(2010) REPORT - Goal mancato per i lavoratori del pallone
I problemi evidenziati nel rapporto:
* il lavoro minorile esiste ancora nell'industria Pakistana, in particolare presso i lavoratori a domicilio.
* diiscriminazioni di genere nei confronti delle lavoratrici a domicilio, pagate il minimo e a rischio costante di perdere il lavoro a causa della gravidanza;
* abuso di lavoro straordinario, come è stato rilevato in una fabbrica cinese, dove è stato scoperto che si lavora fino a 21 ore al giorno tutti i giorni per un mese intero;
* la mancanza di acqua potabile o strutture di assistenza sanitaria, ed anche servizi igienici, per esempio nelle fabbriche indiane di cucitura
Circa il 75% degli oltre 200 lavoratori intervistati in Pakistan non sono assunti a tempo indeterminato, pertanto non hanno accesso alle prestazioni pensionistiche e alla. sicurezza sociale.
Negli ultimi dieci anni, rapporti periodici sulle violazioni dei diritti umani nella produzione dei palloni da calcio sono stati presentati ai principali attori del settore tra cui i grandi marchi e la FIFA.
La Clean Clothes Campaign è sconcertata dal fatto che dopo tutti questi anni, i bassi salari e altre gravi forme di violazioni dei diritti dei lavoratori sono ancora la norma e non l'eccezione del settore. Ricordate alla FIFA le sue responsabilità verso il settore sportivo sport, e che come i fan di tutto il mondo hanno grandi aspettative verso i campionati mondiali, i cittadini si aspettano che l'industria del pallone dimostri concretamente di rispettare le sue promesse in materia di diritti umani.
(2010) DESA: ancora persecuzioni presso il fornitore di Prada
Vi invitiamo a contattare la direzione della DESA e i marchi internazionali committenti per esprimere il vostro disappunto per l'incapacità di tutelare i diritti dei lavoratori della DESA e per esortarli a garantire che il protocollo sia applicai correttamente e ad adottare misure concrete per sostenere in modo proattivo la libertà di associazione sindacale in fabbrica.
Contesto
Un protocollo d'intesa (link al protocollo originale firmato) tra il sindacato Deri Is e Desa era stato firmato ad agosto del 2009 dopo una campagna internazionale durata un anno contro le pratiche sleali della DESA, azienda turca fornitrice di grandi marchi del lusso europei come Prada, Mulberry, Debenhams, Marks and Spencer e El Corte Ingles. Il protocollo dichiarava che la campagna internazionale sarebbe cessata a condizione che la DESA riassumesse molti dei lavoratori licenziati, rilasciasse una garanzia scritta sul diritto all'associazione sindacale, riconoscesse il Deri Is come sindacato in fabbrica e si impegnasse a non esprimere alcun parere, positivo o negativo, verso la sindacalizzazione dei lavoratori.
La Clean Clothes Campaign ha continuato a monitorare la situazione in Turchia, per verificare l'attuazione del contratto attraverso un dialogo permanente con il sindacato. Fin dall'inizio era chiaro che il protocollo era solo l'inizio di una nuova fase durante la quale i lavoratori avrebbero dovuto essere messi a conoscenza dei loro diritti ed essere rassicurati che l'esercizio degli stessi non può comportare il licenziamento o rappresaglie. Rendere questo processo credibile e autentico richiedeva un cambiamento di direzione da parte della Desa e di un supporto proattivo da parte dei marchi.
Una delegazione della Clean Clothes Campaign ha svolto una missione in Turchia nel dicembre 2009, durante la quale si sono incontrati circa 35 lavoratori della Desa insieme ai rappresentanti del Deri Is. Le interviste effettuate hanno rivelato che il protocollo era stato violato perchè:
• I lavoratori individuati dal Deri Is non sono stati riassunti
• La garanzia del diritto ad organizzarsi secondo quanto elaborato dal sindacato internazionale ITGLWF non è stato distribuito ai lavoratori
• I lavoratori stanno nuovamente subendo episodi di repressione e persecuzione con il chiaro scopo di evitare la loro sindacalizzazione
• La direzione della Desa interferisce attivamente per cercare di impedire ai lavoratori di iscriversi al sindacato
Alla luce di ciò, nel mese di aprile 2010, la Clean Clothes Campaign contattato nuovamente tutti i marchi internazionali informandoli circa le continue violazioni del protocollo siglato. I marchi sono stati anche sollecitati a lavorare con la DESA per porre fine alle vessazioni nei confronti dei lavoratori e attuare pienamente il protocollo in collaborazione con Deri Is. [Link alla lettera inviata]
Solo un numero limitato di marchi ha risposto, affermando tutti che avevano visitato la fabbrica, non erano state rilevate angherie e che erano certi dell'assenza di pratiche inique in fabbrica. Nessuno dei marchi ha parlato o contattato il sindacato o suoi membri. Nessuno di loro ha risposto alle richieste di azioni dettagliate e concrete che abbiamo sottoposto.
(2010) Sgomberati violentemente i lavoratori della Triumph nelle Filippine
12 MAGGIO 2010 - Il 4 maggio, i lavoratori della Triumph nelle Filippine sono stati violentemente allontanati dal picchetto che avevano organizzato. Più di 200 agenti delle forze di sicurezza hanno invaso il campo, allontanando gli operai che protestavano e distruggendo il loro campo d'azione.
I lavoratori hanno istituito un altro picchetto a valle della strada, continuando la loro protesta contro il loro licenziamento a partire dall'estate 2009.
Leggete l'approfondimento (in inglese)
Teddy
Teddy è un gruppo multinazionale di origine italiana proprietario delle catene di abbigliamento ad insegna Terranova, Calliope e Rinascimento, presenti in circa una quarantina di paesi. Commercializza anche abbigliamento con i marchi propri Kitana, Urban Babe, Hacienda Pvblica. Il giro di affari ammonta a 300 milioni di euro. I l gruppo fa riferimento all’imprenditore riminese Vittorio Tadei, che nel 2006 è stato anche candidato sindaco della città romagnola, nelle file del Partito della Libertà (Forza Italia). (Agosto 2010) |
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Fruit of the Loom
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Fruit of the Loom è un gruppo di origine statunitense attivo nel settore dell’abbigliamento per lo sport e per il tempo libero. Possiede vari marchi, tra cui Fruit of the Loom, Russell Athletic e Spalding, questi ultimi due attraverso la filiale Russell Corporation. (Agosto 2010) |
Hanesbrand
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Asics
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(2010) I vestiti nuovi del consumatore
Guida ai vestiti solidali, biologici, recuperati: per conciliare estetica ed etica nel proprio guardaroba
Il libro è acquistabile on-line e nelle librerie.
(2010) I sopravissuti all’incendio della Garib chiedono giustizia e sicurezza
Giovedì 25 febbraio 21 lavoratori sono morti alla Garib & Garib Sweater Factory in Gazipur, Bangladesh a causa di un incendio scoppiato per la seconda volta in sei mesi.
Leggi il primo resoconto e di seguito l’aggiornamento sulle cause della tragedia e su quanto hanno fatto finora i soggetti coinvolti dopo tragica notte del 25 febbraio.
Unisciti alla campagna per chiedere ai marchi, al proprietario dell’azienda e al governo del Bangladesh di assumere impegni immediati per assicurare giustizia alle vittime ed evitare che tragedie come questa accadano in futuro. Il numero dei morti nell’industria tessile bengalese dal 2000 è salito a 230. Data la chiara conoscenza dei rischi collegati alla mancata sicurezza nelle fabbriche tessili di Dhaka, la mancanza di prevenzione equivale ad una negligenza criminale.
Cosa è successo alla Garib?
Un’indagine autorizzata dal governo per verificare le cause dell’incendio informa che ha avuto origine da un corto circuito elettrico al secondo piano della fabbrica.
Il fuoco è immediatamente divampato fino agli altri piani grazie a sostanze e prodotti infiammabili come i filati di lana. Durato quasi due ore, il fuoco ha prodotto un denso fumo nero e ha consumato l’ossigeno nell’aria, soffocando i lavoratori. Il fumo non poteva fuoriuscire grazie alla scarsa ventilazione e alla presenza di strutture non autorizzate utilizzate per lo stocccaggio di materiali altamente infiammabili in cima al palazzo. I lavoratori non potevano scappare perchè le uscite erano chiuse a chiave e i materiali bloccavano le scale. Gli estintori erano “praticamente inutili” secondo il Dhaka Fire Service and Civil Defence e, secondo le testimonianze, nessuna delle guardie di sicurezza in servizio sapeva come operare con estintori e idranti.
Il 7 marzo le famiglie dei deceduti hanno ricevuto 200.000 Taka (circa 2.085 euro) di risarcimento. I feriti sono stati ricoverati in diversi ospedali di Dhaka. Non ci sono notizie sui prossimi passi che saranno intrapresi per completare il risarcimento, visto che 200.000 Taka sono del tutto insufficienti. Occorre inoltre predisporre risarcimenti di lungo periodo sia per le famiglie delle vittime che per i feriti. La fabbrica rimarrà chiusa per il mese di marzo. Poichè il 10 di marzo i lavoratori della Garib hanno ricevuto il pagamento dello stipendio di febbraio (inclusi i giorni successivi all’incendio), essi rimangono in attesa dei pagamenti relativi al periodo di chiusura della fabbrica.
Audit fallimentari
La Clean Clothes Campaign ha contattato le imprese committenti europee e statunitensi che secondo testimonianze si rifornivano alla Garib & Garib Sweater Ltd. La svedese H&M ha risposto alla CCC che sta lavorando insieme all’italiana Teddy, proprietaria del marchio Terranova, per la definizione del risarcimento dei lavoratori feriti e delle famiglie dei defunti. Accogliamo positivamente questa prima iniziativa per rispondere alle esigenze dei lavoratori e delle famiglie delle vittime, tuttavia sollecitiamo tutti i clienti ad assicurare soluzioni di lungo periodo con il coinvolgimento dei sindacati e dei lavoratori.
Desta preoccupazione il fatto che H&M neghi i problemi strutturali della sicurezza alla Garib & Garib. Secondo l’audit condotto ad ottobre del 2009 le uscite di emergenza erano chiaramente indicate, come gli estintori. In ogni caso, l’indagine del governo ha evidenziato che le cause principali dei decessi sono state l’insufficiente sistema di ventilazione e una struttura d’acciaio illegale installata sul tetto dell’edificio di sette piani.
L’inadeguatezza del sistema di ispezione non poteva essere meglio dimostrata. Il movimento per la difesa dei diritti del lavoro esprime da anni una forte critica verso i sistemi di ispezione che falliscono nel rilevare l’assenza di conformità giorno per giorno. Registrare semplicemente l’esistenza di uscite di emergenza non serve, se le scale sono bloccate. Allo stesso modo la disponibilità di estintori non è sufficiente, se nessuno sa come usarli. Coinvolgere i lavoratori nel monitoraggio delle condizioni di salute e sicurezza resta un prerequisito fondamentale per assicurare che tali incidenti non accadano in futuro.
Inoltre, data la pericolosità dell’industria tessile bengalese, non è possibile che le carenze negli standard di sicurezza rilevate dagli audit siano mantenute segrete. L’intera industria tessile dovrebbe diventare più trasparente e verificabile da parte dei lavoratori coinvolti, anche attraverso la condivisione dei rapporti con i sindacati, il governo e tutti gli stakeholders.
Responsabilità
Tristemente l’incendio non era solo evitabile, era anche prevedibile e pertanto per nessuna ragione può essere definito un incidente. Dal 2000 la Clean Clothes Campaign insieme ai suoi partner in Bangladesh richiede una decisa revisione del settore tessile bengalese in seguito al ripetersi di incidenti fatali come quest’ultimo, tutti con le stesse caratteristiche – inclusi il blocco delle scale con materiali e prodotti, la chiusura a chiave delle porte, la pessima ventilazione, l’assenza o inadeguatezza degli estintori e la mancanza di personale formato per casi di emergenza. Ad oggi nè il governo, la Bangladesh Garment Manufacturers and Exporters Association (BGMEA) o i marchi internazionali hanno assunto misure sufficienti e strutturali per migliorare il settore industriale.
Sosteniamo quindi completamente le richieste che provengono dai sindacati bengalesi e dalle organizzazioni dei lavoratori indirizzate al proprietario della Garib & Garib, al governo, al BGMEA e ai marchi internazionali.
Chiediamo al proprietario della fabbrica, al governo del Bangladesh, al BGMEA, ai marchi e ai distributori internazionali che si rifornivano presso la Garib & Garib di:
1. assicurare l’immediato pagamento di 500.000 Taka alle famiglie dei lavoratori deceduti;
2. assicurare che trattamenti medici appropriati e risarcimenti necessari per i lavoratori feriti siano garantiti (in accordo con un parere medico indipendente);
3. adottare misure efficaci per il risarcimento delle vittime nel lungo periodo, coinvolgendo il governo, il proprietario, i marchi committenti, il BGMEA, il sindacato e I rappresentanti della società civile nel processo decisionale;
4. rendere pubblici tutti i rapporti d’inchiesta, inclusi quelli dei clienti internazionali e degli agenti, sulle le condizioni di lavoro alla Garib & Garib Sweater Ltd.;
5. assicurare una inchiesta credibile, coinvolgendo le organizzazioni dei lavoratori e per i diritti umani, sulle circostanze che hanno permesso che una tale tragedia accadesse, e rendere pubblici i risultati
6. applicare in maniera seria tutte le leggi relative alla salute e alla sicurezza e assicurare risorse sufficienti per l’ispettorato del lavoro e la gestione (anonima) delle denunce dei lavoratori e dei sindacati. I lavoratori dovrebbero avere accesso a tutte le informazioni per esporre denuncia e essere informati sugli sviluppi
7. riconoscere il diritto dei lavoratori ad organizzarsi in sindacati scelti liberamente e il diritto dei sindacati di contattare i lavoratori e condurre tutte le attività necessarie a rappresentare veramente i suoi membri
Inoltre chiediamo al governo in particolare di:
1. assicurare una inchiesta penale credibile sull’incidente e l’apparente trascuratezza delle norme in materia di salute, sicurezza ed emergenza, e assicurare l’arresto immediato e il processo penale per ogni presunto colpevole
2. rivedere le leggi esistenti in material di salute, sicurezza ed emergenza, sulla base di una indagine imparziale e trasparente a partire dagli incidenti analoghi accaduti negli ultimi anni
Infine chiediamo alle imprese clienti della Garib & Garib di:
1. Sostenere pubblicamente le domande indirizzate al governo e assicurare la loro applicazione
2. Negoziare direttamente con il sindacato per assicurare che tutte le azioni richieste e le misure di risarcimento siano effettive
Vi preghiamo di agire subito! Inviate le vostre lettere al proprietario della Garib&Garib Sweater Ltd, al governo del Bangladesh, al BGMEA e ai marchi internazionali H&M and Teddy, proprietario del marchio Terranova.
(2010) 21 morti nell'incendio della Garib in Bangladesh
I sindacati bengalesi e le organizzazioni internazionali a difesa dei diritti dei lavoratori chiedono un'azione immediata ai marchi internazionali e al governo del Bangladesh per affrontare le conseguenze del grave incidente che ha causato almeno 21 morti e 50 feriti. La Garib Sweater Factory di Gazipur, Bangladesh produceva abbigliamento per distributori come la H&M e l'italiana Teddy con prodotti a marchio Terranova.
Il sito dell'azienda cita anche Otto, 3Suisses International, Pimkie, Provera, Lindex, Littlewoods, WalMart e JC Penny. La Campagna Abiti Puliti sta raccogliendo e verificando le informazioni in relazione ai marchi coinvolti e alle dinamiche dell'incidente.
L'incendio sembra essere stato causato da un corto circuito, comnciato alle 21.30 di giovedì 25 febbraio. Non appena il fuoco è divampato, i lavoratori sono rimasti intrappolati. Sembra da testimoni oculari e notizie stampa, che le uscite di emergenza fossero bloccate, il cancello di ingresso chiuso a chiave e gli estintori mancanti o non appropriati. Secondo un sopravvissuto, le operazioni di soccorso sono state ulteriormente ostacolate dal fatto che i pompieri hanno dovuto tagliare le inferriate delle finestre per accedere al piano e salvare i lavoratori. Nessuno è stato in grado di dire ai soccorritori quanti lavoratori erano presenti in fabbrica al momento dell'incendio.
