basato sulla giustizia invece che sullo sfruttamento e ci poniamo l’obiettivo di spingere i responsabili e i corresponsabili della violazione dei diritti dei lavoratori ad intraprendere azioni correttive. Nello specifico chiediamo a Flash & Partner di intervenire presso la sua appaltata indiana FFI affinchè cessi gli abusi nei confronti dei lavoratori e ritiri la querela che censura la libertà di denuncia.
Venendo al suo dubbio, su chi ha il diritto di parlare di povertà e ingiustizia, la nostra opinione è che tutti abbiamo il dovere di farlo. E non e' solo la nostra opinione, ma e' quanto scritto nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, che affida ad tutte le componenti della societa' il dovere di difendere i diritti umani. Non certo per senso di colpa ma per amore della giustizia. Ma non per lucrarci sopra. Per concludere pensiamo che non è più il tempo delle strumentalizzazioni verbali, ma delle assunzioni di responsabilità. Anche lei, signor Toscani, deve decidere da che parte vuole stare. Se decide di stare dalla parte di chi opprime, continui pure a fare le sue campagne pubblicitarie al servizio di chi usa tutto e tutti, lei compreso, per fare soldi. Se decide di stare dalla parte degli oppressi si unisca a noi per chiedere a Flash & partners di intervenire presso l’appaltata indiana affinchè garantisca i diritti dei lavoratori. Si schieri e vedrà che i dubbi scompaiono da soli.
(2007) Lettera al Ministro Bonino
Sarebbe una storia di sofferenza e sopruso fra le tante, che milioni di lavoratori vivono ogni giorno sulla pelle per produrre gli abiti che indossiamo, magari nelle Zone Franche per l’Esportazione ideate per servire il libero commercio, dove i diritti sono sospesi e gli investimenti esteri possono affluire senza ostacoli.
Sarebbe una storia fra le tante, se non fosse che il faticoso lavoro di informazione e denuncia indipendente della Clean Clothes Campaign (rete internazionale di 600 organizzazioni che da 15 anni si occupa di diritti delle donne lavoratrici nel settore tessile) ha sollevato le ire della FFI, che ha denunciato tutti ottenendo dal Tribunale Civile di Bangalore un provvedimento che censura le organizzazioni locali e un mandato di arresto internazionale per gli attivisti europei della CCC, rei di avere pubblicato e diffuso il rapporto sulle violazioni.
Ma c’è di più. Il Ministro del Commercio indiano Kamal Nath ha impugnato il caso nei confronti del governo olandese e del Commissario Mandelson, definendo la CCC una barriera non tariffaria al commercio. Le barriere, ovviamente, vanno rimosse per favorire il libero scambio ed evitare intoppi d’immagine che la più grande democrazia del mondo non si può permettere.
Sappiamo quanto sia fervida la sua fede nel libero commercio ma conosciamo anche il suo impegno appassionato per la difesa dei diritti umani fondamentali.
Qui la posta in gioco è alta; c’è una competizione pericolosa tra la libertà di produrre e commerciare a qualunque costo e la libertà di espressione e di difendere i diritti umani fondamentali, come stabilito dalla Dichiarazione sui Difensori dei Diritti Umani del 1998. Anche la Campagna Abiti Puliti, sezione italiana della CCC, ha svolto il suo lavoro di informazione e denuncia; potremmo essere raggiunti da un mandato di arresto anche noi, e trovarci sul banco degli imputati per avere fatto su luce sulla triste condizione di molti uomini e donne che confezionano i nostri jeans.
Egregio Ministro, di fronte a tutto questo, che posizione assume? Quali provvedimenti intende adottare affinché vengano conciliate le libertà economiche con i diritti fondamentali delle persone?
(2007) Stretta sui diritti
Amnesty International ha espresso forte preoccupazione per la prassi ormai consolidata dei tribunali indiani di chiamare a giudizio per reati penali, sulla base di accuse inconsistenti, attivisti impegnati nella difesa dei diritti dei lavoratori senza che le autorità competenti intervengano a impedirlo, pur essendo l’India firmataria della convenzione internazionale che tutela il libero esercizio del diritto di parola e associazione.
In un documento congiunto, la Campagna Abiti Puliti e i sindacati italiani del tessile-abbigliamento si sono rivolti il 5 ottobre al governo italiano sollecitandolo a intervenire presso il governo indiano per chiedere il rispetto delle convenzioni internazionali e con i dicasteri competenti per far sì le imprese italiane coinvolte quali committenti all’epoca delle violazioni si assumano le loro responsabilità. Viene chiesto infine al governo di attivarsi nei confronti dell’azienda italiana Tintoria Astico, di proprietà della FFI, affinché chieda alla casa madre di ritirare la denuncia pendente presso il tribunale di Bangalore.
La Fair Wear Foundation, organismo multistakeholder al quale aderisce il secondo maggior committente di FFI, Mexx, ha pubblicato un rapporto sul caso.
che giunge alla conclusione che la FFI non solo ha agito in contrasto con le convenzioni internazionali sulla libertà di associazione e il diritto di contrattazione collettiva, ma non ha mostrato alcun ripensamento preferendo trascinare in giudizio le controparti anziché trovare un accordo con il sindacato. Dal rapporto emerge inoltre che 85 lavoratori si erano iscritti al sindacato GATWU nell’estate 2006 e in seguito a questo sono stati tutti licenziati. Ciò contrasta con le affermazioni del titolare della FFI secondo il quale non sono mai esistite nelle sue fabbriche rappresentanze sindacali. Mexx ha di fatto sospeso gli ordini alla FFI, ma continua a non voler rendere pubblico il vero motivo della sua decisione, così come non si è impegnata a riprendere i rapporti con il suo fornitore se saranno attuati interventi correttivi. A fare le spese di questo atteggiamento ambiguo sono ovviamente i lavoratori.
Gli sviluppi dell’ultima ora non sono affatto confortanti. Nel corso di una visita di stato, alla presenza di una delegazione governativa olandese al gran completo (regina, ministri degli esteri e del commercio, e rappresentanti delle associazioni imprenditoriali), il ministro dell’industria e del commercio indiano Kamal Nath ha accusato la Clean Clothes Campaign e l’India Committee of the Netherlands di diffondere false informazioni sull’industria indiana e di danneggiare l’immagine del paese. Da parte olandese non c’è stata alcuna reazione, malgrado la questione fosse ben nota da mesi al governo, interpellato e incontrato a più riprese dalle ong coinvolte; governo che per altro non ha risposto all’interrogazione presentata in parlamento dai partiti dell’opposizione. La stampa ha riportato le dichiarazioni successive del presidente delle associazioni imprenditoriali olandesi, che di fatto dava manforte al ministro indiano.