- l'arresto immediato del proprietario della fabbrica
- il pagamento immediato di 500 mila Taka alle famiglie dei lavoratori deceduti
- appropriate cure mediate e adeguato risarcimento per i lavoratori feriti
- efficaci ed immediate misure di risarcimento di lungo periodo per le famiglie delle vittime
- l'avviamento di una seria indagine sulle circostanze che hanno causato tale tragedia
(2009) I lavoratori della Triumph lasciati "in mutande" producono slip a sostegno della protesta
I lavoratori sindacalizzati licenziati in massa dalla Triumph hanno trasformato il loro presidio in una fabbrica di confezionamento di mutande con il marchio “Try Arm”. Dal 16 di ottobre infatti centinaia di lavoratori hanno occupato i piani del Ministero del Lavoro per protestare contro i licenziamenti di massa operati dalla Body Fashion Thailand, sussidiaria della Triumph International.
I membri del sindacato protestavano da più di 100 giorni di fronte alla fabbrica di Bangkok ma quando la direzione ha rifiutato di parlare con loro, hanno deciso di fare arrivare la loro protesta direttamente al Ministro del Lavoro per chiedergli di difendere i diritti dei lavoratori thailandesi nelle filiere internazionali come questa. La Triumph International non è stata disponibile a condurre una trattativa tempestiva e trasparente circa il suo piano di tagli con i rappresentati sindacali degli stabilimenti, come previsto dalla convenzione ILO 158 e dalla Linee Guida OCSE per le imprese multinazionali.
Quasi 200 lavoratori hanno cominciato a cucire reggiseni e intimo presso il ministero; si sono messi a lavorare su tutte le fasi del prodotto e ciò è stato possibile grazie all'aiuto di un designer e di un tecnico esperto di confezionamento, entrambi licenziati dalla Triumph. Con la produzione di una linea propria di mutande, i membri del sindacato sperano di raccogliere i fondi necessari a sostenere la loro lotta. Il primo paio di mutande sarà presentato al Direttore Generale del Dipartimento del Lavoro. La lotta continua grazie alla creatività dei lavoratori!
Manda un messaggio alla Triumph, puoi fare la differenza!
(2009) Storica vittoria dei lavoratori della Russel Athletic in Honduras
Tra le cose positive, Russell aprirà una nuova fabbrica nell’area per riassumere e garantire opportunità di lavoro ai lavoratori del JDH con l’impegno a mantenere una posizione neutrale nei confronti della libertà di associazione; questo aprirà le porte ad un percorso di sindacalizzazione di tutte le aziende della Fruit of the Loom in Honduras
Russell Athletic/Fruit of the Loom è la più grande impresa del settore priviato in Honduras ed è una sussidiaria della Berkshire Hathaway.
L’accordo è il risultato dello sforzo massiccio e congiunto di studenti, sindacalisti e difensori di diritti del lavoro in Honduras, Stati Uniti, Canada e Europa. Il lavoro della campagna della United Students Against Sweatshops (USAS) ha portato più di 90 collegi e università a sospendere gli accordi di fornitura con la Russel; gli accordi – alcuni dei quali valevano anche più di 1 milione di dollari – concedevano alla Russell di mettere il logo delle università su magliettem felpe e pile.
La CCC ha collaborato con i sindacati e il Maquila Solidarity Network (MSN) per denunciare il caso di violazione alla Fair Labour Association, mentre Labour behind the Label (la CCC inglese) ha lavorato insieme alla campagna di studenti People and Placet per mobilitare proprio gli studenti nei confronti della Russell. Uno dei lavoratori coinvolti nella lotta sta visitando proprio in questi giorni l’Inghilterra e la Spagna in un tour organizzato dalla CCC per le prossime due settimane.
Alcuni aspetti dell’accordo raggiunti sono particolarmente degni di nota poiché esso include misure per proteggere la libertà di associazione sindacale che, a nostra conoscenza, non hanno precedenti in America Centrale. In particolare si tratta di:
a) accesso al sindacato e gestione congiunta tra sindacato e management di corsi di formazione alla libertà di associazione in tutte le fabbriche non organizzate in Honduras,
b) neutralità del datore di lavoro vero l’attività organizzativa di sindacalizzazione
c) predisposizione di meccanismi di terza parte per la risoluzione dei conflitti.
Di estrema rilevanza il fatto che la Russell ha accettato di procedere al graduale smantellamento dell’attuale sistema di rappresentanza “solidarista” presente nelle fabbriche non sindacalizzate per assicurare che ciò no ostacoli il diritto dei lavoratori alla libera associazione.
Per informazioni aggiuntive, potete leggere l’annuncio del Workers Rights Consirtium qui allegato
Oppure l’aggiornamento del Maquila Solidarity Network
(2009) Un salario dignitoso a difesa di tutti
OTTOBRE 2009 - In genere la persona che confeziona i vestiti che indossiamo è una donna, oberata di lavoro e sottopagata, in cattive condizioni di salute e a rischio di ritorsioni e molestie se prova a denunciare la sua condizione di sfruttamento. E’ una donna che deve mantenere la famiglia e prendersi cura dei figli.
Anche se il costo della vita è minore nei paesi di produzione come la Cina, il Bangladesh o l’Indonesia rispetto all’Europa e al Nord America dove i vestiti vengono commercializzati, le persone hanno il diritto di guadagnare quanto occorre per condurre una vita dignitosa. Hanno diritto ad un salario dignitoso.
(2009) Campagna internazionale per il salario dignitoso
In genere la persona che confeziona i vestiti che indossiamo è una donna, oberata di lavoro e sottopagata, in cattive condizioni di salute e a rischio di ritorsioni e molestie se prova a denunciare la sua condizione di sfruttamento. E’ una donna che deve mantenere la famiglia e prendersi cura dei figli. Anche se il costo della vita è minore nei paesi di produzione come la Cina, il Bangladesh o l’Indonesia rispetto all’Europa e al Nord America dove i vestiti vengono commercializzati, le persone hanno il diritto di guadagnare quanto occorre per condurre una vita dignitosa.
Chi può intervenire per modificare questa situazione?
Le imprese che definiscono gli standard di produzione nell’industria tessile globale - incluse multinazionali come Carrefour, Tesco, Walmart, Aldi e Lidl - hanno la responsabilità di assicurare che ai lavoratori che producono gli abiti che commercializzano sia pagato un salario dignitoso. Anche altri soggetti, come i governi e i fornitori, giocano un ruolo importante per la risoluzione del problema, ma non c’è dubbio che i giganti della distribuzione che governano le filiere internazionali dell’abbigliamento devono cambiare le loro pratiche di acquisto per consentire ai lavoratori di ottenere un salario dignitoso.
Alcune imprese sosterranno che è impossibile definire un salario dignitoso ma noi non siamo d’accordo. In Asia, dove avviene lgran parte della produzione di abbigliamento globale, una coalizione crescente di organizzazioni locali ha calcolato il livello del salario dignitoso minimo per l’Asia. I grandi distributori possono assumere un impegno concreto per porre fine al dilagare di salari da fame nelle fabbriche che forniscono i loro negozi; possono farlo lavorando in stretta collaborazione con l’alleanza per l’Asia Floor Wage perchè il salario dignitoso diventi una realtà tangibile.
Oggi puoi fare la tua parte!
Dai forza a coloro che stanno chiedendo un salario dignitoso per i lavoratori tessili.
Invia il messaggio allegato a coloro che hanno il potere di decidere nelle catene distributive dove acquisti (o potresti acquistare in futuro)
Messaggio per i distributori
Caro distributore,
credo che il salario dignitoso sia un diritto umano.
L’alleanza per l’Asia Floor Wage, una crescente coalizione di organizzazioni per i diritti del lavoro nel settore tessile, ha calcolato il salario minimo dignitoso per i paesi chiave asiatici dove viene prodotto gran parte dell’abbigliamento del mondo.
Chiedo alla vostra impresa di impegnarsi pubblicamente a fare i passi necessari ad assicurare l’applicazione del salario dignitoso, tenendo in considerazione la proposta formulata dall’Asia Floor Wage e di mettere in campo misure proattive per assicurare che tutti i lavoratori coinvolti nella produzione di abbigliamento per la vostra impresa siano pagati secondo quanto definito dalla alleanza asiatica.
Come importante committente che si rifornisce in Asia, la vostra impresa deve assicurarsi che il diritto ad un salario vivibile non sia negato alle donne e agli uomini che producono i prodotti tessili che commercializzate. Vi prego di tenermi informato sugli impegni e i passi concreti che farete per garantire l’applicazione del salario dignitoso presso i vostri fornitori.
Cordialmente
Il salario dignitoso è un diritto umano
Il diritto ad un salario dignitoso è stato ampiamente discusso e concordato all’interno della comunità internazionale.
La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948 dichiara che “Ogni individuo che lavora ha diritto ad una rimunerazione equa e soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia una esistenza conforme alla dignità umana ed integrata, se necessario, da altri mezzi di protezione sociale. (Articolo 23, sezione 3).
Per chiarire che guadagnare un salario dignitoso non significa avere più lavori e orari di lavoro estenuanti la Dichiarazione Universale dice “Ogni individuo ha diritto al riposo ed allo svago, comprendendo in ciò una ragionevole limitazione delle ore di lavoro e ferie periodiche retribuite. (Articolo 24). Lo stesso è stato espresso nel 1974 dall’International Covenant on Economic, Social, and Cultural Rights” (Parte III, Articoli 7 e 11).
I lavoratori tessili hanno diritto al salario dignitoso e le imprese della distribuzione hanno la responsabilità di assicurare che tale diritto sia applicato.
Elusione fiscale per Benetton
01/10/2009 La Commissione Tributaria di Treviso ha disposto che il Gruppo Benetton dovrà versare all’erario complessivamente 3 milioni di euro per aver dedotto nel 2003 dei costi sostenuti a favore di due società con sede nell’isola di Man. A sua volta l’Agenzia delle Entrate ha aperto un fascicolo su una società del gruppo per una presunta elusione fiscale di 90 milioni di euro. La vicenda riguarderebbe la Bencom che gestirebbe i rapporti con le società affiliate del gruppo (fonte: La tribuna di Treviso)
(2009) Vittoria per i lavoratori della Desa in Turchia
Il protocollo stabilisce che:
• DESA riconoscerà il Deri Is come l’unico sindacato autorizzato in fabbrica
• DESA non metterà in campo alcun comportamento, positivo o negativo, nei confronti dei lavoratori in riferimento al sindacato
• DESA riassumerà 5 lavoratori subito e 1 successivamente, oltre ai 6 già reintegrati. Gli altri lavoratori licenziati avranno la priotrità di reintegro non appena si presenteranno nuove opportunità di assunzione.
• A tutti i lavoratori sarà consegnato un documento recante la dichiarazione che il sindacato è un diritto costituzionale
Deri Is concorda nel sospendere la campagna internazionale e nel sostenere positivamente l’azienda perchè possa riguadagnare la reputazione e i clienti.
Accogliamo con favore questo protocollo e esortiamo i marchi committenti di DESA a seguire questa azienda per assicurare che la decisione di rispettare la libertà di associazione sindacale sia sostenuta attraverso l’aumento di ordini e investimenti.
La Clean Clothes Campaign resterà in contatto con il sindacato Deri Is per monitorare l’attuazione dell’accordo e fare circolare aggiornamenti regolari sul lavoro del sindacato. I primi segnali sull’attitudine di DESA di onorare questo accordo sono positivi. Speriamo che ciò evolva verso un maturo sistema di relazioni industriali nei prossimi anni.
Grazie a tutti coloro che hanno sostenuto la campagna e ai lavoratori della DESA. Un ringraziamento speciale a Emine Arslan, leader delle operaie della DESA, per aver lottato in prima persona per i diritti di tutti, diventando così motivo di ispirazione per molte altre donne in Turchia. La solidarietà internazionale è stata cruciale nel sostenere la lunga e coraggiosa lotta delle donne che si sono alzate in piedi per ottenere i loro diritti. Vi chiediamo di continuare a sostenere queste campagne e di rispondere alle future richieste di aiuto attraverso la rete delle azioni urgenti della Clean Clothes Campaign.
Leggete la lettera della CCC inviata ai marchi committenti sul protocollo
(2009) Mandato di arresto per i leaders di una pacifica protesta contro la multinazionale Triumph
Il 28 di agosto il Dusit Police Bureau di Bangkok ha emesso un mandato di arresto nei confronti di tre attivisti sindacali per la loro partecipazione ad una pacifica dimostrazione contro il licenziamento di quasi 2000 lavoratori della Body Fashion Thailand, sussidiaria di totale proprietà della Triumph International.
Il giorno prima centinaia di lavoratori della Triumph si erano riuniti di fronte al Parlamento per consegnare una petizione al Primo Ministro Abhisit Vejjajiva. Per tutta risposta Abhisit Vejjajiva aveva rifiutato di incontrare i rappresentanti sindacali mentre i lavoratori hanno fronteggiato la polizia che ha addirittura utilizzato il sistema sonico LRAD per disperdere la folla. Questa controversa arma militare produce un'alta concentrazione di onde sonore che possono causare sordità temporanea, vista offuscata e danni permanenti al sistema uditivo. Secondo le organizzazioni per i diritti umani, quest'arma non letale può essere classificata come una tecnica di controllo politico che minaccia le libertà civili.
Bunrawd Saiwong (33), segretario del sindacatoTriumph International Thailand Labour Union (TITLU), Jitra Kotchadej (34), consulente indipendente del TITLU e Sunthorn Boonyod (50), responsabile del Labour Congress Centre for Labour Unions of Thailand, sono accusati di avere violato l' Internal Security Act (ISA), che proibisce manifestazioni di più di 10 persone nel distretto di Dusit a Bangkok. L'ISA, che offre ampi poteri alle autorità per arrestare e detenere, in questo caso è stato utilizzato per reprimere una pacifica dimostrazione e la libertà di parola in relazione ad un caso di violazione di diritti del lavoro commessa da una impresa multinazionale europea.
La dimostrazione tenutasi di fronte al parlamento thailandese fa parte delle numerose proteste organizzate dal sindacato della Triumph contro i licenziamenti previsti per la metà dei lavoratori della sussidiaria Body Fashion Thailand. Il sindacato ha subito pesanti comportamenti antisindacali a partire dall'estate 2008. Si teme che l'annuncio di riduzione del personale sia un nuovo tentativo finalizzato a fare fuori un'impresa sindacalizzata; questo risulta evidente a partire dal fatto che altre fabbriche in Thailandia, possedute dalla stessa Triumph ma non sindacalizzate, si stanno invece espandendo. La Triumph inoltre non rispetta la convenzione ILO158 e le Linee Guida OCSE per le imprese multinazionali, che richiedono alle aziende di sviluppare e negoziare i piani di riduzione del personale con il sindacato, oltre al fatto di fornire informazioni dettagliate che motivino il piano di riduzione. Durante il mese di agosto i dirigenti della multinazionale hanno ripetutamente cancellato gli incontri con il sindacato.
(2009) REPORT - Amazzonia che macello!
L'indagine di Greenpeace "Slaughtering the Amazon" pubblicata nel mese di giugno 2009 denuncia la corresponsabilità nella deforestazione dell'Amazzonia di marchi delle calzature e della grande distribuzione
GIUGNO 2009 - Centinaia di allevamenti illegali all'interno della foresta pluviale amazzonica brasiliana, ottenuti con il taglio indiscriminato degli alberi e il lavoro in stato di schiavitù, riforniscono i macelli e le concerie di colossi come Bertin, JBS e Marfirg per entrare nelle filiere internazionali dell'alimentazione, dell'arredamente e delle calzature. Le aziende coinvolte nei settori di cui ci occupiamo: Adidas, Hugo Boss, Carrefour, Clarks, Geox, Gucci, Tom Hilfiger, Ikea, Lidl, Nike, Prada, Reebok, Tesco, Timberland, Louis Vuitton, Wal-Mart).
A fine luglio Nike e Timberland annunciano una nuova politica di acquisti della pelle bovina concordata con Greenpeace. Geox si impegna a garantire che il pellame acquistato non provenga dalla distruzione della foresta amazzonica. Seguono in agosto gli impegni di Adidas e Clarks.
(2009) Diritti negati e lavoro pericoloso presso il fornitore turco Menderes
Sostenete il sindacato turco nella loro lotta nei confronti della Menderes e delle multinazionali della distribuzione. Scrivete una lettera a IKEA, Wal-Mart e Carrefour, Otto, Ibena, Target and Kohl’s e chiedete condizioni giuste e dignitose lungo tutta la filiera produttiva.
Background
La Menderes Tekstil nel Sud-Ovest della Turchia produce tessile per la casa per il mercato interno e per l'esportazione. Nell'ultimo anno, quattro lavoratori sono morti per incidenti sul lavoro. L'ultimo avvenuto il 20 Novembre 2008 ha visto un lavoratore morire a causa della caduta in una canna fumaria di una caldaia a carbone. Secondo i lavoratori la caldaia non aveva misure di sicurezza necessarie per prevenire l'incidente. Dopo l'incidente tragico, la direzione dell'azienda ha ordinato a tre colleghi della vittima di calarsi nella canna fumaria e recuperare il corpo. Di nuovo, senza alcuna protezione individuale i tre hanno respirato gas tossici nel boiler; ciò ha causato un avvelenamento polmonare che ha richiesto un trattamento ospedaliero.
A Marzo del 2008, il sindacato nazionale TEKSIF ha cominciato ad organizzare i lavoratori in fabbrica. Da allora il management della Menderes ha chiamato i responsabili sindacali ad uno ad uno mettendoli di fronte ad un out-out: lasciare il sindacato o essere licenziati.
Ancora, la Menderes sta continuando la sua campagna antisindacale. La direzione ha continuato a minacciare i lavoratori sospettati di essere membri del sindacato, forzandoli a lasciare il sindacato oppure a firmare lettere di dimissioni volontarie.
Ad agosto del 2008 i lavoratori e i rappresentanti sindacali hanno cominciato le proteste fuori dalla fabbrica. La protesta è durata 190 giorni ed era mirata a conquistare il riconoscimento del sindacato quale interlocutore fondamentale. Nonostante queste mobilitazioni, l'azienda ha continuato a minacciare i sindacalisti e ha rifiutato qualunque forma di dialogo con il sindacato.
Nel frattempo, otto casi sono per licenziamenti illegittimi stati portati in tribunale. Ma sappiamo che i tempi della giustizia possono essere lunghi.
Ulteriori approfondimenti sul sito internazionale della Clean Clothes Campaign
(2009) La corte suprema da ragione ai lavoratori della DESA mentre i marchi del lusso tacciono
La corte suprema da ragione ai lavoratori della DESA mentre i marchi del lusso tacciono
Ma la lotta non è ancora finita. Senza il vostro aiuto, i 18 lavoratori potrebbero essere ancora privati del legittimo posto di lavoro e le minacce potrebbero persistere. Dopo la decisione della Corte Suprema, la DESA ha infatti ricominciato a minacciare i lavoratori, in particolare quelli vicini ai colleghi licenziati. Ai lavoratori è stato comunicato che quelli sindacalizzati sono sotto il controllo delle telecamere e che chiunque si avvicini a parlare con loro rischia il licenziamento
AGISCI ORA - dite ai clienti della DESA, tra cui Prada, M & S, Debenhams, Mulberry e Jaeger, che DESA deve rispettare la libertà di associazione sindacale, attraverso l’immediata riassunzione dei lavoratori illegalmente licenziati e l’apertura dei negoziati con il sindacato.
(2009) La lotta dei lavoratori della DESA compie 1 anno
La lotta dei lavoratori DESA compie 1 anno
I lavoratori attendono giustizia mentre Emine Arslan sarà premiata per la sua battaglia sui diritti umani
APRILE 2009 - Cari amici e sostenitori della campagna Abiti Puliti, mentre si sta avvicinando il primo anniversario dall’inizio della lotta del sindacato Deri IS, i lavoratori e le lavoratrici stanno ancora protestando ogni giorno fuori dai cancelli della fabbrica DESA chiedendo di riassumere i 44 lavoratori licenziati in seguito alla loro iscrizione al sindacato. Nei mesi di dicembre 2008 e aprile 2009 il tribunale turco ha confermato che 25 lavoratori sono stati illegalmente licenziati a causa delle loro attività sindacali e sono pertanto da riassumere. DESA ha deciso di fare ricorso alla corte superiore anche se nessuna nuova evidenza è stata avanzata durante le recenti udienze, a testimonianza che il ricorso non è altro che un nuovo tentativo di allungare il processo. Una tattica frequente per prolungare le dispute nella speranza che i lavoratori cessino di lottare stremati dalle difficoltà economiche. Ringraziamo tutti coloro che hanno sostenuto la campagna in questi mesi difficili; continuate a farlo, il vostro prezioso contributo può fare la differenza!
Le intimidazioni verso il sindacato continuano
A marzo 2009 Emine Arslan e Nuran Gulenc del Deri Is sono venute in Europa per un tour di sensibilizzazione che ha coinciso con la giornata di mobilitazione internazionale contro Prada tenutasi il 7 marzo. Il 22 marzo, dopo il loro rientro in Turchia, in un servizio apparso sulla televisione turca la direzione della DESA collegava il Deri IS a Ergenekon, un gruppo armato responsabile di numerosi assassini in Turchia. DESA ha dichiarato che la campagna sindacale faceva parte di un piano di destabilizzazione dell’economia turca. Pochi giorni dopo il sito del Deri Is ha subito un attacco da parte di hacker; il 30 marzo qualcuno ha fatto irruzione nell’ufficio del sindacato rubando la macchina fotografica e un computer. Stranamente i soldi non sono stati toccati. Secondo la polizia si è trattato di un’operazione condotta da professonisti.
I marchi rallentano il processo risolutivo
Nonostante a dicembre ci fosse stato qualche segnale positivo circa la possibilità che la direzione DESA e i marchi committenti si sedessero ad un tavolo negoziale, è oggi chiaro che non si trattava dell’apertura di un confronto reale ma del un tentativo di fermare la campagna internazionale. Alcuni committenti hanno risposto alla campagna e comunque solo una delle imprese, la spagnola El Corte Ingles, ha acconsentito ad incontrare il sindacato e ha richiamato DESA ad aprire il confronto con il sindacato. Gli altri, nello specifico Debenhams, M&S e Mulberry hanno incontrato l’ ITGLWF ma hanno rifiutato di parlare con il sindacato in Turchia e di chiedere con forza l’apertura di un negoziato tra la DESA e il Deri IS. Prada, il principale cliente di Desa, ha rifiutato di fare qualunque passo concreto per la soluzione del caso mentre Aspinalls of London, Nicole Fahri e Luella non hanno mai risposto alla campagna.
Un premio per i diritti umani per Emine Arslan
Nonostante i grandi marchi internazionali non riconoscano l’importanza del lavoro del Deri IS, le attiviste in Turchia e in tutta Europa sono state ispirate dal lavoro e dal coraggio di Emine Arslan. Come riconoscimento al valore del suo lavoro e del suo impegno civile le è stato riconosciuto un prestigioso premio in materia di diritti umani dalla Istanbul Chambers of Doctors: il Sevinc Ozguner Human Rights, Peace and Democracy Award 2009.
La lotta continua
Nonostante le reali difficoltà economiche fronteggiate dai lavoratori licenziati e le continue intimidazioni nei confronti del sindacato, i lavoratori e le lavoratrici della DESA continuano tenacemente la loro lotta per la giustizia.
Il sostegno ricevuto dai sindacalisti e dagli attivisti in tutto il mondo ha veramente contribuito a rafforzare i lavoratori e ha mostrato l’importanza della solidarietà internazionale in quelle che spesso si rivelano essere lunghe lotte per il riconoscimento di sindacati liberi. Grazie a tutti coloro che hanno dato un contributo per risolvere il caso, in particolare grazie a tutte le persone che hanno partecipato al tour italiano nel mese di marzo a fianco di Emine Arslan e Nuran Gulenc e continuano a sostenerci. Il vostro contributo fa davvero la differenza.
Abbiamo ancora bisogno del vostro aiuto! Grazie alla campagna in corso i grandi marchi si sono incontrati per affrontare il caso ma adesso occorre fargli sapere che questo non è abbastanza e che non cesseremo la campagna finchè i lavoratori e le lavoratrici della DESA non otterrano la giustizia che meritano. Vi preghiamo di inviare una mail oggi stesso per chiedere l’apertura del tavolo negoziale ADESSO!
(2009) Prada: il vero prezzo del lusso
Prada: il vero prezzo del lusso
Continua il tour europeo della delegazione turca per chiedere a PRADA un comportamento responsabile
9 MARZO 2009 - Emine Arslan e Nuran Gulenc continuano il loro viaggio per denunciare in quali condizioni vengono confezionati i prodotti dei marchi del lusso europeo e dell'italiana PRADA nell'azienda DESA in Turchia. Dopo l'Italia, dove ha incontrato la Commissione Etica Regiornale toscana e il coordinamento delle RSU di PRADA, la delegazione turca si è diretta a Parigi per la giornata internazionale di protesta tenutasi il 7 marzo davanti ai negozi di Prada a Milano, Parigi, Londra e Madrid.
Oggi, insieme alla Clean Clothes Campaign spagnola, si svolgerà l'incontro con il sindacato spagnolo e El Corte Ingles, importante e famoso marchio cliente di DESA, che ha accettato di incontrare le protagoniste della lotta sindacale che dura da 300 giorni, dimostrando un'attitudine decisamente diversa da quella di PRADA, che non ha invece risposto allo stesso invito pervenuto dai sindacati tessili italiani e dalla Campagna Abiti Puliti.
(2009) Desa: i marchi internazionali devono intervenire
I marchi internazionali devono intervenire
FEBBRAIO 2009 - Nel novembre 2008 la Clean Clothes Campaign e LabourStart hanno lanciato un appello urgente volto a sostenere i lavoratori turchi della DESA ingiustamente licenziati che producevano per alcuni dei più lussuosi marchi europei. Da allora il tribunale turco ha confermato che i lavoratori della DESA sono stati licenziati per attività sindacali; numerosi incontri hanno avuto luogo tra il sindacato e la DESA. Nonostante questo apparente progresso, poco è cambiato per i lavoratori e le lavoratrici nelle fabbriche del lusso.
C’è bisogno di maggiore pressione per spingere la DESA e i suoi clienti ad assumere comportamenti responsabili verso i lavoratori e proteggere il loro diritto a formare un sindacato libero e
indipendente.
Troppe parole, ancora pochi fatti
Il nostro primo appello invitava le imprese committenti a partecipare ad un incontro coordinato dal sindacato internazionale International Textile Garment and Leather Workers Union fissato per il 20 dicembre 2008. A quanto ci risulta nessuno dei committenti ha acconsentito a partecipare.
Fortunatamente per loro, il focus si è spostato dalla necessità di ottenere un incontro tra i committenti quando la DESA ha improvvisamente accettato di incontrare i sindacati per discutere delle loro richieste. Il primo incontro è avvenuto venerdì 19 dicembre e secondo i presenti è stato utile e costruttivo. Tuttavia nessun accordo era stato raggiunto circa il reinserimento dei lavoratori licenziati e pertanto si decise di aggiornare l’incontro al lunedì successivo
Lunedì 22 dicembre i rappresentanti del Deri Is si incontrarono nuovamente con la dirigenza di DESA, ma questa volta l’incontro fu meno fruttuoso; non solo nessun accordo era stato raggiunto, anche il clima era diverso visto che DESA aveva ritrattato su alcuni punti discussi il 19. Nonostante la richiesta del DERI IS di rilasciare un documento che tenesse traccia degli avanzamenti discussi, nulla di scritto è mai pervenuto.
Dal 22 dicembre si sono tenuti diversi altri incontri, l’ultimo il 13 gennaio. Nesun progresso è stato fatto e nessun documento prodotto. Siamo preoccupati che DESA stia oggi utilizzando tali incontri per fermare la campagna, visto che non si capisce perchè l’azienda continui a rifiutare qualunque documento scritto. E’ importante mostrare a DESA che fare incontri su incontri non porta ad una risoluzione ed esortarla a riprendere un approccio positivo allo scopo di giungere ad una risoluzione.
Il tribunale conferma le discriminazioni sindacali
Il 24 dicembre Emine Arslan operaia dalla fabbrica di Sekafoy e altri quattro lavoratori della fabbrica di Düzce sono finalmente riusciti a portare il loro caso in tribunale. Il tribunale ha rilevato che sono stati licenziati in seguito all’attività sindacale e che devono essere reintegrati o adeguatamente risarciti per ingiusto licenziamento. DESA ha presentato ricorso. Il 20 di gennaio, il tribunale ha esaminato altri 3 casi, seguiti da ulteriori 5 il 22 gennaio 2009. Secondo il tribunale, tutti gli 8 lavoratori sono sono stati illegalmente licenziati per motivi sindacali. DESA deve ancora dare risposte in merito alle sentenze, invece di continuare a rifiutare la reintegrazione di Emine e di una serie di altri lavoratori.
Sentenza del tribunale su Emine Arslan
I continui licenziamenti dimostrano la necessità di una rappresentanza sindacale
30 lavoratori licenziati a causa della 'crisi economica' 4 dei quali erano membri del sindacato. Dato che questo è avvenuto nel corso di una controversia in corso, si potrebbe sostenere che, se veramente DESA avesse voluto dar prova di buona fede al Deri Is, avrebbe evitato di licenziare ancora lavoratori loro membri. Questi quattro, Aysen Yilmaz, Nursen Meydan, Serda Yilmaz e Zeki Acar, continuano a lottare per la reintegrazione. Ci risulta che DESA sarebbe d’accordo alla loro reintegrazione se solo i committenti piazzassero ordini di produzione ma nulla stato messo per scritto.
I lavoratori e le lavoratrici in tutto il mondo sono di fronte al rischio di pesanti esuberi a causa della crisi economica mondiale in continuo peggioramento. Non sappiamo se DESA sta davvero afrontando difficoltà finanziarie, o se questo è solo un altro modo di intimidire i lavoratori. In entrambi i casi la situazione rende ancora più urgente la necessità di ottenere il riconoscimento del sindacato e di garantire che i lavoratori siano adeguatamente consultati in caso di qualsiasi piano di esubero futuro.
Dai marchi nessuna assunzione di responsabilità
L'ultimo appello all’azione rivolto ai committenti di DESA non ha prodotto alcun tipo di assunzione di responsabilità per cercare di migliorare le condizioni alla DESA. Questi includono Prada, Mulberry, Nicole Fahri (di proprietà di French Connection), Luella, Samsonite, e Aspinalls di Londra.
Luella and Samsonite non hanno mai risposto alle lettere e neppure hanno contattato il sindacato internazionale ITGLWF, il Deri Is o la Clean Clothes Campaign.
Prada, di gran lunga il principale cliente della DESA, ha risposto alle email della Clean Clothes Campaign italiana e del sindacato ITGLWF ma la risposta è stata deludente. Prada ha semplicemente sottolineato che un audit era stato fatto e nessun problema era stato riscontrato, che membri del sindacato erano in fabbrica così non ci poteva essere un problema di libertà di associazione sindacale e che avrebbe atteso l'esito dei procedimenti giudiziari.
Aspinals of London a novembre ha risposto per dire che stava “investigando”. Non abbiamo più saputo nulla da allora. Nicole Fahri ha detto la stessa cosa e poi ha smesso di rispondere alle email.
Altri marchi coinvolti nel caso, ma non nella campagna includono il gigante spagnolo El Corte Ingles e le aziende di grande distribuzione inglese Marks & Spencer e Debenhams. Essi hanno continuato a essere più attivi rispetto agli altri e hanno contattato DESA per sollevare le loro preoccupazioni. M & S ha anche commissionato un nuovo audit che riteniamo essere più credibile, ma che non è mai stato reso pubblico o condiviso con gli altri marchi, i sindacati e gli attivisti. Nessuno dei marchi ha mostrato disponibilità a lavorare insieme e nessuno ha intrapreso il tipo di azione proattiva necessaria a sostenere una positiva soluzione del caso.