Le aspettative suscitate dall’accordo sul libero commercio fra India e Unione Europea attualmente in discussione potrebbero indebolire le iniziative dei governi che scommettono sulle possibilità offerte da un mercato vasto e in espansione come quello indiano. L’insofferenza manifestata dal ministro indiano si è spinta fino a prospettare azioni ritorsive se non cesserà la crescente diffusione di notizie, giudicate false, che minano la credibilità del suo governo: oltre al caso FFI, c’è il clamore sollevato dalla scoperta di bambini impiegati in condizioni di schiavitù nella catena incontrollata del subappalto di Gap, noto marchio statunitense, a sua volta committente di FFI, e l’indignazione per la terza morte in un anno fra i dipendenti di un suo fornitore (vedi rubrica “Altre notizie”). A ciò si aggiunge il rapporto diffuso il mese scorso dall’India Committee of the Netherlands sul lavoro minorile nella coltivazione di semi di cotone ibridi in India “Child bondage continues in Indian cotton supply chain”
secondo il quale sono 400 mila i minori, la metà al di sotto dei 14 anni (e in maggioranza bambine), impiegati nei campi per 8-12 ore al giorno, esposti all’azione tossica dei pesticidi, per l’impollinazione di semi di cotone geneticamente modificati.
Ma che dire di quello che sta avvenendo nelle Filippine, il secondo paese più pericoloso al mondo per i sindacalisti secondo il rapporto annuale dell’ITUC. Qui si può finire, come è successo all’organizzazione statunitense International Labor Rights Forum, sulla lista nera di persone sospettate di avere legami con il terrorismo internazionale, il tutto con lo scopo di allontanare occhi indiscreti dal paese e spezzare i contatti esistenti con le organizzazioni sindacali e i gruppi di base locali che si battono per la difesa dei diritti umani e del lavoro. In Bangladesh, nella primavera scorsa, l’associazione degli esportatori di abbigliamento ha chiesto senza mezzi termini al governo di indagare sulle attività delle organizzazioni non governative e di punire quelle che, colpevoli di denunciare la presenza di lavoro minorile o lo sfruttamento della manodopera, offuscano l’immagine del paese e ne mettono a rischio la competitività (vedi newsletter n. 4, 2007). Fra le organizzazioni estere invise per i legami con realtà locali c’è la statunitense National Labor Committee e l’inglese War on Want, mentre si sta facendo sempre più difficile per gli esponenti sindacali svolgere il proprio lavoro senza controlli e interferenze.
Sparizioni e minacce di morte accompagnano la vita dei sindacalisti nello Sri Lanka da quando il governo ha lanciato una campagna che descrive i rappresentanti sindacali come fiancheggiatori del Fronte di liberazione delle Tigri Tamil (vedi newsletter n. 3, 2007). Anton Marcus, segretario del Sindacato dei lavoratori delle zone franche e dei servizi pubblici, con il quale la Clean Clothes Campaign collabora da anni, ha denunciato in questi giorni di aver ricevuto nuove minacce di morte dopo essere stato accusato di aver rilasciato dichiarazioni alla BBC e fornito informazioni all’ong inglese Action Aid, che gettano discredito sull’industria tessile del paese. In Cambogia negli ultimi tre anni sono stati uccisi tre sindacalisti del tessile, fra questi il segretario generale del sindacato tessile cambogiano. Per la sua morte sono state condannate due persone innocenti, nonostante prove schiaccianti a discolpa e l’intervento del rappresentante dei diritti umani dell’ONU, nel tentativo evidente da parte del governo di coprire le vere responsabilità dell’omicidio (vedi newsletter n. 2, 2007)
(2007) Lettera dei sindacati italiani al PNC OCSE
OTTOBRE 2007 - Cgil, Cisl e Uil insieme alle categorie tessili inviano una lettera al Punto di Contatto Nazionale OCSE.
(2007) Vietato parlare di diritti
LA FFI/JKPL DI BANGALORE NON RETROCEDE: MANDATO DI ARRESTO PER CLEAN CLOTHES CAMPAIGN E INDIA COMMITTEE OF THE NETHERLANDS
OTTOBRE 2007 - Gli attivisti della Clean Clothes Campaign (CCC) e dell’India Committee of the Netherlands (ICN) rischiano due anni di carcere per cyber crime, diffamazione, atti di razzismo e xenofobia, in base al codice penale indiano, per aver diffuso informazioni sulle violazioni dei diritti dei lavoratori negli stabilimenti produttivi di un’azienda indiana. Le due organizzazioni e sette membri del loro staff avevano ricevuto un invito a comparire davanti al tribunale civile di Bangalore il 25 settembre scorso per una prima udienza rinviata al 31 agosto. Il tribunale civile di Bangalore ha emesso un mandato di arresto per gli imputati per assicurarsi la loro presenza alla prossima udienza. E’ il risultato di un’azione legale intentata dalla Fibres & Fabrics International, proprietaria della Jeans Knits Pvt. Ltd (FFI/JKPL) di Bangalore nei cui stabilimenti era emersa una lunga serie di abusi fin dalla fine del 2005. FFI/JKPL, fornitrice di jeans per un gran numero di marchi occidentali, aveva preferito agire per vie legali piuttosto che avviare un dialogo con le organizzazioni indiane e internazionali che difendono i diritti dei lavoratori. Dal luglio 2006, un’ingiunzione del tribunale di Bangalore impone alle organizzazioni locali il divieto di diffondere notizie sulle condizioni di lavoro all’interno degli impianti produttivi della FFI/JKPL. La decisione del tribunale è stata confermata nel febbraio 2007 e da allora il caso si trascina senza trovare soluzione.
La posta in gioco
Se il caso FFI/JKPL stabilisse un precedente giuridico, sarà forte la tentazione per le imprese terziste di rivolgersi alla giustizia per evitare di confrontarsi con i lavoratori sul piano sindacale e spezzare il legame che li unisce alla società civile internazionale. Se ciò avvenisse, i tentativi in atto per promuovere comportamenti più responsabili fra le imprese subirebbero un forte arretramento, non solo in India ma in tutto il mondo. Le organizzazioni internazionali che condividono questa preoccupazione, fra queste Maquila Solidarity Network, Sweat Free Communities, Business Human Rights e CSR Asia hanno espresso solidarietà e sostegno a CCC e ICN.