La nostra risposta: abbiamo bisogno di azioni non di ispezioni
la Clean Clothes Campaign ha nuovamente contattato tutti i committenti la scorsa settimana con una lettera congiunta. Con una dichiarazione pubblica il sindacato internazionale ITGLWF, insieme con i sindacati spagnoli, italiani e inglesi ha chiesto loro di intervenire per risolvere caso.
Lettera inviata dalla CCC
Quasi tutti i committenti hanno fatto menzione di audit condotti presso la fabbrica come parte della loro 'risposta' alle accuse. Comprendiamo la necessità di chiarire i fatti, ma questo caso è aperto dall’aprile 2008. I fatti sono noti e piu 'ispezioni' non cambieranno la situazione. L'unico modo per risolvere questo caso è attraverso la negoziazione e le vie legali.
Nessuno dei marchi si è impegnato in una qualunque forma di negoziato, nonostante i ripetuti tentativi per spingerli a farlo. Invitiamo i committenti a chiedere alla DESA di fornire documenti scritti di tutte le riunioni che si svolgono e un report sullo stato di avanzamento del processo negoziale. Li invitiamo nuovamente a prendere parte essi stessi a questo processo partecipando agli incontri sia con il sindacato, sia con DESA.
Prada, insieme ad altri marchi ha dichiarato che "qualora emergessero prove di violazioni di normative giuslavoristiche, comprovate dale autorità turche” sarebbe stata pronta a prendere le misure necessarie. Il tribunale ha confermato tali violazioni ma nel mese successivo alla decisione del giudice, Prada e gli altri si sono dimostrati tutt'altro che disposti a prendere le 'misure necessarie.
I marchi e la DESA devono sapere che la campagna non sarà messa a tacere attraverso il ricorso a riunioni fasulle e inutili indagini. Il tribunale turco ha accolto le denunce fatte dai lavoratori e questo basta. I marchi devono ora prendere le iniziative che hanno promesso per garantire che i lavoratori ottengano la giustizia che meritano.
(2008) Confermato licenziamento Jitra Kotshadej
Il 27 novembre il tribunale del lavoro di Bangkok ha dato ragione alla Body Fashion Thailand (BFT), filiale della multinazionale svizzera dell’intimo Triumph International, che aveva licenziato la presidentessa del sindacato aziendale, Jitra Kotshadej, per essere apparsa il 29 luglio scorso in un programma televisivo sostenendo il diritto dei cittadini thailandesi ad opporsi all’abuso del reato di “lesa maestà”, per esempio il rifiuto di alzarsi in piedi quando viene suonato l’inno reale, utilizzato per reprimere il dissenso politico.
Dopo 45 giorni di sciopero i lavoratori della BFT hanno dovuto riprendere il lavoro accettando la sentenza che avrebbe emesso il tribunale, ma malgrado gli accordi, non sono riusciti a evitare le ritorsioni: ai più attivi è stata ridotta la quantità di lavoro, subiscono molestie e non hanno più diritto ai permessi. Wanphen Wongsombat, la leader sindacale che all’inizio di ottobre aveva incontrato i vertici della Triumph International in Svizzera, senza per altro riuscire a scuoterli dall’immobilismo rispetto alla gravità della violazione di un diritto fondamentale come quello della libertà di espressione, ha ricevuto minacce telefoniche da sconosciuti. Resta in forse l’accordo strappato alla direzione della BFT per mettere in piedi una commissione con il compito di verificare i comportamenti antisindacali e i tentativi di corruzione denunciati dal sindacato nei giorni dello sciopero dei lavoratori. Il sindacato chiede che della commissione facciano parte rappresentanti della casa madre e del consiglio di fabbrica della sede tedesca.
Scrivi a Triumph International per chiederle di tener fede al proprio codice di condotta, di attivarsi contro gli abusi e le discriminazioni, di aderire alla commissione allargando il suo mandato all’esame dei comportamenti antisindacali dopo la fine dello sciopero dell’estate scorsa.
Scrivi nell’oggetto: Implement Triumph code of conduct in BTF outstanding labour issues
http://www.cleanclothes.org/urgent/08-11-06.htm
(2008) Il sindacato è un diritto, non un lusso!
Il sindacato è un diritto, non un lusso!
Ditelo a Prada, Mulberry, Louis Vuitton, Aspinals of London e Samsonite
NOVEMBRE 2008 - Chiunque decide di comprare una borsa di pelle o un paio di guanti di Prada, Mulberry, Louis Vuitton, Aspinals of London e Samsonite probabilmente dà per scontato che pagando prezzi così alti i prodotti in questione siano esenti da abusi e sfruttamento di chi li confeziona.
La realtà invece è molto diversa, come testimoniano i lavoratori della DESA in Turchia. Orari di lavoro eccessivi, salari molto bassi e condizioni pessime sono la norma e da sei mesi l’azienda sta conducendo una campagna di intimidazione contro il sindacato che i lavoratori hanno organizzato per fare valere i propri diritti.
Leggi l'inchiesta de L'Unità (INSERIRE 4 PDF)
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Nell’aprile del 2008, centinaia di lavoratori della DESA hanno deciso di iscriversi al sindacato DERI IS. Da allora 44 sono stati licenziati e altri 50 sono stati obbligati a lasciare il sindacato. La DESA produce articoli di pelletteria per Prada, Mulberry, Louis Vuitton, Samsonite, Aspinals of London, Nicole Fahri e Luella.
I lavoratori stanno lottando e manifestando davanti ai cancelli della DESA nella zona industriale di Düzce per il loro legittimo diritto ad organizzarsi, nonostante la repressione continua e gli arresti da parte della polizia locale. A Emine Arslan, una delle donne leader sindacali dello stabilimento DESA di Instanbul (Sefaköy), è stato offerto denaro per cessare le sue rivendicazioni verso DESA e le manifestazioni davanti alla fabbrica. In seguito al suo rifiuto, la sua famiglia è stata minacciata e alcune ore dopo sua figlia è scampata ad un tentativo di rapimento da parte di un uomo in moto.
La storia di una lavoratrice:Emine Arslan
Solo una piccolissima parte delle centinaia di euro che i consumatori pagano per i prodotti di lusso confezionati in DESA vanno ai lavoratori. Tutti guadagnano pochissimo, fanno orari estenuanti, e soffrono di numerosi disturbi causati da una scarsa attenzione alle condizioni di salute e sicurezza. Denunciano che non ci sono abbastanza servizi igienici per tutti e quelli esistenti sono sudici. L’unica acqua da bere proviene da un buco ricavato nel pavimento del bagno. Il cibo garantito dall’azienda è di scarsa qualità e, senza servizi per la cura e l’assistenza dei bambin, molte lavoratrici sono costrette a lasciare il loro lavoro una volta diventate madri.
Le condizioni di lavoro alla Desa
DESA produce per molti marchi europei e nordamericani. Molti di loro sono stati contattati dall’ ITGLWF e/o dalla Clean Clothes Campaign negli scorsi mesi. Nessuno ha preso le misure necessarie per assicurare che i lavoratori della DESA possano godere dei diritti che gli spettano.
Vi chiediamo di agire subito e di fare pressione sui marchi del lusso perché sostengano il diritto di organizzarsi dei lavoratori della DESA.
(2008) United Business of Benetton
OTTOBRE 2008 - In edizione integrale il libro United business of Benetton: sviluppo insostenibile dal Veneto alla Patagonia di Pericle Camuffo (Stampa Alternativa, 2008) che mostra il dietro le quinte del marchio Benetton dando voce a tante campagne di denuncia dal basso.
(2008) I lavoratori Triumph incontrano i vertici aziendali
OTTOBRE 2008 - Dal 23 settembre al 3 ottobre Wanphen Wongsombat del Triumph International Thailand Labour Union e Premjai Jaikla della Thai Labour Campaign hanno tenuto una serie di incontri pubblici e con i sindacati locali in Germania, Danimarca, Norvegia, Svezia e Svizzera sul caso riguardante Jitra Kotshadej, leader del sindacato della Body Fashion Thailand, licenziata dalla filiale thailandese della multinazionale dell’intimo Triumph International per aver espresso in un contesto privato le proprie opinioni politiche.
La CCC è soddisfatta della visibilità data al caso dalla stampa e della solidarietà ricevuta. Wanphen e Premjai hanno anche incontrato in Germania i vertici di Triumph alla presenza del consiglio di fabbrica tedesco. Il risultato è stato deludente in quanto Triumph continua a respingere ogni richiesta di intervento diretto. Continueremo a seguire il caso
(2008) Commercio equo in Argentina
In Argentina lungo il filo di cotone di un progetto ambizioso di commercio equo
Reportage di Sandra Cangemi - Coordinamento Nord/Sud del Mondo
Giugno 2008 - Questa storia nasce da una serie di incontri casuali. Come quello, nel 2002, tra Harold Picchi, un argentino in fuga dal default argentino, e la cooperativa di commercio equo milanese Chico Mendes. Da cui nasce un progetto che sembra delirante: una filiera tessile (quasi) tutta equa e solidale, nell’Argentina della crisi. Cominciamo dalla fine. Da chi le magliette di questa filiera le cuce.
Anche questo è stato un incontro fortuito. Ce lo raccontano le ragazze del laboratorio di cucito della cooperativa La Juanita, nata dal movimento dei disoccupati de La Matanza, barrio di un paio di milioni di abitanti a un’oretta di macchina da Buenos Aires (quando non piove: perché allora le strade diventano fiumi di fango e di ore ce ne vogliono tre, come è successo a noi). “Nel 2003, stavamo vendendo abiti di tessuti riciclati al mercato solidale di Palermo Viejo (un quartiere di Baires, ndr) e abbiamo incontrato Harold Picchi, che ci ha parlato del progetto. Il laboratorio era nato due anni prima, con un corso di formazione gratuita dell’Università di San Martin. Non avevamo nemmeno le macchine per cucire, le prime tre ce le ha regalate l’ambasciata svizzera. I primi anni cucivamo insieme pezzetti di stoffa riciclata per fare indumenti e coperte.
Per nostra fortuna, abbiamo incontrato molti sognatori. Tra questi appunto Harold, che ci ha aiutato a rafforzarci, a lavorare sui punti critici e a imparare a produrre magliette adeguate al gusto europeo, molto esigente. Il nostro motto? “Rendiamo il lavoro di moda”. L’abbiamo scritto anche su alcune magliette”. L’impegno per la dignità del lavoro e per l’autogestione, il rifiuto di ogni forma di clientelismo e assistenzialismo e la passione per l’educazione alla libertà sono i capisaldi della cooperativa La Juanita, che ha sede in una ex scuola e gestisce anche una casa editrice, un asilo, una panetteria popolare con annessa scuola, un laboratorio di riciclaggio di computer e formazione informatica, un circuito di microcredito, corsi di alfabetizzazione per adulti, un laboratorio di stampa di tessuti.
Anche la cooperativa tessile Juana Azurduy (22 soci in tutto; gestiscono anche una panetteria e una pizzeria e lavorano il ferro)ha sede in una scuola abbandonata di La Plata, città universitaria nei dintorni di Buenos Aires. Pareti coperte di murales, due stanzoni pieni di stoffe e macchine per cucire. Sette ragazze: interrompono il lavoro per raccontarci la loro avventura bevendo mate. “Le macchine le abbiamo comprate con un piccolo finanziamento a fondo perduto del governo federale. Abbiamo iniziato in tre, due anni fa, cucendo grembiuli, uniformi scolastiche e t-shirt che vendevamo alla Sur, la serigrafia di un’altra associazione. E’ grazie alla Sur che abbiamo conosciuto il commercio equo. Ci è sembrato perfetto: proprio quello che cercavamo. Vogliamo un’economia dove le persone sono più importanti dei soldi, senza padroni, che lavori in rete e in solidarietà con altri gruppi del movimento. Non vogliamo produrre per l’economia “normale”, anche se questo vuol dire guadagnare solo il minimo per sopravvivere, per ora”. Le ragazze hanno sistemato le macchine in modo da potersi guardare in faccia, e devono puntare la sveglia sull’orario di uscita perché altrimenti si scorderebbero di andare a casa; mentre lavorano sono praticamente in assemblea permanente, perché qui si decide tutto insieme. “Sotto padrone nulla è tuo, qui invece tutto è nostro. Vuol dire più responsabilità, impegno reciproco, rispetto delle colleghe ma anche dei compagni del movimento, di Altromercato... Ora stiamo cercando di aiutare l’avvio di altri laboratori nel quartiere: diamo formazione, prestiamo le nostre macchine e aiutiamo per la distribuzione dei prodotti”. Risaliamo la filiera scendendo a sud per 600 chilometri. La Textiles Piguè, dove si producono i tessuti per le magliette, è in piena pampa, in una cittadina di 15mila abitanti. La Textiles è una delle 220 imprese recuperate argentine: portate al fallimento da imprenditori irresponsabili, occupate e rimesse in produzione dai lavoratori costituiti in cooperativa, che hanno resistito a una denuncia per usurpazione, a un violento sgombero, al tentativo di acquisto da parte di un fondo finanziario americano, fino a ottenere una sentenza di esproprio temporaneo. L’organizzazione del lavoro, gli investimenti, i salari (quello di base, 800 pesos, è uguale per tutti, poi ci sono indennità di responsabilità, fino a un massimo di 1.100) vengono decisi dall’assemblea dei 130 soci lavoratori, che eleggono anche il Cda, “i cui sette membri sono pagati meno”, spiega il presidente, Francisco Martinez, “perché è un ruolo di servizio, non di potere”. Si lavora in gruppi, ognuno con un responsabile. In quattro anni non c’è stato nessun incidente grave: le norme sulla sicurezza vengono rigorosamente rispettate. E non si scaricano più nel fiume i residui di lavorazione, come quando c’era il padrone; ora c’è il depuratore. Il 5, 6% della produzione è per il commercio equo, ma l’impresa lavora al 30% circa delle sue potenzialità, solo con filati forniti dai committenti, perché l’accesso al credito è un grosso problema. In via di superamento, però: la Textiles è la prima fabbrica recuperata argentina che nel febbraio 2008 ha firmato un accordo con la ministra della produzione per acquistare l’impresa in 10 anni, a un tasso bassissimo (9% annuo, con un’inflazione al 22), grazie a un fondo di fideiussione costituito da Credicoop (una banca cooperativa argentina) e dallo stesso ministero della produzione; altri fondi verranno dalla vendita di un terreno. Potrebbe essere un’esperienza pilota che apre la strada a una legge di espropriazione definitiva e a un fondo agevolato per imprese recuperate. “Il mio sogno”, dice Martinez, “è poter arrivare a salari dignitosi e all’accesso al credito, e poter mettere un giorno la mia esperienza a disposizione della società. Il lavoro nella filiera tessile, il lavoro con i disoccupati organizzati e con i campesinos è già parte di questo sogno”.
A questo punto la filiera salta un anello. I filati vengono prodotti da un’impresa vicina a Buenos Aires che rispetta i criteri della responsabilità socio-ambientale, ma niente di più. “Si tratta di produzioni industriali, dove per ora è praticamente impossibile trovare aziende eque”, spiega Picchi. E anche la tracciabilità dei filati, ufficialmente garantita, non è poi così certa.
Risaliamo verso nord per 1.800 km e arriviamo in Chaco, una delle province più povere. Sono gli indigeni Toba della Union Campesina a produrre il cotone biologico (e di ottima qualità) per le magliette, tra mille difficoltà. Le sementi vengono fornite dal governo provinciale, ma non sempre sono di buona qualità. E mancano macchinari, attrezzi, mezzi di trasporto. Molti non hanno nemmeno il titolo di proprietà delle terre su cui vivono, a causa delle lentezze burocratiche. Non si può fare la rotazione delle colture, anche se eviterebbe l’impoverimento del terreno, perché il governo sussidia solo il cotone. Mancando un ente commerciale in grado di fatturare, anche per l’opposizione dei funzionari del governo provinciale, finora gli indigeni non sono riusciti a ottenere né un vero e proprio contratto, né un prefinanziamento. La grande paura degli indigeni è quella di perdere la terra, cedendo all’offensiva dei latifondisti che producono soia, e ridursi a braccianti. “Il commercio equo ha evitato peggioramenti, ma per adesso non ha ancora prodotto miglioramenti evidenti; del resto, il progetto è iniziato da poco”, spiega Luis Skupien, agronomo e responsabile del progetto in Chaco. “In più, la richiesta sta diminuendo: nel 2008 sono previste solo 90 tonnellate. Ma il problema di base è l’equa distribuzione e la proprietà della terra e degli strumenti di produzione”. Nei campi è iniziato il raccolto: donne e uomini chini sotto il sole nei campi vicino a casa, che può essere una capanna di terra battuta, mattoni e legno o di rami e stracci. Alcuni coltivano mais, manioca, batate e allevano galline, capre o vacche. “Siamo al secondo raccolto”, spiega Esther, sette figli, “ma forse quest’anno non ce ne saranno altri, il seme non è buono. “E per poter comprare i vestiti e le scarpe per mandare a scuola i figli dobbiamo arrivare al quarto, quinto raccolto”.