FFI/JKPL continua a rifiutare il dialogo
Il 25 giugno la FFI/JKPL aveva diffuso un comunicato stampa nel quale invitava le organizzazioni coinvolte nel caso a cessare la campagna di pressione, basata su accuse definite false, e a impegnarsi in un dialogo costruttivo nell’interesse di uno sviluppo socialmente sostenibile dell’industria tessile indiana. CCC e ICN avevano risposto offrendo la loro disponibilità purché l’invito fosse presentato in forma ufficiale allo scopo di proteggere le organizzazioni locali da conseguenze di tipo legale e che lo stesso fosse accompagnato dal ritiro della denuncia che aveva dato origine al provvedimento restrittivo della libertà di espressione. Si chiedeva inoltre a FFI/JKPL di accettare la presenza di un osservatore indipendente gradito da tutte le parti. Il 13 agosto FFI ha ribadito la richiesta di cessazione della campagna internazionale, basata a suo dire su “presupposti falsi e infondati” dimostrando così di non avere alcuna intenzione di ritirare la denuncia a carico delle organizzazioni promotrici.
Sospesa la certificazione SA8000 alle unità produttive di FFI/JKPL
Social Accountability International (SAI), responsabile dello standard sociale SA8000, ha confermato che si applica anche al caso FFI/JKPL la decisione ufficializzata il 30 aprile scorso che sospende dai benefici della certificazione SA8000 tutte le imprese che abbiano ricevuto una “ingiunzione legale che vieta agli stakeholder di discutere delle attività condotte dall’impresa al suo interno” (http://www.sa-intl.org/index.cfm?fuseaction=Page.viewPage&pageId=534&par...)=1). Nel 2006 SAI aveva certificato cinque stabilimenti di FFI/JKPL malgrado le segnalazioni inoltrate dalla CCC sulle violazioni dei diritti dei lavoratori documentate al loro interno. Nel novembre 2006 la CCC aveva presentato un ricorso formale dal quale era scaturita un’ulteriore indagine da parte di un’azienda consulente di SAI, che era arrivata alla conclusione che la concessione della certificazione SA8000 all’impresa indiana non era giustificata.
Diverse fonti confermano che la certificazione SA8000 concessa alle unità della FFI/JKPL è sospesa. Comunque, i termini della sospensione rimangono poco chiari. Nonostante le numerose richieste di informazioni aggiuntive, SAI non ha condiviso con la CCC e l’ICN alcuna informazione relativa ai dettagli delle procedure di sospensione.
L’assenza di una comunicazione ufficiale di SAI sullo status della certificazione ottenuta da FFI/JKPL è con tutta evidenza la conseguenza diretta della minaccia di FFI/JKPL di ricorrere alle vie legali. La CCC e l’ICN deplorano la decisione di SAI di autocensurarsi ed esprimono la forte preoccupazione che assecondando le minacce di un’azienda a caccia di certificazione, SAI ponga le premesse per la completa perdita di credibilità della sua organizzazione come ente indipendente.
FFI ha attività in Europa?
FFI/JKPL opera in India, ma ha un aggancio diretto con l’Europa: la società Tintoria Astico, con sede in Italia, fornisce modellistica computerizzata alla FFI/JKPL. La proprietà è equamente suddivisa fra la Fibres and Fabrics International di Bangalore e la Fibres and Fabrics Europe con sede in Olanda. L’amministratore delegato della società olandese si chiama Manfred Gruyters e si presenta come uno dei direttori della FFI/JKPL. La CCC ha scritto alla Tintoria Astico per sollecitarla a prendere posizione in favore del ritiro della denuncia presso il tribunale indiano. Manfred Gruyters era fra i destinatari dell’ultima lettera inviata dalla campagna alla FFI/JKPL. Ma né la Tintoria Astico né la Fibres and Fabrics Europe hanno finora risposto ai nostri appelli.
La risposta delle aziende committenti
La politica dello struzzo di G-Star
G-Star è il principale committente di FFI/JKPL. Ha incontrato la campagna il 7 giugno scorso e ha accettato di esercitare ulteriori pressioni su FFI, ma continua a dimostrarsi poco trasparente rispetto al modo in cui si è mossa. G-Star afferma di aver imposto a FFI/JKPL un termine entro il quale dovrà garantire ai lavoratori il diritto ad associarsi liberamente e si dice certa che ciò avverrà entro settembre di quest’anno. Ma come può un’impresa che ha espulso e perseguito il sindacato liberamente scelto dai lavoratori acconsentire alla nascita di uno nuovo se non imponendone uno di proprio gradimento?
Il silenzio di Mexx
Da quel che si sa Gap e Mexx sono in procinto di cessare i rapporti commerciali con FFI/JKPL, ma per non dover ammettere che il vero motivo risiede nell’indisponibilità di FFI/JKPL a trattare con le organizzazioni locali, entrambe evitano di fornire giustificazioni ufficiali. In questo modo non prendono impegni né per il presente né per il futuro con i lavoratori che dipendono anche dalle loro commesse. La Fair Wear Foundation (FWF), alla quale Mexx è associata, ha annunciato che diffonderà una dichiarazione pubblica sul mancato rispetto del codice di condotta della FWF da pare di FFI/JKPL. Un’analoga presa di posizione è prevista da parte di Ethical Trading Initiative.
GAP è in procinto di rivedere la sua politca di fornitura?
Alla luce dell’impasse tra la FFI e le diverse organizzazioni nazionali ed internazionali, GAP si trova sotto una fortissima pressione finalizzata a farle interrompere i rapporti commerciali con FFI.
In quanto membro di ETI, GAP deve rispondere agli obblighi derivanti dall’adesione al codice di condotta. ETI conferma che, a partire dalle informazioni raccolte da fonti diverse, l’applicazione di alcuni punti chiave del codice di condotta, come la libertà di associazione sindacale, sono seriamente compromesse.