(2008) Triumph International. nuovo caso di libertà violata
SETTEMBRE 2008 - Dal 30 luglio al 13 settembre più di 2 mila lavoratori della Body Fashion Thailand, filiale del colosso svizzero dell’intimo Triumph International, hanno scioperato per ottenere il reintegro della presidentessa del loro sindacato, Jitra Kotshadej, licenziata il 29 luglio per aver partecipato in veste privata ad un programma televisivo indossando una maglietta con la scritta “Chi non si alza in piedi non è un criminale. Pensarla in modo diverso non è reato”. La scritta si riferisce al diritto dei cittadini thailandesi di non mettersi sull’attenti quando viene suonato l’inno reale e all’abuso del reato di lesa maestà allo scopo di reprimere il dissenso politico.
Dopo 45 giorni di sciopero e la resistenza opposta da Triumph, i lavoratori hanno dovuto accettare un accordo che vincola la riassunzione di Jitra alla decisione del tribunale al quale Jitra si era appellata per ottenere la riapertura del suo caso, dopo che il magistrato aveva avallato con un’ordinanza il suo licenziamento impedendole però di comparire in aula per difendersi. Dopo quello della Fibres and Fabrics International di Bangalore, è la seconda volta in poco meno di un anno che affrontiamo un caso di ingerenza ad opera delle imprese commerciali nella sfera di un diritto universale basilare come quello dell’espressione del pensiero. Dal 23 settembre al 3 ottobre Wanphen Wongsombat dell’International Thailand Labour Union e Premjai Jaikla della Thai Labour Campaign visiteranno cinque paesi europei e cercheranno di incontrare i vertici della Triumph International in Svizzera e in Germania.
(per maggiori informazioni: http://www.cleanclothes.org/urgent/08-09-23.htm)
(2008) REPORT- Olimpiadi: Vincere gli ostacoli - Campagna PlayFair2008
GIUGNO 2008 - Vincere gli ostacoli è il rapporto internazionale della Campagna PlayFair2008 sulle condizioni di lavoro nell'industria sportiva globale che "confeziona" le Olimpiadi di Pechino 2008.
L'edizione italiana, curata dalla Campagna Abiti Puliti, ospita i contributi di Luciano Gallino, ordinario di sociologia all'università di Torino e Valeria Fedeli, presidente della Federazione Sindacale Europea del Tessile Abbigliamento e Cuoio.
In Italia il rapporto è stato presentato da Suki Chung del Labour Action China che ha chiesto un impegno concreto al governo e alle imprese italiane.
(2008) Accordo raggiunto dai lavoratori della A-One in Bangladesh
Accordo raggiunto alla A-One
I lavoratori illegalmente licenziati dal fornitore della italiana Tessival accettano il pagamento della liquidazione dopo due anni di lotta.
FEBBRAIO 2008 - Dopo due anni di lotta per la giustizia, 50 lavoratori della A-One in Bangladesh hanno finalmente ricevuto una compensazione dall’impresa italiana Tessival, unico cliente rimasto.
I lavoratori, che hanno ricevuto la somma di 5.000 Taka ciascuno (53,50 euro), erano stati licenziati nell’Ottobre 2005, dopo avere partecipato alle elezioni di un Comitato interno di Rappresentanza (WRWC) alla A.One, fabbrica situata nella Zona Franca per l’Esportazione (EPZ) di Dhaka. Sebbene i lavoratori avessero chiesto il reintegro in fabbrica, sono stati alla fine costretti ad accettare il risarcimento per fare fronte ai bisogni delle loro famiglie. La A-One era fornitore di diverse imprese internazionali, incluse Tessival, Coin, Tchibo, Miles e C&A.
I lavoratori della A-One e i loro difensori ringraziano quanti hanno dato il loro contributo e supporto in questi due anni. Il sostegno della campagna internazionale ha consentito il raggiungimento di un accordo, seppur parziale.
La campagna di A-One contro l’affermazione dei diritti dei lavoratori.
Le violazioni delle condizioni di lavoro alla A-One nel 2005 includevano l’ostacolo alla libertà di associazione sindacale, lo straordinario obbligatorio, salari sotto il mimino e orari estenuanti. Quando il management decise di licenziare il Comitato di Rappresentanza eletto e altri 246 lavoratori, gli operai cominciarono una protesta pacifica durata 10 mesi. I licenziamenti erano parte della strategia di A-One per scoraggiare il tentativo di organizzazione sindacale in fabbrica, nonostante le regole della EPZ prevedessero la possibilità di eleggere comitati interni di rappresentanza.
Nel giugno 2006, i lavoratori tessili del Bangladesh, inclusi quelli della A-One, si riversarono nelle strade per protestare contro le insopportabili condizioni di lavoro e le ripetute violazioni nelle EPZ. Dopo che il governo Bengalese si era impegnato a aumentare il salario minimo e ad assumere posizioni chiare contrarie agli industriali che rifiutavano di rispettare misure elementari di salute e sicurezza, le proteste si placarono. La A-One, che aveva chiuso durante le manifestazioni, riaprì, ma I 255 lavoratori non furono riassunti. 50 lavoratori continuarono a battersi per il reintegro mentre il resto fu costretto ad accettare un’insufficiente liquidazione e a cercare un nuovo posto lavoro.
Tessival ha pagato la liquidizione, ma ha fallito il compito di fare quanto in suo potere per ottenere giustizia
Quando la A-One riaprì, Tessival era l’unico cliente europeo rimasto. Gli indumenti prodotti alla A-One erano distribuiti sul mercato con il marchio Herod, posseduto da Tessival, ma anche con il marchio Oviesse del gruppo Coin, che utilizzava Tessival come proprio agente.
Il 15 Febbraio 2007, la CCC aveva incontrato Tessival per cercare una soluzione peri rimanenti 50 lavoratori. Tessival rifiutò di fare pressione sul suo fornitore per la loro riassunzione, e offrì invece di pagare direttamente la liquidazione. I 50 lavoratori valutarono di non avere altra scelta se non quella di accettare il pagamento della somma, pervenuta il 25 di ottobre 2007, direttamente dalla Tessival.
La CCC è fortemente delusa dal fatto che nessuno dei committenti della A-One abbia seriamente lavorato per attuare il rispetto della libertà di associazione sindacale, per quanto debole, nella EZ di Dhaka.
Questo è particolarmente grave dato che era stato raggiunto un accordo preliminare il 7 Marzo del 2006 tra il cliente Tedesco Tchibo, il suo agente Systain, il management di A-One e l’ ITGLWF che prevedeva il reintegro dei lavoratori e l’insediamento del Comitato di Rappresentanza. Purtroppo l’accordo non è mai entrato in vigore.
Quale ultimo cliente rimasto, il rifiuto della Tessival di utilizzare il suo potere contrattuale per chiedere il reintegro dei lavoratori alla A-One è da ritenersi del tutto insoddisfacente. Tuttavia, la CCC riconosce la volontà della Tessilval di pagare la liquidazione spettante ai 50 lavaoratori, come un primo passo nella direzione di assumere la responsabilà per il rispetto degli standard sociali nella sua catena di fonitura.
(2008) A tre anni dal crollo della Spectrum ancora ritardi nei risarcimenti
MAGGIO 2008 - L’11 aprile scorso cadeva il terzo anniversario del crollo della Spectrum, maglificio per l’esportazione installato alla periferia di Dhaka in un edificio abusivo. Nel crollo sono morte 64 persone e 80 sono rimaste ferite. Il fondo per il risarcimento costituito da alcuni committenti europei, Inditex (Zara), KarstadtQuelle, New Wave Group, Scapino e Solo Invest, ha avuto un inizio difficile, anche a causa della situazione politica del paese, e si è limitato nell’aprile scorso alla distribuzione a 22 persone di una tranche di 3mila dollari sul primo stanziamento quantificato in 60mila dollari.
Da allora i progressi sono stati molto lenti, con non più di 75 dollari aggiuntivi erogati a persona. Le cure mediche continuano ad essere regolarmente somministrate. I sindacati tessili del Bangladesh hanno indetto una conferenza stampa nel giorno dell’anniversario per denunciare l’incompleta attuazione dei programmi di risarcimento. La Clean Clothes Campaign continua a chiedere l’adesione al fondo alle aziende che non l’hanno ancora fatto, Carrefour in testa.
(2008) Codici di condotta
Cosa dovrebbero fare le imprese per migliorare il rispetto dei diritti dei lavoratori lungo l'intera filiera produttiva?
APRILE 2008 - Le campagne di successo condotte dalla CCC insieme ai difensori dei diritti del lavoro in tutto il mondo hanno spinto molte imprese ad adottare "codici di condotta", una lista di standard che i fornitori devono rispettare. La CCC spinge le imprese a rendere questi strumenti davvero significativi rinforzandoli con l'adozione di stringenti meccanismi di monitoraggio, di risoluzione delle controversie e l'adozione di pratiche commerciali che consentano ai fornitori di garantire condizioni di lavoro dignitose per un salario vivibile.
La CCC ha messo a punto uno strumento completo di analisi e proposta che indica alle imprese i passi concreti da compiere per assicurare che i loro prodotti siano confezionati rispettando i diritti dei lavoratori:
Primo passo - adottare un codice di condotta completo, credibile e trasparente basato sulle Convenzioni Internazionali dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro e sulla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.
Secondo passo - implementare il codice di condotta con disposizioni per il monitoraggio, i sistemi di verifica, le pratiche di acquisto, la collaborazione a livello settoriale con altre imprese e l'attenzione alle problematiche di genere
Terzo passo - partecipare ad una iniziativa multi-stakeholder credibile che coinvolge nel miglioramento delle pratiche imprese, sindacati, ONG e soprattutto i lavoratori delle fabbriche
Quarto passo - addottare un approccio proattivo e positivo verso la libertà di associazione sindacale di genuina contrattazione collettiva
(2008) Il punto sulle nuove norme ISO 26000 sulla RSI
di Ornella Cilona CGIL Nazionale
FEBBRAIO 2008 - Slitta al 2010 la pubblicazione di Iso 26000, le linee guida sulla responsabilità sociale delle organizzazioni su cui sta lavorando un apposito gruppo di lavoro all’interno dell’International Standards Organization (Iso). Molti esperti hanno, infatti, chiesto all’Iso di ritardare di qualche mese la conclusione dei lavori, in modo da giungere a un testo più accurato e completo su materie fondamentali come la difesa dei diritti dei lavoratori e dei consumatori. La decisione è stata presa al termine dell’ultima riunione del gruppo, svoltasi a Vienna lo scorso novembre, dopo un’animata discussione. I vertici dell’Iso - che premevano per una rapida approvazione di Iso 26000 – hanno alla fine accettato lo slittamento, dopo aver preso atto che alcune categorie di stakeholder erano irremovibili nella propria decisione.
Una seconda decisione assunta a Vienna ha riguardato le procedure. Come è noto, per la prima volta collaborano fin dall’inizio alla redazione di una norma Iso rappresentanti di sei categorie di parti interessate: consumatori, associazioni imprenditoriali, sindacati, Ong, governi e ricercatori (fra questi ultimi troviamo docenti universitari ed esponenti di società di certificazione). Le rigide regole Iso per quanto riguarda la stesura delle norme si sono così incontrate e scontrate con le esigenze di rappresentanti delle parti sociali, della società civile e della pubblica amministrazione provenienti da tutto il mondo: il gruppo di lavoro di Iso 26000 è, infatti, composto di oltre 300 esperti, la metà dei quali proviene da Paesi in via di sviluppo. Fino a oggi, il gruppo, che ha iniziato a riunirsi formalmente agli inizi del 2005, ha assegnato un ampio spazio alle posizioni delle diverse parti interessate, intese come gruppi di stakeholder al di là della loro provenienza geografica. L’Iso, però, intendeva spostare già nei prossimi mesi l’asse delle decisioni verso il livello nazionale, così come prevedono le procedure. In ogni Paese dove vi è un organismo aderente all’Iso opera, infatti, un Comitato formato dai rappresentanti delle parti interessate e dell’ente locale di normazione, che ha l’obiettivo di contribuire alla messa a punto di Iso 26000. In questi Comitati nazionali spesso mancano però i rappresentanti dei consumatori, dei sindacati e delle Ong, come dimostra il fatto che nel gruppo Iso 26000 è molto scarsa la partecipazione soprattutto delle prime due categorie (all’ultima riunione, per fare un esempio, i sindacalisti presenti, su un totale di 300 esperti, erano appena una quindicina). A frenare la loro partecipazione sono sostanzialmente due fattori: i costi elevati che comporta la partecipazione alle riunioni di Iso 26000 e l’insufficiente attenzione che molti enti nazionali di normazione dedicano al coinvolgimento degli stakeholder. Alla fine, l’Iso ha convenuto che occorre dedicare ancora del tempo per il rafforzamento dei Comitati nazionali, prima di affidare a questi ultimi un ruolo decisivo nell’approvazione delle linee guida sulla responsabilità sociale.
Per quanto riguarda i contenuti di Iso 26000, sono stati compiuti alcuni importanti passi in avanti nei mesi scorsi. Esiste ormai una bozza di testo, che registra i punti acquisiti e quelli sui quali ancora non si è raggiunto un consenso. Il meccanismo prevede, infatti, che sui contenuti non si voti a maggioranza, ma si cerchi di raggiungere il consenso da parte di tutte e sei le categorie di parti interessate. Vi sono ancora molte questioni aperte e proprio per ottenere un accordo trasparente e un pieno coinvolgimento degli esperti è stato deciso a Vienna di istituire un gruppo di pilotaggio, chiamato Idtf (Integrated Drafting Task Force), composto di esponenti dell’Iso e delle parti interessate, che proverà a sciogliere i nodi ancora in discussione prima della prossima riunione, prevista per l’estate.
Il sindacato italiano collabora attivamente a Iso 26000 fin dall’inizio del processo, grazie anche al ruolo di stimolo e di discussione sulla materia assunto nel nostro Paese dall’Uni, l’ente di normazione che aderisce all’Iso. L’Uni ha, infatti, costituito un gruppo di lavoro sulla responsabilità sociale ben prima che di questo tema se ne discutesse a livello internazionale e questo gruppo, composto di rappresentanti delle parti sociali, della società civile e del governo, è ora uno di quelli più impegnati in Europa nella messa a punto di Iso 26000. L’impegno della Cgil, che coordina il tavolo Uni, in rappresentanza anche di Cisl e Uil, è stato peraltro recentemente confermato dalla sua nomina nel Comitato di pilotaggio Idtf per Iso 26000. Si tratta di un riconoscimento importante, poiché la Cgil è l’unico sindacato europeo a farne parte.
(2008) Imprese italiane del tessile e della grande distribuzione in Birmania
Le risposte al nostro questionario inviato alle imprese presenti nella lista nera della CISL
a cura di Ersilia Monti
FEBBRAIO 2008 - Come ricorderete, il sindacato italiano CISL ha reso pubblica nell’autunno scorso la lista delle imprese italiane che commerciano con il regime birmano (vedi Newsletter n. 7, ottobre 2007). Abbiamo inviato un questionario alle imprese del tessile-abbigliamento e della grande distribuzione presenti nella lista: Anzi Besson, Arena Italia, Asics Italia, Auchan, Conceria Masini, Conte of Florence, Cose di Lana, Gariglio Confezioni, Gruppo Coin, Inticom, Monnalisa, Nencini Sport, Zeus Sport. Non siamo riusciti a rintracciare i recapiti di I.T. Italtessile che figura per altro nella parte alta della lista e di Six Jeans; non sono state contattate per difficoltà diverse Gruppo Pam, Centro Moda, Sport Up. Alcune imprese possono esserci sfuggite in quanto non facilmente identificabili.