L’irresponsabilità di Armani, Guess e RaRe
Nessuna delle tre imprese ha risposto ai ripetuti appelli che sono stati loro rivolti dalla CCC e dai tanti cittadini-consumatori che hanno aderito alla campagna di pressione pubblica. E’ impensabile che sul mercato esistano ancora imprese convinte di potersi sottrarre alle proprie responsabilità semplicemente distogliendo lo sguardo. Anche per Armani, Guess RaRe è arrivato il momento di assumere impegni concreti per garantire condizioni di lavoro corrette nella propria filiera produttiva.
L’ambiguità di Tommy Hilfiger
Nell’agosto 2006 Tommy Hilfiger ha informato la campagna di non intrattenere rapporti commerciali con FFI/JKPL e nel dicembre dello stesso anno ha comunicato a FFI/JKPL che avrebbe valutato l’ipotesi di una collaborazione futura solo a conclusione delle questioni aperte con la CCC e l’ICN. Tuttavia, in un articolo pubblicato il 31 agosto scorso in una rivista olandese di settore è apparsa la notizia secondo la quale Tommy Hilfiger continuerebbe a rifornirsi da FFI/JKPL. Interrogata in proposito l’azienda sostiene di aver ancora FFI/JKPL nelle sue liste, ma classificato come “fornitore inattivo”.
Inviamo una lettera a FFI/JKPL
Scriviamo a Armani, RaRe e Guess che il loro rifiuto di prendere in considerazione le violazioni avvenuto presso il loro fornitore non è accettabile. Tutti i marchi che si sono riforniti presso la FFI/JKPL dovrebbero denunciare il suo comportamento e fare pressione perchè si apra il dialogo con i sindacati e le organizzazioni della società civile.
Scriviamo nuovamente a FFI/JKPL per convincerli a ritirare la denuncia pendente presso il tribunale di Bangalore nei confronti delle organizzazioni della società civile, e di impegnarsi a un confronto con le organizzazioni locali (GATWU, NTUI, Cividep, Women Garment Workers’ Front Munnade).
Vai sul sito della CCC internazionale e complia automaticamente la lettera:
http://www.cleanclothes.org/urgent/07-09-27.htm
(2007) Repressione sindacale in Turchia
LA STORIA
Metraco produce principalmente per clienti europei. Tra questi vi sono marchi molto conosciuti come Helly Hansen (Norvegia), Guru, Gas Jeans, Replay (Italia), Jack & Jones (Danimarca) and Pall Mall/Just Brands (Olanda). L’impresa è di proprietà turca per il 33% e Olandese per il 67%.
La campagna antisindacale ha prodotto il licenziamento di 18 lavoratori e le dimissioni forzate dal sindacato di altri 32 iscritti con la minaccia che avrebbero altrimenti perso il posto. Allo stesso tempo altri lavoratori sono stati assunti per rimpiazzare quelli sindacalizzati.
Nonostante diversi tentativi da parte del sindacato turco DISK-Tekstil e da parte di diversi marchi che hanno proceduto individualmente o attraverso la Fair Wear Foundation e Modint (l’associazione industriale olandese) a fare pressione sull’impresa per convincerla ad aprire una trattativa, la Metraco continua a fare pressione sul lavoratori perchè cessino la loro attività sindacale. Nel 2006 inoltre la Metraco ha deciso di chiudere la fabbrica e di riaprirne un’altra ad Avcilar, a 55 km di distanza; la nuova fabbrica è operativa da gennaio 2007. Solo pochi lavoratori (70) hanno continuato a lavorare nella nuova unità, soprattutto quelli con strette relazioni con la direzione. E’ chiaro che si è trattato di una precisa strategia per ostacolare la nascita del sindacato.
Pressioni sul sindacato: intimidazioni,licenziamenti e intervento dei militari
Quando i lavoratori hanno incominciato ad organizzarsi e ad iscriversi al DISK-Tekstil nel febbraio 2006, la Metraco ha subito messo in atto una strategia di repressione, cercando le persone coinvolte nel processo di sindacalizzazione per scoraggiarle.
In Turchia un lavoratore che intende iscriversi la sindacato deve firmare la richiesta di iscrizione in 5 copie e pagare un notaio per la notifica pubblica; lo stesso deve fare per lasciare un sindacato ed iscriversi ad un altro. La Metraco ha costretto i 32 lavoratori a dare le dimissioni dal sindacato, accompagnandoli dal notaio e costringedoli a pagare il servizio.
Il DISK-Tekstil ha quindi registrato i suoi membri presso il Ministero del Lavoro e della Protezione Sociale non appena è risultato chiaro il livello di intimidazione. In ogni caso il 12 aprile del 2006, 12 dei 14 membri del DISK-Tekstil inseriti nella lista comunicata al ministero sono stati licenziati. Nelle settimane successive la stessa sorte è toccata ad altri 6 membri. Il 19 aprile a due di questi lavoratori era stato promesso che sarebbero stati riassunti se avessero rinunciato a denunciare il caso al tribunale del lavoro e se avessero lasciato il sindacato.
Una donna è stata licenziata per aver rifiutato il trasferimento in un reparto dove vengono usati prodotti chimici e da cui era stata allontanata per ordine del medico. Avrebbe potuto evitarlo se avesse lasciato la tessera sindacale.
Il 30 Novebre 2006 un altro lavoratore è stato licenziato dopo aver parlato con gli ispettori che stavano investigando sulle condizioni di lavoro nello stabilimento.
La direzione della Metraco ha anche fatto uso improprio dell’esercito quando ha chiamato i militari per obbligare i lavoratori a lasciare il sindacato. Ha utilizzato sipatizzanti del partito fascista locale per sostituire i lavoratori sindacalizzati espulsi. Tale comportamento è assolutamente inaccettabile e testimonia che la Metraco non ha alcuna intenzione di creare condizioni di lavoro dignitose per i lavoratori e le lavoratrici della fabbrica.
Cause legali e denunce contro la Metraco.
I lavoratori turchi hanno il diritto di associarsi al sindacato. Questo è garantito dall’articolo 51 della costituzione turca. Il Turkish Criminal Code (articolo 118) stipula anche che minacciare i lavoratori perchè non si associno ad un sindacato è punibile con due anni di prigione. La Turchia ha ratificato le convenzioni ILO (87, 98) sul diritto di libera associazione sindacale e sul diritto di contrattazione collettiva.
Nell’aprile del 2006 il DISK-Tekstil ha denunciato il caso all’ILO di Ankara
e a diverse autorità governative, incluso il dipartimento diritti umani e il Ministero del Lavoro e della Sicurezza Sociale. Una denuncia è stata anche sporta alla polizia militare di Instanbul.