Ecco le risposte in sintesi:
ANZI BESSON (azienda torinese fornitrice di abbigliamento per lo sci per sei squadre nazionali): non risponde al questionario. Contattata telefonicamente, la responsabile marketing e comunicazione dichiara che l’azienda non ha rapporti con la Birmania ma non ritiene di rispondere a domande né nello specifico né in generale sulle politiche commerciali aziendali.
ARENA ITALIA (azienda di Macerata parte di un gruppo internazionale, abbigliamento per il nuoto): ha risposto al questionario. Dichiara di aver cessato i rapporti commerciali con aziende produttive in Birmania dai primi mesi del 2007. Riguardo alle garanzie richieste ai fornitori, afferma: “Compatibilmente con l’esistenza di un panel di fornitori piuttosto ricco, che annualmente comporta avvicendamenti “fisiologici” con l’ingresso di nuovi partner e la dismissione di altri, ciascuna relazione tra Arena e ogni singolo partner/produttore è regolata da un formale contratto di fornitura […] ciascun contratto contiene una appendice interamente dedicata al codice etico di comportamento che Arena considera come prerequisito fondamentale per iniziare un percorso comune con qualsiasi azienda partner […] Gli impegni richiesti in sede contrattuale costituiscono i presupposti su cui si innestano le nostre periodiche visite ispettive”. Allega copia del codice di condotta
ASICS ITALIA: non risponde al questionario. Contattato telefonicamente, il responsabile ufficio acquisti dichiara che l’azienda ha interrotto gli approvvigionamenti dalla Birmania dal gennaio 2007. Non fornisce precisazioni in merito alle garanzie socio-ambientali richieste ai fornitori.
AUCHAN: ha risposto al questionario. Dichiara di aver effettuato un’unica importazione dalla Birmania per una tipologia di prodotto tessile, cessata dopo aver accertato, nel maggio 2007, che il partner commerciale cinese si riforniva per quello specifico prodotto in Birmania. Non esclude che possano trovarsi sugli scaffali degli ipermercati Auchan alcuni esemplari del prodotto in questione fino all’esaurimento delle scorte. Riguardo alle garanzie richieste ai fornitori, afferma: “Auchan pretende che tutti i lavoratori della filiera produttiva siano trattati con dignità e rispetto, in un ambiente sicuro e sano. La nostra volontà è di commercializzare prodotti realizzati in ottemperanza ai principi di etica commerciale, che rispettino i requisiti legali ed i diritti di proprietà intellettuale. Per rafforzare questo impegno, Auchan ha sviluppato un Codice di Etica Commerciale che racchiude i principi e gli standard operativi e condiviso questo codice con tutti i fornitori per garantire che le pratiche di business di tutta la filiera siano assolutamente coerenti. Auchan ha chiesto a tutti i fornitori di sottoscrivere formalmente l’impegno ad aderire ai nostri principi, e ad adottare le azioni necessarie per aderirvi in modo sostanziale. I temi sui quali il nostro Codice di Etica Commercial esige il rispetto degli standard sono vari e vanno dal divieto del lavoro minorile e del lavoro forzato all’obbligo di garantire un luogo di lavoro sano e sicuro, dall’orario di lavoro ai salari minimi, dalla libertà sindacale ai divieti di discriminazioni”. Non allega copia del codice di condotta.
CONCERIA MASINI (azienda di Pisa, trattamento pelli per calzature): non risponde al questionario; ripetuti tentativi di contatto telefonico infruttuosi.
CONTE OF FLORENCE (azienda di Firenze, abbigliamento per lo sport e il tempo libero): fornisce una risposta parziale. Dichiara di aver interrotto i rapporti con partner commerciali che si rifornivano in Birmania, per ragioni non dipendenti dalla risoluzione OIL della quale l’azienda non era a conoscenza, a partire dalla stagione 2004/05. Aggiunge che i volumi trattati non erano per l’azienda significativi. Non fornisce precisazioni in merito alle garanzie socio-ambientali richieste ai fornitori.
COSE DI LANA (azienda di Arezzo, maglieria): non risponde al questionario. Contattato telefonicamente, il responsabile importazioni dichiara che l’azienda non ha rapporti con la Birmania, ma si riserva di svolgere un’indagine interna. Nessuna reazione successiva.
GARIGLIO CONFEZIONI (azienda di Vercelli, impermeabili e cappotti): non risponde al questionario. Contattata telefonicamente, la segreteria aziendale conferma la ricezione della richiesta ma non garantisce la risposta dei titolari. Nessuna reazione successiva.
GRUPPO COIN: ha risposto al questionario. Dichiara di aver realizzato un’unica produzione di camiceria uomo con un unico fornitore in Birmania e di aver in seguito deciso di cessare le importazioni nonostante l’azienda in questione rispettasse gli standard prescritti dal gruppo. Riguardo alle garanzie richieste ai fornitori, afferma: “Tutti i nostri fornitori, prima di entrare a far parte del nostro parco dei “fornitori nominati”, devono sottoscrivere un impegno [di tipo etico, con riferimento anche al] lavoro minorile, tema rispetto al quale siamo particolarmente sensibili. Prima di iniziare qualsiasi relazione con il gruppo, i fornitori vengono sottoposti ad audit da parte di aziende internazionali esperte in materia per verificare che quanto dichiarato corrisponda alla realtà. Una volta superato l’audit ed instaurato un rapporto commerciale, saltuariamente personale del gruppo Coin appositamente addestrato effettua quotidianamente, a rotazione, dei controlli sui fornitori. Anche nel caso dell’azienda birmana abbiamo effettuato quanto dichiarato”.
INTICOM (azienda di Varese, intimo femminile con marchio Yamamay): non risponde al questionario. Contattato telefonicamente, il responsabile acquisti e importazioni dichiara di essere a conoscenza di un’unica operazione commerciale con la Birmania mai realizzata. Si riserva di verificare e di rispondere. Nessuna reazione successiva.
MONNALISA (azienda di Arezzo, abbigliamento per bambine): ha risposto al questionario. Dichiara che una ricerca accurata svolta nell’intera catena di fornitura dell’azienda al ricevimento del questionario non ha evidenziato alcun tipo di relazione commerciale con la Birmania. Ritiene possa trattarsi di un caso di omonimia con un’altra azienda e comunica di aver avviato un’indagine in merito chiedendo la collaborazione del sindacato. Riguardo alle garanzie richieste ai fornitori, afferma: “Due volte l’anno, abitualmente, visitiamo i laboratori esteri che lavorano per noi e ci avvaliamo di un servizio internazionale di controllo tramite SGS International per le aziende più lontane, nel rispetto della norma SA8000 alla quale abbiamo aderito e che ci contraddistingue dal 2002”.
NENCINI SPORT (distributore di articoli sportivi nel centro Italia): non risponde al questionario. Contattato telefonicamente, il direttore generale dichiara che l’azienda non importa dalla Birmania. Si riserva di verificare e di rispondere. Nessuna reazione successiva.
ZEUS SPORT (azienda di Napoli, abbigliamento sportivo): non risponde al questionario. Dopo un contatto telefonico viene rispedito il questionario. Nessuna reazione successiva.
(2008) Moda e pellicce:cresce la strage di animali
La lista dei peggiori stilisti e di chi ha fatto una scelta di civiltà
di Ersilia Monti
GENNAIO 2008 - Ogni anno oltre 40 milioni di animali allevati o catturati vengono uccisi per la loro pelliccia, 300 mila solo in Italia. Gli animali da allevamento trascorrono la loro breve vita (7-8 mesi) in gabbie strettissime, le zampe lacerate dal fondo in rete metallica, esposti al vento e al freddo per infoltirne il pelo. Vengono uccisi nei modi più barbari, con scosse elettriche per via anale e genitale, asfissiati in camere a gas, per rottura delle ossa cervicali, con iniezioni di stricnina.
Ogni anno milioni di animali selvatici sono vittime di trappole, un metodo di cattura crudele che l’Unione Europea ha vietato pur continuando ad importare dal Canada pellicce di animali uccisi in questo modo (linci, volpi, lontre, castori). L’Italia è anche importatrice di pelli di cuccioli appartenenti a diversi specie di foche e otarie.
Le specie più utilizzate dall’industria della pelliccia sono i conigli, i visoni e le volpi, ma anche cincillà, foche, marmotte e coyote. Il numero di animali sacrificati per confezionare una sola pelliccia dà i brividi: dai 10 ai 24 per la volpe, dai 30 ai 60 per il visone, fino a oltre 200 per l’ermellino e il cincillà. Lo scorso anno il governo italiano ha posto delle restrizioni agli allevamenti e dal dicembre 2008 non sarà più possibile importare nell’Unione Europea pellicce di cani e gatti. Queste ultime rappresentano l’ultimo grande business dell’industria della pelliccia che è riuscita in pochi anni a rilanciare un settore dall’immagine appannata introducendo attraverso la grande distribuzione, oltre che nei negozi delle griffe, capi e accessori addizionati di inserti e orlature in pelo di animali domestici a prezzi bassi, per lo più di origine cinese, camuffandone la provenienza in etichetta (se presente) con nomi di fantasia: asian jackal, wildcat, special skin, sobaki, asiatic racoonwolf, ecc. La verità è che fare applicare le leggi in assenza di controlli e obblighi di etichettatura di origine è estremamente difficile. Malgrado ciò è stato possibile alle associazioni animaliste italiane, grazie a campagne di pressione incisive e partecipate, ottenere lo scorso anno l’impegno ufficiale da parte del gruppo Rinascente e di Upim di cessare la commercializzazione di capi con pelo animale (già nel 2007 Upim e nella stagione autunno/inverno 2008 La Rinascente). Il gruppo Coin ha annunciato il 25 gennaio scorso che adotterà un politica “fur free” graduale in un arco di tempo fra il 2008 e il 2011.
L’Associazione Animalisti Italiani ha steso un elenco degli stilisti “più cattivi” (vedi “Dossier pellicce 2007 http://www.animalisti.it/prg/upload/campagne_dati/DOSSIER%20PELLICCE%20%202007%20pdf.pdf), che sono Roberto Cavalli (utilizza pellicce di ogni specie animale: lupi, giaguari volpi, leopardi, cavallini e pitoni), Dolce & Gabbana (nel 2004 hanno prodotto addirittura pellicce per bambine), Prada (è uno dei pochi stilisti in Europa ad utilizzare ancora pelli di foca), Simonetta Ravizza (ha fatto della pelliccia una cifra stilistica; a breve uscirà una sua linea di sneaker Superga foderate in pelo), Donatella Versace (per la sua cocciutaggine gli animalisti hanno coniato per lei uno slogan ad hoc: “La pelliccia è portata da animali stupendi e persone orrende”), Giorgio Armani (si dichiara contrario alle pellicce ma le usa nei capi di alta moda perché, ha dichiarato ai giornalisti, la pelliccia fa subito “couture”). Si rifiutano di creare modelli con pellicce gli stilisti Stella McCartney, Todd Oldham, Calvin Klein, Betsey Johnson, Mark Bouwer. La griffe americana Guess ha ceduto alle pressioni e promette di diventare “fur free” dall’autunno/inverno 2008.
L’Associazione Italiana Pellicceria, per proteggere un giro d’affari di quasi 2 miliardi di euro dai tassi di crescita promettenti, ha presentato nel novembre 2007 un progetto di etichettatura volontaria con il quale si propone di garantire la provenienza delle pelli e il rispetto delle leggi sul benessere animale.
Per seguire le campagne animaliste: www.oipaitalia.com, www.animalisti.it/, www.campagnaaip.net/
(2008) Chiuso il caso FFI
Se dovessero esserci denunce da parte dei lavoratori, delle organizzazioni locali, della CCC e dell’ICN riguardo alle condizioni di lavoro negli stabilimenti, esse potranno essere sottoposte all’Ombudsman che tenterà di trovare una soluzione. I lavoratori saranno liberi di organizzarsi in un sindacato liberamente scelto.
Sulla base di questo accordo, la Clean Clothes Campaign e l’ICN sono fiduciosi che qualunque violazione dei diritti sarà comunicata tempestivamente e risolta nel modo giusto. Le parti pertanto richiedono al tribunale di non dare seguito alla richiesta di giudizio per le differenze di opinioni emerse e per le accuse avanzate dalle organizzazioni locali e contestate dalla FFI/JKPL, così come per gli eventi occorsi negli anni 2005-2006. Pertanto la FFI ritira tutti i procedimenti legali e la CCC e l’ICN pongono fine alla campagna di pressione verso la FFI/JKPL e l’impresa olandese G-Star. La CCC e l’ICN accolgono molto positivamente la notizia che la G-Star, il cliente più importante della FFI/JKPL, intende riavviare le sue relazioni commerciali con la FFI/JKPL:
Di seguito il comunicato stampa del ministro ed ex-primo ministro olandese, Ruud Lubbers, che ha condotto il processo di mediazione dallo scorso Dicembre 2007.
I report consultabili nei nostri archivi sono basati sulle interviste con i lavoratori della FFI/JKPL, condotte da organizzazioni locali indipendenti di Bangalore.
Nel corso del 2006 era emerso che molte delle violazioni rilevate presso le unità produttive della FFI/JKPL erano state risolte. I report qui presenti pertanto non offrono un quadro della situazione attuale presso la FFI/JKPL ma, unitamente alle altre informazioni che troverete in questa sezione del sito, costituiscono la memoria storica di questo caso.
Approssimativamente nello stesso momento in cui veniva reso pubblico il report contente notizie positive circa il miglioramento delle violazioni riscontrate alla FFI/JKPL, l’impresa indiana ha avviato un procedimento legale per diffamazione nei confronti delle organizzazioni locali.
La CCC and ICN hanno difeso la propria posizione, chiarendo con nettezza che una vera politica di responsabilità sociale richiede, quali premesse, un dialogo libero e aperto con gli stakeholder locali e con organizzazioni esterne e indipendenti. Hanno inoltre messo in evidenza come il procedimento legale pregiudicasse l’esercizio della libertà di parola e dell’associazione sindacale, ottenendo l’appoggio di molte ong e sindacati.
Con il ritiro della denuncia per diffamazione e degli altri procedimenti penali e con l’incarico di un ombudsman, la situazione si è normalizzata e le parti possono procedere ad affrontare le questioni all’ordine del giorno.
La CCC pubblicherà regolarmente i report relativi alle attività dell’ombudsmen nell’archivio del caso.
(2007) Intervista a Sabrina Giannini, autrice di "Schiavi del lusso" (Report, RAI3, 2.12.2007)
(Report, RAI3, 2.12.2007)
a cura di Ersilia Monti
DICEMBRE 2007 - Intervista stimolo per utili riflessioni sul concetto di lusso e di qualità. Sono necessariamente sinonimi? I retroscena del mondo della moda e le responsabilità dei mezzi di informazione per un "made in Italy" ormai solo di facciata.
(2007) Interrogazione al Governo sul caso FFI
DICEMBRE 2007 - Gli onorevoli Mantovani, Siniscalchi e Rashid hanno presentato una interrogazione parlamentare a risposta immediata alla Commissione Affari Esteri con l'obiettivo di chiedere al Governo quali iniziative intende intraprendere per promuovere la difesa dei diritti umani e dei diritti sindacali dei lavoratori vittime di gravi abusi e violazioni denunciate dalla Campagna Abiti Puliti e impiegati per la produzione di marchi come Gstar, Mexx, Tommy Hilfiger, Gap, Guess e gli italiani Armani e Rare.
(2007) Lettera aperta a Oliviero Toscani
Fra poco calerà il sipario mediatico sulla sua ultima campagna commerciale a sfondo sociale, intorno al tema dell’anoressia, e con questa sulle polemiche innescate dalla decisione del giurì dell’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria di intimare ai suoi associati il ritiro delle affissioni.
Lei avrà concluso il suo lavoro con una certa dose di “successo” in più, il suo committente Flash&Partners, proprietario dei marchi RaRe e Nolita, tirerà le somme della sua esposizione pubblica, forse raccogliendo il lustro sperato per i suoi fino a ieri oscuri marchi della moda. Il tempo dirà quale beneficio sociale abbia portato tutto questo. A giudizio delle associazioni dei malati di anoressia, nessuno.
Resteranno la censura, il sopruso, la negazione della libertà di espressione. Questi sì. Ma non nel senso che intende lei. Di una ben più grave censura è corresponsabile proprio la Flash&Partners, che appalta la produzione a una importante azienda indiana, la Fibres & Fabrics International (FFI), solita confezionare i suoi jeans in condizioni di lavoro ritenute indegne dai lavoratori intervistati. Di fronte alla denuncia di tali condizioni, la FFI ha reagito portando in tribunale associazioni e sindacati con l’obiettivo di silenziare tutti. E per la prima volta nella storia della nostra campagna - la Clean Clothes Campaign(CCC)-, è stato spiccato un mandato di cattura per alcuni attivisti europei, rei di avere diffuso informazioni circa le violazioni in corso.
Proprio in questi giorni un tribunale di Bangalore sta decidendo della speranza di trovare ascolto fra i creatori e i consumatori di moda del nostro ricco e viziato mercato per migliaia di mal pagati e abusati lavoratori indiani della FFI. Un SOS che non vogliono più affidare a una bottiglia nell’oceano della loro deriva sociale. Per questo da oltre quindici anni la nostra rete internazionale – la CCC -, lavora per difendere i diritti dei lavoratori del tessile dando loro voce nei paesi dei consumatori finali.
Sarà ancora possibile per i lavoratori difendere i loro diritti dopo che un provvedimento restrittivo della libertà di espressione, emesso dal tribunale, chiude ormai da oltre un anno la bocca ai sindacati e alle organizzazioni della società civile di Bangalore, pena alcuni anni di carcere? Sarà ancora possibile il nostro impegno se a breve il mandato di arresto che ha colpito il nostro staff europeo ci inseguirà in tutti i paesi che hanno in vigore un accordo di estradizione con il governo indiano? E tutto questo solo perchè si è avuto il coraggio di togliere il velo su quello che accade dietro i cancelli della FFI.
Se vuole conoscere i reati di cui i lavoratori della FFI si sono macchiati, e noi con loro, non ha da far altro che chiedere a Flash&Partners che, oltre ad essere il committente della sua campagna sull’anoressia, è anche il committente di FFI per i propri jeans, e da più di un anno tace sulle denunce contenute in un rapporto circostanziato, frutto di indagini e delle testimonianze raccolte dalle organizzazioni oggi condannate al silenzio.
La censura esiste – in questo siamo d’accordo con lei – con una differenza: porta notorietà a lei e paradossalmente rafforza il potere economico al quale, per sua stessa ammissione, la lega un rapporto di mutua assistenza. Contemporaneamente però condanna altri all’invisibilità e alla negazione del diritto a una vita degna.
Ha ragione quando dice, come riportano i giornali, che il nostro paese è conosciuto all’estero più per le borse e le scarpe che per i prodotti dell’ingegno. Non perchè sono “prodotti da terzo mondo”, ma proprio perchè sono prodotti nel terzo mondo. Infatti, Flash&Partners indica nel suo sito la strategia della delocalizzazione come uno dei capisaldi del suo successo e dei vantaggi competitivi che caratterizzano i suoi marchi. E ciò si ottiene con una politica di “consegne” e di “flash stagionali” per assecondare le “esigenze di un mercato sempre più affannato alla ricerca della novità”. Traducendo, Flash&Partners agisce nella più classica logica di mercato, quella che nel settore della moda ha fatto del consumo effimero e veloce la sua ragion d’essere, e della riduzione drastica dei tempi di consegna e dei prezzi il suo strumento.
Senza curarsi tuttavia delle conseguenze che questo tipo politica comporta, e che i dipendenti indiani di FFI hanno raccontato in dettaglio: ritmi produttivi insostenibili, straordinari obbligatori e non pagati, abusi fisici e verbali, lavorazioni nocive, divieto di attività sindacale.
Sui tabelloni a marchio Nolita, che fino a pochi giorni fa campeggiavano nelle strade delle nostre città, al posto di una modella anoressica a mostrare senza veli i segni della sua malattia, poteva a buon diritto, e con altrettanto impatto, comparire un’altra nudità: quella di un povero ragazzo spogliato e picchiato di fronte ai compagni di lavoro all’unico scopo di intimidirli.
L’anoressia è una malattia del nostro tempo, che in altra forma colpisce anche i lavoratori indiani di Flash&Partners, per troppa fame repressa di dignità, di salario, di libertà di espressione e di organizzazione.
Un record negativo in più rende il nostro paese riconoscibile: le sue aziende di prodotti della moda sono sempre le ultime a poter dimostrare di aver assunto impegni di responsabilità sociale. Su sette imprese committenti internazionali, Armani e Flash&Partners sono le uniche a non aver mai risposto ai ripetuti
appelli a intervenire presso il loro fornitore per chiedere il ripristino della libertà di espressione, appelli avanzati dalla nostra campagna e dai tanti cittadini e consumatori che vi hanno aderito.
Se per Flash&Partners “l’intento aziendale è quello di usare i mezzi pubblicitari come strumento di sensibilizzazione ai mali sociali”, come dichiara, perché tace colpevolmente?
Dato che lei ama definirsi “testimone del proprio tempo”, la invitiamo ad aiutarci a rendere evidente quale desolazione sociale sta dietro il denaro che rende possibile il suo lavoro. Saremo felici di incontrare lei e la sua impresa committente per discutere di tutto questo. Contro la censura e la negazione del diritto alla parola non c’è altro tempo da perdere.
Per la Campagna Abiti Puliti
Francesco Gesualdi
Deborah Lucchetti
Ersilia Monti
RISPOSTA DI OLIVIERO TOSCANI
Siamo alla ricerca disperata di qualcuno [qualcuno che non siamo noi, possibilmente ben identificabile in un «nemico»] che ci sollevi dal senso di colpa. Il senso di colpa generico, ma non per questo meno fastidioso, che ci coglie tutte le volte che la povertà e l’ingiustizia si rivelano ai nostri occhi distratti.
Siamo alla ricerca di qualcuno contro cui prendersela, possibilmente con nome e cognome, ogni qual volta il degrado della vita che viviamo colpisce in modo visibile un debole, un emarginato, una vittima.
I palloni garantiti «cuciti senza impiego di manodopera minorile», i «clean clothes», i vestiti puliti, i giocattoli politically correct, la raccolta differenziata dei rifiuti: spie del disagio che corrode il sistema in cui crediamo e che ci affanniamo a perfezionare, dove contano competitività, spregiudicatezza, profitto.
Ma spie anche, paradossalmente, di un modo di eludere il cuore di problemi drammatici, attirando l’attenzione sulla parte più spettacolare di essi, sull’aspetto emotivo, sul senso di inadempienza che la nostra cattiva coscienza registra nei confronti della ricchezza e della sua ingiusta distribuzione.
Basta giocare a calcio con un pallone garantito lavorato da mani adulte per sentirsi a posto di fronte allo sfruttamento planetario delle masse che affollano ogni domenica gli spalti degli stadi? Basta un abito «pulito», lavorato obbedendo alle norme che regolano la produzione e il profitto, e non frutto di lavoro clandestino, per avallare la legittimità di quelle norme e il perdurare, anche questo planetario e non limitato alla Turchia o all’India, dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo? È sufficiente giocare con una bambola confezionata da operai maggiorenni per eludere il grave problema del consumo di massa, quello a cui vengono addestrati i bambini fin da piccoli da dosi massicce di pubblicità, per abituarli ad assimilare, da subito, il concetto che «tutto quel che vedi lo puoi comprare»? Crediamo davvero di contribuire alla salvezza del pianeta buttando i rifiuti nei contenitori gialli verdi e blu della raccolta differenziata? E siamo davvero sicuri che la violenza principale sui bambini sia quella dei pedofili additati ogni giorno al nostro disprezzo dalle pagine di cronaca dei giornali?
Il bisogno continuo di capri espiatori sui quali rovesciare il nostro impotente desiderio di giustizia, non ci trasformerà troppo superficialmente in giudici?
Non sarà che a forza di illuminare scandalisticamente la parte più mediatica del tutto, il tutto finisca per restare scandalosamente in ombra?
E questi comitati che spuntano come funghi per difendere bambini, cani gatti e cavalli, maglioni e palloni non sentono mai sulla propria pelle il dubbio che brucia a me: quante facce ha la verità? chi ha il diritto di accusare facendo nomi e cognomi di altri che non sono lui? quanto siamo responsabili, ognuno di noi, del sistema che si autoalimenta sulla nostra coazione a consumare, sulla nostra bulimia?
Basterà mettersi due dita in bocca e vomitare, una volta sui vestiti, una volta sui palloni, una volta sui bambini, una volta sui rifiuti, per riacquistare un metabolismo naturale, per tornare a nutrirsi di riso in bianco, dopo i sughi da trattoria di terz’ordine o da nouvelle cuisine a cui ci condannano le repubbliche fondate sugli ipermercati? Mi brucia questo dubbio: questi comitati, questi giornalisti che sparano scoop sui bambini che lavorano nelle pagine di Economia [notoriamente dedicate a evidenziare il rialzo dei titoli in Borsa quanto più i profitti delle imprese quotate sono raggiunti con spregiudicatezza; e già qui la contraddizione tra la denuncia e l’effetto rivela la verità contorta e cinica che muove il meccanismo del libero mercato] sono legittimati per il semplice fatto di fremere indignati di fronte a un pallone, a un vestito, a una bambola cuciti da un bambino?
Non saranno anche loro complici di un sistema che ha bisogno di lavare con la mano sinistra il fango che sporca la destra, di esorcizzare con l’emozione e lo sdegno occasionali, una tantum, la perpetua e ormai definitiva sopraffazione della ricchezza sulla povertà, della protervia sulla dignità?
L’America, il Paese che ha realizzato il modello migliore del capitalismo, è ricca di comitati «politicamente corretti» e di scoop sui giornali contro le varie dignità calpestate.
Ma si può davvero dire per questo che l’America abbia realizzato il modello migliore della giustizia sociale? E, per estensione, basta denunciare un crimine per considerarsi o essere considerati automaticamente assolti dal concorso in reato?
Non vorrei mai che si tacesse, ovviamente, sul lavoro minorile, sulla violenza, sulle discriminazioni razziali e sul degrado dell’ambiente e del mondo. Credo di averlo dimostrato con il mio lavoro. Ma mi brucia il dubbio su quale sia la strada giusta per raggiungere la consapevolezza vera e profonda sul dramma della povertà e dell’ingiustizia, su chi ha il diritto di parlarne e su chi deve o non deve accettare di essere zittito. Mi brucia il dubbio su quale sia la via per toccare non soltanto il mio cuore, ma quella giusta e utile per fare finalmente luce nel mio cervello.
REPLICA ABITI PULITI
Non “siamo alla ricerca disperata di qualcuno che ci sollevi dal senso di colpa”. I sensi di colpa non ci appartengono e li lasciamo a chi va a nozze col potere con l’augurio che riescano a risolverli col loro padre spirituale o col loro psicoanalista. Il nostro pane non è il frutto di rapporti speciali con i potenti, ma del lavoro umile di chi si trova fra gli ultimi gradini della scala sociale. Noi siamo alla ricerca di giustizia perche' pensiamo che tutti abbiamo solo da guadagnare da un mondo basato sulla giustizia invece che sullo sfruttamento e ci poniamo l’obiettivo di spingere i responsabili e i corresponsabili della violazione dei diritti dei lavoratori ad intraprendere azioni correttive. Nello specifico chiediamo a Flash & Partner di intervenire presso la sua appaltata indiana FFI affinchè cessi gli abusi nei confronti dei lavoratori e ritiri la querela che censura la libertà di denuncia.
Venendo al suo dubbio, su chi ha il diritto di parlare di povertà e ingiustizia, la nostra opinione è che tutti abbiamo il dovere di farlo. E non e' solo la nostra opinione, ma e' quanto scritto nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, che affida ad tutte le componenti della societa' il dovere di difendere i diritti umani. Non certo per senso di colpa ma per amore della giustizia. Ma non per lucrarci sopra. Per concludere pensiamo che non è più il tempo delle strumentalizzazioni verbali, ma delle assunzioni di responsabilità. Anche lei, signor Toscani, deve decidere da che parte vuole stare. Se decide di stare dalla parte di chi opprime, continui pure a fare le sue campagne pubblicitarie al servizio di chi usa tutto e tutti, lei compreso, per fare soldi. Se decide di stare dalla parte degli oppressi si unisca a noi per chiedere a Flash & partners di intervenire presso l’appaltata indiana affinchè garantisca i diritti dei lavoratori. Si schieri e vedrà che i dubbi scompaiono da soli.
(2007) Lettera al Ministro Bonino
Sarebbe una storia di sofferenza e sopruso fra le tante, che milioni di lavoratori vivono ogni giorno sulla pelle per produrre gli abiti che indossiamo, magari nelle Zone Franche per l’Esportazione ideate per servire il libero commercio, dove i diritti sono sospesi e gli investimenti esteri possono affluire senza ostacoli.
Sarebbe una storia fra le tante, se non fosse che il faticoso lavoro di informazione e denuncia indipendente della Clean Clothes Campaign (rete internazionale di 600 organizzazioni che da 15 anni si occupa di diritti delle donne lavoratrici nel settore tessile) ha sollevato le ire della FFI, che ha denunciato tutti ottenendo dal Tribunale Civile di Bangalore un provvedimento che censura le organizzazioni locali e un mandato di arresto internazionale per gli attivisti europei della CCC, rei di avere pubblicato e diffuso il rapporto sulle violazioni.
Ma c’è di più. Il Ministro del Commercio indiano Kamal Nath ha impugnato il caso nei confronti del governo olandese e del Commissario Mandelson, definendo la CCC una barriera non tariffaria al commercio. Le barriere, ovviamente, vanno rimosse per favorire il libero scambio ed evitare intoppi d’immagine che la più grande democrazia del mondo non si può permettere.
Sappiamo quanto sia fervida la sua fede nel libero commercio ma conosciamo anche il suo impegno appassionato per la difesa dei diritti umani fondamentali.
Qui la posta in gioco è alta; c’è una competizione pericolosa tra la libertà di produrre e commerciare a qualunque costo e la libertà di espressione e di difendere i diritti umani fondamentali, come stabilito dalla Dichiarazione sui Difensori dei Diritti Umani del 1998. Anche la Campagna Abiti Puliti, sezione italiana della CCC, ha svolto il suo lavoro di informazione e denuncia; potremmo essere raggiunti da un mandato di arresto anche noi, e trovarci sul banco degli imputati per avere fatto su luce sulla triste condizione di molti uomini e donne che confezionano i nostri jeans.
Egregio Ministro, di fronte a tutto questo, che posizione assume? Quali provvedimenti intende adottare affinché vengano conciliate le libertà economiche con i diritti fondamentali delle persone?
(2007) Stretta sui diritti
Amnesty International ha espresso forte preoccupazione per la prassi ormai consolidata dei tribunali indiani di chiamare a giudizio per reati penali, sulla base di accuse inconsistenti, attivisti impegnati nella difesa dei diritti dei lavoratori senza che le autorità competenti intervengano a impedirlo, pur essendo l’India firmataria della convenzione internazionale che tutela il libero esercizio del diritto di parola e associazione.
In un documento congiunto, la Campagna Abiti Puliti e i sindacati italiani del tessile-abbigliamento si sono rivolti il 5 ottobre al governo italiano sollecitandolo a intervenire presso il governo indiano per chiedere il rispetto delle convenzioni internazionali e con i dicasteri competenti per far sì le imprese italiane coinvolte quali committenti all’epoca delle violazioni si assumano le loro responsabilità. Viene chiesto infine al governo di attivarsi nei confronti dell’azienda italiana Tintoria Astico, di proprietà della FFI, affinché chieda alla casa madre di ritirare la denuncia pendente presso il tribunale di Bangalore.