17 lavoratori hanno iniziato azioni legali verso la Metraco per i loro licenziamenti. Presso il tribunale di Beyoglu sono tuttora in corso i processi per 11 lavoratori e la prossima udienza è stata fissata per il 1 novembre 2007. Ma il fatto che sia in corso una causa legale non può essere considerato una valida scusa per la direzione per non procedere alla riassunzione che può avvenire in qualunque momento.
Al momento nessuna delle denunce ha portato ad un aiuto concreto ai lavoratori della Metraco. Il DISK-Tekstil ha dichiarato che l’ufficio ILO in Turchia ha richiesto informazioni al Ministro del Lavoro e della Sicurezza Sociale e che quest’ultimo ha concluso la propria ispezione indicando che nessuna azione verrà intrapresa finchè il processo è in corso.
Come hanno risposto i clienti della Metraco.
La Clean Clothes Campaign in Olanda, Italia, Norvegia e Svezia ha contattato i marchi committenti localizzati nei diversi paesi e clienti Metraco.
Alcuni marchi (Gaastra, Pall Mall, Bestseller, Gas Jeans, Helly Hansen) hanno incontrato oppure scritto lettere alla Metraco circa le violazioni in corso. Altri (Bestseller, Gaastra and O’Neill) hanno deciso di cancellare o sospendere i propri ordini.
Molti di questi (O’Neill, Gaastra, Helly Hansen, Scotch & Soda, and Pall Mall/Just Brands) hanno tentato di coordinare gli sforzi insieme alla Fair Wear Foundation e a Modint (associazione industriali del settore tessile olandese e rappresentata all’interno della FWF). Una ispezione da parte di questi marchi è avvenuta nel Novembre 2006 (commissionata da Modint da parte delle cinque imprese e come azione prevista dalla procedura della FWF). L’audit ha confermato le violazioni denunciate dai sindacati. Altri audit sono stati commissionati da altre imprese (ex. Bestseller, Guru). Come già citato, un lavoratore che aveva parlato con gli ispettori in Novembre è stato licenziato. E’ chiaro che i problemi rilevati dal DISK-Tekstil sono seri e credibili e che richiedono una risposta adeguata da parte dei committenti e dalla direzione aziendale.
La FWF ha informato i suoi stakeholder comunicando che la Metraco non solo ha violato gli standard internazionali dell’ILO ma ha anche dimostrato di non avere alcuna volontà di impegnarsi in azioni correttive in conformità a quanto stabilito dagli stessi codici di condotta, che sono parte integrante degli accordi commerciali con le imprese committenti e con la FWF.
La Clean Clothes Campaign accoglie positivamente le azioni intraprese dai marchi, in particolare il tentativo di lavorare insieme per la risoluzione del caso, ma la situazione dei lavoratori non è migliorata.
La Clean Clothes Campaign ritiene pertanto che le imprese che si riforniscono o si sono rifornite alla Metraco abbiano la responsabilità di continuare a fare pressione per una positiva risoluzione di questo caso.
Il sindacato turco chiede di congelare gli ordini alla Metraco
Data la sitiuazione fortemente negativa, il DISK-Tekstil chiede ai marchi europei di non fare più ordini alla Metraco, finchè la disputa non è risolta. La Clean Clothes Campaign contatterà i diversi clienti circa questa specifica richiesta e ne seguirà gli sviluppi. In caso di necessità, la Clean Clothes Campaign chiederà ai consumatori di contattare questi marchi per incoraggiarli a sostenere le richieste in campo.
QUESTIONI APERTE ALLA METRACO
Di seguito le richieste del sindacato alla Metraco sostenute dalla Clean Clothes Campaign:
1. Immediata riassunzione di tutti i lavoratori licenziati dall’inizio del processo di sindacalizzazione, nelle loro precedenti posizioni, livelli di anzianità e benefit, con appropriato compenso per il periodo di sospensione dal lavoro.
2. Riconoscimento immediato del sindacato; la direzione deve incontrarsi con il sindacato per discutere delle condizioni di lavoro e per facilitare la nascita di buone relazioni industriali.
3. Cessazione delle intimidazioni dei membri del sindacato e dei loro sostenitori.
4. Inchiesta sui comportamenti messi in atto dal responsabile delle risorse umane e assunzione di successive misure sanzionatorie.
5. Formazione dei manager sull’applicazione dei diritti fondamentali del lavoro, con particolare riferemento alla libertà di associazione sindacale.
(2007) REPORT - Olimpiadi: Nessuna medaglia alle Olimpiadi per i diritti dei lavoratori
GIUGNO 2007 - A un anno dall'apertura dei giochi olimpici di Pechino 2008, un'indagine in quattro aziende cinesi produttrici di materiale promozionale a marchio olimpico solleva il velo sulla filiera commerciale del CIO e dei Comitati olimpici nazionali.
Leggi l'intero rapporto in inglese
(2007) Riflessione sui limite degli strumenti volontari di controllo
a cura di Deborah Lucchetti (Fair/Campagna Abiti Puliti)
GIUGNO 2007 - Forse dipenderà dalle recenti notizie apparse in Gran Bretagna, che hanno fatto luce su imprese che producevano per Tesco in Bangladesh impiegando lavoro minorile, e che Tesco non sapeva di avere tra i suoi fornitori. Eppure Tesco è già membro dell’ETI (Etical Trade Initiative), organismo multistakeholder con sede in Gran Bretagna che richiede il monitoraggio indipendente di tutta la catena di fornitura, proprio per evitare questo tipo di abusi.
Il caso illustrato segna i limiti evidenti degli attuali strumenti volontari messi in piedi negli ultimi dieci anni per monitorare le condizioni di lavoro in tutti i segmenti della filiera produttiva.
E’ molto interessante a tal proposito, leggere con attenzione il recente studio indipendente pubblicato proprio dall'ETI (http://www.ethicaltrade.org/Z/lib/2006/09/impact-report/index.shtml) con l’obiettivo di fare una valutazione dell’impatto dei codici di condotta su 25 casi concreti. I risultati mettono in luce una serie di problemi gravi che i codici non sono, di fatto, riusciti ad affrontare e risolvere. Parliamo di libertà di associazione sindacale, per cui non si registra un effettivo aumento di sindacalizzazione dentro le imprese e nemmeno l’avvio di un processo reale di contrattazione collettiva (come sancito dalle convenzioni ILO 87 e 98); nemmeno il salario vivibile è mai raggiunto, visto che si riscontrano al massimo miglioramenti verso il salario minimo legale che sappiamo essere insufficiente per poter garantire una vita dignitosa ai lavoratori e alle loro famiglie. Le donne continuano ad essere discriminate, sia nell’accesso al lavoro, sia nella possibilità di avere possibilità di formazione e avanzamento mentre aumenta in generale la precarietà e la flessibilità del mercato del lavoro, sempre più ricco di manodopera informale e migrante.
In ultimo, e tra i punti aperti più importanti, i grandi marchi e distributori insistono nell’esercitare pratiche di acquisto predatorie, che mirano a ridurre i prezzi, accorciare i tempi di produzione e ridurre gli stock, ostacolando di fatto la possibilità dei fornitori di destinare maggiori risorse agli aumenti salariali e al miglioramento generale delle condizioni.
Altri aspetti critici interessanti che emergono dall'esperienza accumulata negli ultimi dieci anni in materia di controllo volontario della catena di fornitura, riguardano proprio la proliferazione di standard, codici e sistemi di implementazione, audit inclusi.
Ecco perchè la nuova iniziativa che sta per essere lanciata, decisamente business-oriented, ha tutto il sapore amaro dell’ennesimo tentativo di facciata, di cui è difficile comprendere efficacia reale e motivazioni, se non quella di mettere sul mercato un nuovo strumento di tutela dell’immagine e di public relations.
Le stesse imprese fornitrici denunciano la fatica di essere sottoposte a audit diversi, che richiedono una mole di dati differenziati da fornire a eserciti di ispettori provenienti dalle più disparate iniziative. Secondo quanto dichiarato recentemente da Neil Kerney, leader dell’ITGLWF (sindacato internazionale dei tessili) sul Finacial Times, “ le imprese hanno speso milioni di dollari in codici di condotta e audit e il maggiore risultato è stato quello di creare un esercito di frodatori”. Del resto anche il rapporto inchiesta della Clean Clothes Campaign - Looking for a quick fix (http://www.cleanclothes.org/pub-archive.htm) aveva messo in luce la debolezza degli audit sociali, spesso basati su informazioni truccate provenienti dai registri ufficiali preparati ad hoc per gli ispettori di turno. Lavoratori debitamente istruiti per dire ciò che si conviene e che rischiano il posto se non sono obbedienti; registri falsi che riportano paghe regolari e orari nella media, sono spesso la faccia presentabile di realtà dove ben altre sono le condizioni di lavoro. Condizioni e abusi che emergono in tutta la loro nuda drammaticità solo quando alcuni lavoratori decidono di prendere parola e denunciare i fatti che poi diventano oggetto di qualche scoop giornalistico, che all’improvviso scuote le coscienze e fa vedere una realtà molto diversa da quella dipinta nei bilanci sociali.
Come è successo di recente alla Tesco in Gran Bretagna che, a seguito della pessima figura che ha fatto di fronte all’opinione pubblica, ha deciso di correre ai ripari unendosi a Wal Mart, Carrefour e Metro per battezzare la nascita della nuova iniziativa, che avrebbe l’obiettivo di unificare metodi e sistemi di controllo della catena di fornitura per migliorare le condizioni dei lavoratori di tutti i settori.
Sarebbe interessante chiedere ai big della grande distribuzione quali sono le loro intenzioni in merito ai contenuti dell’iniziativa e come pensano di modificare le loro note e vampiresche pratiche di acquisto, che costringono i fornitori a produrre a costi sempre più bassi per potergli permettere di stare sul mercato globale con masse crescenti di merci a prezzi stracciati. Tutto ciò ricorda alcune pubblicità di importanti marchi della distribuzione italiana che tappezzano i muri delle nostre città ove campeggia vittoriosa la scritta SOTTO COSTO; senz’altro una bella conquista per noi consumatori, almeno fino a quando non cominceremo a chiederci chi paga per tale beneficio.
Seguiremo con attenzione gli sviluppi della nuova iniziativa, ben sapendo che sono ormai condivisi anche tra le imprese seriamente intenzionate a efficaci pratiche di responsabilità, alcuni punti chiave dai quali partire per affrontare il fallimento delle misure volontarie nel migliorare sensibilmente le condizioni dei lavoratori; in particolare risulta ormai chiaro che occorre partire dalle cause strutturali che generano il mancato rispetto dei diritti (perdurare di pratiche di acquisto selvagge in testa ma anche il non coinvolgimento dei lavoratori quali principali stakeholders).
Infine, ed è forse il punto più importante e contrastato da un certo filone di pensiero molto mercatocentrico, occorre prendere atto che nessuna misura volontaria potrà essere realmente efficace senza l'intervento e il ruolo attivo e complementare dei governi e delle autorità pubbliche. Lo ha detto persino la Banca Mondiale quando ha affermato nel 2003 che "progressi di sistema non saranno raggiunti senza il coinvolgimento attivo dei governi"1 .
1 Strenghtening implementation of corporate social responsibility in global supply chains - The Worldbank Group, 2003
(2007) Libertà di parola per i lavoratori della Fibres&Fabrics/JKPL
BREVE RIEPILOGO
10 mesi fa la Fibres & Fabrics International (FFI), insieme aLla sua sussidiaria Jeans Knit Pvt. Ltd. (JKPL) di Bangalore, fornitrice di imprese multinazionali come G-Star, Gap, Armani and Mexx ha chiesto e ottenuto dal Tribunale Civile di imporre il silenzio agli attivitsti e ai sindacati locali per impedirgli di denunciare pubblicamente le violazioni dei diritti sindacali in corso all'interno degli stabilimenti produttivi. Le organizzazioni interessate, Munnade, Cividep insieme ai sindacati GATWU e NTUI, avevano infatti riportato alla fine del 2005 l’esistenza di gravi violazioni nei reparti produttivi, come carichi di lavoro eccessivi e lavoro forzato, abusi psichici e fisici, mancanza di pagamento degli straordinari, assenza di regolari contratti.
La corte aveva emesso un’ordinanza restrittiva il 28 di Luglio del 2006 che era stata prolungata nel Febbraio 2007. Tale ordinanza sta tuttora impedendo alle organizzazioni non governative e ai sindacati di difendere i diritti dei lavoratori e di adoperarsi per migliorarne le condizioni alla FFI/JKPL. Questa situazione è assolutamente inaccettabile: la Clean Clothes Campaign e l’ India Committee of the Netherlands (ICN) hanno fatto incessanti pressioni sulla FFI/JKPL perchè facesse ritirare l’ordinanza restrittiva mentre alle imprese committenti è stato richiesto di intervenire per facilitare l’apertura del dialogo; le imprese hanno avuto reazioni diverse, alcune si sono attivate, altre sono rimaste silenti e tra queste le due imprese italiane Armani e Ra-Re.
Recentemente la SAI, l’organizzazione responsabile per la certificazione SA8000 ha informato la CCC e l’ICN che la certificazione alla FFI/JKPL potrebbe essere revocata. SAI ha fatto questa dichiarazione in seguito alla denuncia formale fatta dalla CCC e dall’ICN in relazione alla incoerenza del processo di certificazione che ha portato alla certificazione delle unità produttive della FFI.
Sebbene le condizioni di lavoro alla FFI/JKPL siano nel frattempo migliorate, l’ordinanza restrittiva è ancora in piedi e questo è un chiaro segnale intimidatorio nei confronti dei lavoratori e delle lavoartrici. Tale provvedimento impedisce nei fatti alle diverse organizzazioni locali di assumere iniziative concrete e di organizzarsi per instaurare nuove relazioni idustriali, mimando alla radice la libertà di associazione sindacale e di contrattazione collettiva.
La CCC e l’ICN pertanto chiedono (urge) ancora alle imprese che si rifonoscono o si sono fornite alla FFI/JKPL di unire gli sforzi in una iniziativa comune per affrontare e risolvere la situazione. E’ importante sottolineare che alcune imprese come Guess, Ra-Re e Armani a tutt’oggi non hanno fatto alcun passo, nè formale nè sostanziale, per sostenere la risoluzione del caso; questo atteggiamento non può che generare una forte disapprovazione. Le imprese che hanno fatto qualche pressione sulla FFI/JKPL sono adesso chiamate a continuare a collaborare per dare una risposta alle domande tuttora aperte.
Vi chiediamo di attivarvi in sostegno delle organizzazioni locali affinchè il caso ossa essere chiuso. Scrivete alle imprese che si riforniscono o si sono rifornite alla FFI/JKPL per ottenere che la FFI/JKPL accetti di aprire un vero confronto con le organizzazioni locali e i lavoratori.
Scrivete le vostre mail di pressione andando direttamente sul sito internazionale http://www.cleanclothes.org/urgent/07-05-10.htm#action Indicate nel soggetto - Support free dialogue at FFI/JKPL
(2007) Al via il fondo per i risarcimenti delle vittime
A due anni dal crollo della Spectrum al via il fondo per i risarcimenti delle vittime costituito dai buyer con la vistosa eccezione di Carrefour. In occasione della Giornata mondiale per la salute e sicurezza, celebrata il 28 aprile, L’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL) ha presentato il suo rapporto annuale: sono 2,2 milioni le persone che perdono la vita ogni anno nei luoghi di lavoro a causa di incidenti e malattie professionali, mentre il numero degli infortuni ammonta a 270 milioni. I casi denunciati di malattie professionali sono pari a 160 milioni, con un danno economico quantificabile nel 4% del PIL globale. L’OIL associa il tema della sicurezza a quello della dignità del lavoro: dove non c’è garanzia dell’insieme dei diritti contrattuali e sindacali, non ci può essere prevenzione dai rischi. Ma in una società globalizzata, dove la fabbrica ha scala planetaria, ha ancora senso un computo per nazione, che vede per esempio l’Italia non discostarsi dalla triste cifra di 4 morti al giorno?
Se riflettessimo sul numero di persone che in altre parti del mondo quotidianamente si ammalano, subiscono infortuni, perdono la vita per produrre le nostre merci, i paesi occidentali dovrebbero seriamente rivedere i propri calcoli e predisporre urgenti contromisure.
A chi appartengono i morti della Spectrum-Shariyar?
L’11 aprile 2005, a Savar, in una zona industriale a pochi chilometri dalla capitale del Bangladesh, crollava un edificio di nove piani, sorto e ampliato abusivamente su un terreno paludoso, che ospitava il maglificio Spectrum, fornitore di grandi imprese e distributori europei, fra i più noti Zara-Inditex e Carrefour. Morirono 64 persone e i feriti furono circa 80, di cui 54 gravi (vedi: www.abitipulit.org, “Azioni urgenti”; Newsletter n. 5/2006).
Ci sono voluti due anni di intenso lavoro, fra ricognizioni, trattative e pressioni pubbliche, ma alla fine il 1° aprile scorso gli operai rimasti invalidi e le famiglie degli operai deceduti nel crollo della Spectrum hanno cominciato a ricevere il primo pagamento dal fondo costituito da alcune delle imprese committenti per assicurare un vitalizio mensile alle famiglie colpite, che nel frattempo sono sopravvissute indebitandosi avendo ricevuto solo una modesta cifra una tantum dal datore di lavoro e dal governo per le necessità immediate. Si tratta per il momento di 22 persone per un totale di 3mila dollari erogati, prima tranche dello stanziamento iniziale di 60mila dollari in via di destinazione.
La prima a costituire il fondo è stata la spagnola Inditex, proprietaria del marchio Zara, a cui si sono aggiunte la catena di distribuzione tedesca KarstadQuelle (anche grazie alle pressioni della chiesa evangelica), New wave group (Svezia), Scapino (Olanda), Solo invest (Francia).
Hanno rifiutato di contribuire al fondo: Carrefour (Francia), secondo la quale questo tipo di risarcimento spetta al governo bengalese, Cotton group (Belgio); New yorker, Steilmann, Kirsten Mode e Bluhmod (Germania).
Il fondo, che dovrà raggiungere la somma di 533mila euro, sarà amministrato da un consiglio di fiduciari in rappresentanza di tutte le parti contribuenti: oltre alle imprese, è previsto che vi partecipino i proprietari della Spectrum, il governo del Bangaldesh, l’associazione dei produttori ed esportatori di abbigliamento del Bangladesh (BGMEA), più eventuali sottoscrizioni di privati e associazioni. La gestione corrente è affidata all’ong Incidin Bangladesh, partner di Oxfam Gran Bretagna, e alle organizzazioni sindacali locali.
Le Clean clothes campaign francese e belga hanno in programma nelle prossime settimane iniziative nei confronti di Carrefour per spingerla ad assumersi le proprie responsabilità. La CCC belga di lingua francese ha pubblicato un rapporto aggiornato sul disastro della Spectrum e sulle condizioni di salute e sicurezza nell’industria dell’abbigliamento del Bangladesh scaricabile dal sito: www.vetementspropres.be.
INVIATE UNA LETTERA A COTTON GROUP, STEILMANN, KIRSTEN MODE, BLUHMOD E NEW YORKER per sollecitare l’adesione al fondo di risarcimento della Spectrum - link non più valido
(2007) Una condanna ingiusta
Confermata in appello una condanna ingiusta
3 maggio 2007 - ll 12 aprile si è tenuto a Phnom Penh il processo di appello a carico di due persone, Born Samnang e Sok Sam Oeun, accusate dell’assassinio di Chea Vichea, presidente del Sindacato libero dei lavoratori del regno di Cambogia (FTUWKC), avvenuto il 22 gennaio 2004 (vedi Newsletter n. 3/2007). La sentenza ha confermato la condanna a vent’anni di carcere per entrambi. Il FTUWKC, le organizzazioni internazionali per i diritti umani, fra cui Amnesty international, il rappresentante per i diritti umani dell’ONU in Cambogia hanno fin dall’inizio sollevato seri dubbi sui risultati dell’indagine condotta dalla polizia e sulle procedure processuali che hanno determinato la condanna in primo grado. Oltre a molte altre irregolarità, i testimoni oculari chiave non sono stati ascoltati e in seguito hanno ricevuto minacce di morte.
La seconda udienza del processo di appello, fissata volutamente all’insolita ora delle 7,30 di mattina e nel giorno in cui i cambogiani festeggiano il capodanno, è iniziata con dieci minuti di anticipo impedendo agli accusati, ai loro legali, e alle organizzazioni della società civile di essere presenti. In poco meno di venti minuti, la corte ha respinto la richiesta del pubblico ministero di svolgere una nuova indagine, ha rifiutato di ascoltare i testimoni della difesa, non ha convocato l’ex capo della polizia di Phnom Penh, che Born Samnang aveva accusato nella prima udienza di averlo torturato per estorcergli una confessione, e ha confermato la sentenza di condanna a vent’anni di reclusione.
Secondo l’Asian human rights commission (AHRC), che ha seguito fin dall’inizio il caso, è chiaro il tentativo del governo di coprire un delitto politico individuando due opportuni capri espiatori. Il 18 aprile scorso, l’OIL ha stigmatizzato in una dichiarazione ufficiale gli esiti del processo di appello rivolgendo nuovamente al governo cambogiano l’invito a svolgere una nuova indagine, seria e imparziale, sull’assassinio di Chea Vichea.
INVIATE UNA LETTERA AL GOVERNO CAMBOGIANO (fate copia e incolla del testo che trovate di seguito)
Mr. Samdech Hun Sen Prime Minister E-mail: cabinet1b@camnet.com.kh Mr. Sar Kheng Deputy Prime Minister and Minister of Interior E-Mail: info@interior.gov.kh or moi@interior.gov.kh
CAMBODIA: Unjust conviction of two men by the appeal court in the murder of Chea Vichea I strongly condemn an unjust and politically biased conviction of Born Samnang and Sok Samoeun in the murder of a prominent union leader Chea Vichea by the Court of Appeals on 12 April 2007. I am informed that the Court of Appeals upheld the Municipal court's verdict in August 2005, in which that the two accused had been sentenced 20 years imprisonment.
However, I do not think the hearings of the appeal court were just and fair. The final hearing was conducted in an absentia of the two defendants and their defence lawyers. It is such a wrong procedure that the appeal should not decide in absentia without the present of the defendants, the defendants' lawyer because the defendants have also their rights to listen to the verdict announce.
I am also informed that during the hearings, the appeals court rejected all of the defend witnesses and did not bring the prosecution witnesses for the hearing at all. The appeal court also rejected prosecutor's request on April 6 for re-investigation to find real murderer. I am informed that the judge had always accepted the prosecution witnesses' testimony that they did not even join the appeal hearing. I suspect that there could be a political motivation behind the appeal verdict.
During the appeal hearing on 6 April 2007, Bon Samnang raised a lot about the torture in the police station that the police had tortured him to confess. However, all these matters were simply ignored. The appeal judge did not also accept Ms. Va Sothy's statement issued on 10 August 2006 from Thailand who is the eyes-witness at the sense and who see the perpetrators very clearly because Ms. Va Sothy haven't vow before the court.
There are many other irregularities in the appeal hearings.
On top of that, I think the final appeal court hearing on 12 April 2007 seemed so ridiculous because it was too rush that the judge started the hearing at 7: 20 am which is wrong this his schedule that suppose to started at 7: 30am so that it could less interested and participated from the international observer or media or the defend lawyers. I also think that the court had deliberately chose 12 April for its verdict to minimise when Cambodians are busy celebrating their new year.
From the begging since the murder of Chea Vichea, criminal investigation and trial was deeply flawed relating to murder of Chea Vichea and I believe that the true perpetrators responsible for the murder of Chea Vichea have not been held to account. Born Samnang and Sok Sam Oeun had alibis for the time of the shooting, but those providing the alibis were threatened and detained by police, while other witnesses were also intimidated by the police.
Now Born Samnang and Sok Sam Oeun will be held in prison for 20 years for the crime these two men in all probability have not committed. In all probability too this is a huge miscarriage of justice.
I therefore strongly urge the Cambodian authorities as well as international commnity to immediately intervene into this matter to bring independent and effective re-investigation into the murder of Chea Vichea so that the real murderers are brought to justice. Born Samnang and Sok Sam Oeun should be given a chance for re-trial and released without delay, unless there is sufficient evidence to bring charges against them.
Yours truly,
(2007) Il buco nero della RSI
Il buco nero della RSI
MARZO 2007 - Un commento alla Comunicazione della Commissione EU sulla Responsabilità Sociale d’Impresa e sul rapporto del Rappresentate Speciale dell’ONU John Ruggie sulle Norme per le imprese.
A cura di Deborah Lucchetti FAIR/Campagna Abiti Puliti