La Fair Wear Foundation, organismo multistakeholder al quale aderisce il secondo maggior committente di FFI, Mexx, ha pubblicato un rapporto sul caso.
che giunge alla conclusione che la FFI non solo ha agito in contrasto con le convenzioni internazionali sulla libertà di associazione e il diritto di contrattazione collettiva, ma non ha mostrato alcun ripensamento preferendo trascinare in giudizio le controparti anziché trovare un accordo con il sindacato. Dal rapporto emerge inoltre che 85 lavoratori si erano iscritti al sindacato GATWU nell’estate 2006 e in seguito a questo sono stati tutti licenziati. Ciò contrasta con le affermazioni del titolare della FFI secondo il quale non sono mai esistite nelle sue fabbriche rappresentanze sindacali. Mexx ha di fatto sospeso gli ordini alla FFI, ma continua a non voler rendere pubblico il vero motivo della sua decisione, così come non si è impegnata a riprendere i rapporti con il suo fornitore se saranno attuati interventi correttivi. A fare le spese di questo atteggiamento ambiguo sono ovviamente i lavoratori.
Gli sviluppi dell’ultima ora non sono affatto confortanti. Nel corso di una visita di stato, alla presenza di una delegazione governativa olandese al gran completo (regina, ministri degli esteri e del commercio, e rappresentanti delle associazioni imprenditoriali), il ministro dell’industria e del commercio indiano Kamal Nath ha accusato la Clean Clothes Campaign e l’India Committee of the Netherlands di diffondere false informazioni sull’industria indiana e di danneggiare l’immagine del paese. Da parte olandese non c’è stata alcuna reazione, malgrado la questione fosse ben nota da mesi al governo, interpellato e incontrato a più riprese dalle ong coinvolte; governo che per altro non ha risposto all’interrogazione presentata in parlamento dai partiti dell’opposizione. La stampa ha riportato le dichiarazioni successive del presidente delle associazioni imprenditoriali olandesi, che di fatto dava manforte al ministro indiano.
Le aspettative suscitate dall’accordo sul libero commercio fra India e Unione Europea attualmente in discussione potrebbero indebolire le iniziative dei governi che scommettono sulle possibilità offerte da un mercato vasto e in espansione come quello indiano. L’insofferenza manifestata dal ministro indiano si è spinta fino a prospettare azioni ritorsive se non cesserà la crescente diffusione di notizie, giudicate false, che minano la credibilità del suo governo: oltre al caso FFI, c’è il clamore sollevato dalla scoperta di bambini impiegati in condizioni di schiavitù nella catena incontrollata del subappalto di Gap, noto marchio statunitense, a sua volta committente di FFI, e l’indignazione per la terza morte in un anno fra i dipendenti di un suo fornitore (vedi rubrica “Altre notizie”). A ciò si aggiunge il rapporto diffuso il mese scorso dall’India Committee of the Netherlands sul lavoro minorile nella coltivazione di semi di cotone ibridi in India “Child bondage continues in Indian cotton supply chain”
secondo il quale sono 400 mila i minori, la metà al di sotto dei 14 anni (e in maggioranza bambine), impiegati nei campi per 8-12 ore al giorno, esposti all’azione tossica dei pesticidi, per l’impollinazione di semi di cotone geneticamente modificati.
Ma che dire di quello che sta avvenendo nelle Filippine, il secondo paese più pericoloso al mondo per i sindacalisti secondo il rapporto annuale dell’ITUC. Qui si può finire, come è successo all’organizzazione statunitense International Labor Rights Forum, sulla lista nera di persone sospettate di avere legami con il terrorismo internazionale, il tutto con lo scopo di allontanare occhi indiscreti dal paese e spezzare i contatti esistenti con le organizzazioni sindacali e i gruppi di base locali che si battono per la difesa dei diritti umani e del lavoro. In Bangladesh, nella primavera scorsa, l’associazione degli esportatori di abbigliamento ha chiesto senza mezzi termini al governo di indagare sulle attività delle organizzazioni non governative e di punire quelle che, colpevoli di denunciare la presenza di lavoro minorile o lo sfruttamento della manodopera, offuscano l’immagine del paese e ne mettono a rischio la competitività (vedi newsletter n. 4, 2007). Fra le organizzazioni estere invise per i legami con realtà locali c’è la statunitense National Labor Committee e l’inglese War on Want, mentre si sta facendo sempre più difficile per gli esponenti sindacali svolgere il proprio lavoro senza controlli e interferenze.
Sparizioni e minacce di morte accompagnano la vita dei sindacalisti nello Sri Lanka da quando il governo ha lanciato una campagna che descrive i rappresentanti sindacali come fiancheggiatori del Fronte di liberazione delle Tigri Tamil (vedi newsletter n. 3, 2007). Anton Marcus, segretario del Sindacato dei lavoratori delle zone franche e dei servizi pubblici, con il quale la Clean Clothes Campaign collabora da anni, ha denunciato in questi giorni di aver ricevuto nuove minacce di morte dopo essere stato accusato di aver rilasciato dichiarazioni alla BBC e fornito informazioni all’ong inglese Action Aid, che gettano discredito sull’industria tessile del paese. In Cambogia negli ultimi tre anni sono stati uccisi tre sindacalisti del tessile, fra questi il segretario generale del sindacato tessile cambogiano. Per la sua morte sono state condannate due persone innocenti, nonostante prove schiaccianti a discolpa e l’intervento del rappresentante dei diritti umani dell’ONU, nel tentativo evidente da parte del governo di coprire le vere responsabilità dell’omicidio (vedi newsletter n. 2, 2007)
(2007) Lettera dei sindacati italiani al PNC OCSE
OTTOBRE 2007 - Cgil, Cisl e Uil insieme alle categorie tessili inviano una lettera al Punto di Contatto Nazionale OCSE.
(2007) Vietato parlare di diritti
LA FFI/JKPL DI BANGALORE NON RETROCEDE: MANDATO DI ARRESTO PER CLEAN CLOTHES CAMPAIGN E INDIA COMMITTEE OF THE NETHERLANDS
OTTOBRE 2007 - Gli attivisti della Clean Clothes Campaign (CCC) e dell’India Committee of the Netherlands (ICN) rischiano due anni di carcere per cyber crime, diffamazione, atti di razzismo e xenofobia, in base al codice penale indiano, per aver diffuso informazioni sulle violazioni dei diritti dei lavoratori negli stabilimenti produttivi di un’azienda indiana. Le due organizzazioni e sette membri del loro staff avevano ricevuto un invito a comparire davanti al tribunale civile di Bangalore il 25 settembre scorso per una prima udienza rinviata al 31 agosto. Il tribunale civile di Bangalore ha emesso un mandato di arresto per gli imputati per assicurarsi la loro presenza alla prossima udienza. E’ il risultato di un’azione legale intentata dalla Fibres & Fabrics International, proprietaria della Jeans Knits Pvt. Ltd (FFI/JKPL) di Bangalore nei cui stabilimenti era emersa una lunga serie di abusi fin dalla fine del 2005. FFI/JKPL, fornitrice di jeans per un gran numero di marchi occidentali, aveva preferito agire per vie legali piuttosto che avviare un dialogo con le organizzazioni indiane e internazionali che difendono i diritti dei lavoratori. Dal luglio 2006, un’ingiunzione del tribunale di Bangalore impone alle organizzazioni locali il divieto di diffondere notizie sulle condizioni di lavoro all’interno degli impianti produttivi della FFI/JKPL. La decisione del tribunale è stata confermata nel febbraio 2007 e da allora il caso si trascina senza trovare soluzione.
La posta in gioco
Se il caso FFI/JKPL stabilisse un precedente giuridico, sarà forte la tentazione per le imprese terziste di rivolgersi alla giustizia per evitare di confrontarsi con i lavoratori sul piano sindacale e spezzare il legame che li unisce alla società civile internazionale. Se ciò avvenisse, i tentativi in atto per promuovere comportamenti più responsabili fra le imprese subirebbero un forte arretramento, non solo in India ma in tutto il mondo. Le organizzazioni internazionali che condividono questa preoccupazione, fra queste Maquila Solidarity Network, Sweat Free Communities, Business Human Rights e CSR Asia hanno espresso solidarietà e sostegno a CCC e ICN.
FFI/JKPL continua a rifiutare il dialogo
Il 25 giugno la FFI/JKPL aveva diffuso un comunicato stampa nel quale invitava le organizzazioni coinvolte nel caso a cessare la campagna di pressione, basata su accuse definite false, e a impegnarsi in un dialogo costruttivo nell’interesse di uno sviluppo socialmente sostenibile dell’industria tessile indiana. CCC e ICN avevano risposto offrendo la loro disponibilità purché l’invito fosse presentato in forma ufficiale allo scopo di proteggere le organizzazioni locali da conseguenze di tipo legale e che lo stesso fosse accompagnato dal ritiro della denuncia che aveva dato origine al provvedimento restrittivo della libertà di espressione. Si chiedeva inoltre a FFI/JKPL di accettare la presenza di un osservatore indipendente gradito da tutte le parti. Il 13 agosto FFI ha ribadito la richiesta di cessazione della campagna internazionale, basata a suo dire su “presupposti falsi e infondati” dimostrando così di non avere alcuna intenzione di ritirare la denuncia a carico delle organizzazioni promotrici.
Sospesa la certificazione SA8000 alle unità produttive di FFI/JKPL
Social Accountability International (SAI), responsabile dello standard sociale SA8000, ha confermato che si applica anche al caso FFI/JKPL la decisione ufficializzata il 30 aprile scorso che sospende dai benefici della certificazione SA8000 tutte le imprese che abbiano ricevuto una “ingiunzione legale che vieta agli stakeholder di discutere delle attività condotte dall’impresa al suo interno” (http://www.sa-intl.org/index.cfm?fuseaction=Page.viewPage&pageId=534&par...)=1). Nel 2006 SAI aveva certificato cinque stabilimenti di FFI/JKPL malgrado le segnalazioni inoltrate dalla CCC sulle violazioni dei diritti dei lavoratori documentate al loro interno. Nel novembre 2006 la CCC aveva presentato un ricorso formale dal quale era scaturita un’ulteriore indagine da parte di un’azienda consulente di SAI, che era arrivata alla conclusione che la concessione della certificazione SA8000 all’impresa indiana non era giustificata.
Diverse fonti confermano che la certificazione SA8000 concessa alle unità della FFI/JKPL è sospesa. Comunque, i termini della sospensione rimangono poco chiari. Nonostante le numerose richieste di informazioni aggiuntive, SAI non ha condiviso con la CCC e l’ICN alcuna informazione relativa ai dettagli delle procedure di sospensione.
L’assenza di una comunicazione ufficiale di SAI sullo status della certificazione ottenuta da FFI/JKPL è con tutta evidenza la conseguenza diretta della minaccia di FFI/JKPL di ricorrere alle vie legali. La CCC e l’ICN deplorano la decisione di SAI di autocensurarsi ed esprimono la forte preoccupazione che assecondando le minacce di un’azienda a caccia di certificazione, SAI ponga le premesse per la completa perdita di credibilità della sua organizzazione come ente indipendente.
FFI ha attività in Europa?
FFI/JKPL opera in India, ma ha un aggancio diretto con l’Europa: la società Tintoria Astico, con sede in Italia, fornisce modellistica computerizzata alla FFI/JKPL. La proprietà è equamente suddivisa fra la Fibres and Fabrics International di Bangalore e la Fibres and Fabrics Europe con sede in Olanda. L’amministratore delegato della società olandese si chiama Manfred Gruyters e si presenta come uno dei direttori della FFI/JKPL. La CCC ha scritto alla Tintoria Astico per sollecitarla a prendere posizione in favore del ritiro della denuncia presso il tribunale indiano. Manfred Gruyters era fra i destinatari dell’ultima lettera inviata dalla campagna alla FFI/JKPL. Ma né la Tintoria Astico né la Fibres and Fabrics Europe hanno finora risposto ai nostri appelli.
La risposta delle aziende committenti
La politica dello struzzo di G-Star
G-Star è il principale committente di FFI/JKPL. Ha incontrato la campagna il 7 giugno scorso e ha accettato di esercitare ulteriori pressioni su FFI, ma continua a dimostrarsi poco trasparente rispetto al modo in cui si è mossa. G-Star afferma di aver imposto a FFI/JKPL un termine entro il quale dovrà garantire ai lavoratori il diritto ad associarsi liberamente e si dice certa che ciò avverrà entro settembre di quest’anno. Ma come può un’impresa che ha espulso e perseguito il sindacato liberamente scelto dai lavoratori acconsentire alla nascita di uno nuovo se non imponendone uno di proprio gradimento?
Il silenzio di Mexx
Da quel che si sa Gap e Mexx sono in procinto di cessare i rapporti commerciali con FFI/JKPL, ma per non dover ammettere che il vero motivo risiede nell’indisponibilità di FFI/JKPL a trattare con le organizzazioni locali, entrambe evitano di fornire giustificazioni ufficiali. In questo modo non prendono impegni né per il presente né per il futuro con i lavoratori che dipendono anche dalle loro commesse. La Fair Wear Foundation (FWF), alla quale Mexx è associata, ha annunciato che diffonderà una dichiarazione pubblica sul mancato rispetto del codice di condotta della FWF da pare di FFI/JKPL. Un’analoga presa di posizione è prevista da parte di Ethical Trading Initiative.
GAP è in procinto di rivedere la sua politca di fornitura?
Alla luce dell’impasse tra la FFI e le diverse organizzazioni nazionali ed internazionali, GAP si trova sotto una fortissima pressione finalizzata a farle interrompere i rapporti commerciali con FFI.
In quanto membro di ETI, GAP deve rispondere agli obblighi derivanti dall’adesione al codice di condotta. ETI conferma che, a partire dalle informazioni raccolte da fonti diverse, l’applicazione di alcuni punti chiave del codice di condotta, come la libertà di associazione sindacale, sono seriamente compromesse.
L’irresponsabilità di Armani, Guess e RaRe
Nessuna delle tre imprese ha risposto ai ripetuti appelli che sono stati loro rivolti dalla CCC e dai tanti cittadini-consumatori che hanno aderito alla campagna di pressione pubblica. E’ impensabile che sul mercato esistano ancora imprese convinte di potersi sottrarre alle proprie responsabilità semplicemente distogliendo lo sguardo. Anche per Armani, Guess RaRe è arrivato il momento di assumere impegni concreti per garantire condizioni di lavoro corrette nella propria filiera produttiva.
L’ambiguità di Tommy Hilfiger
Nell’agosto 2006 Tommy Hilfiger ha informato la campagna di non intrattenere rapporti commerciali con FFI/JKPL e nel dicembre dello stesso anno ha comunicato a FFI/JKPL che avrebbe valutato l’ipotesi di una collaborazione futura solo a conclusione delle questioni aperte con la CCC e l’ICN. Tuttavia, in un articolo pubblicato il 31 agosto scorso in una rivista olandese di settore è apparsa la notizia secondo la quale Tommy Hilfiger continuerebbe a rifornirsi da FFI/JKPL. Interrogata in proposito l’azienda sostiene di aver ancora FFI/JKPL nelle sue liste, ma classificato come “fornitore inattivo”.
Inviamo una lettera a FFI/JKPL
Scriviamo a Armani, RaRe e Guess che il loro rifiuto di prendere in considerazione le violazioni avvenuto presso il loro fornitore non è accettabile. Tutti i marchi che si sono riforniti presso la FFI/JKPL dovrebbero denunciare il suo comportamento e fare pressione perchè si apra il dialogo con i sindacati e le organizzazioni della società civile.
Scriviamo nuovamente a FFI/JKPL per convincerli a ritirare la denuncia pendente presso il tribunale di Bangalore nei confronti delle organizzazioni della società civile, e di impegnarsi a un confronto con le organizzazioni locali (GATWU, NTUI, Cividep, Women Garment Workers’ Front Munnade).
Vai sul sito della CCC internazionale e complia automaticamente la lettera:
http://www.cleanclothes.org/urgent/07-09-27.htm
(2007) Repressione sindacale in Turchia
LA STORIA
Metraco produce principalmente per clienti europei. Tra questi vi sono marchi molto conosciuti come Helly Hansen (Norvegia), Guru, Gas Jeans, Replay (Italia), Jack & Jones (Danimarca) and Pall Mall/Just Brands (Olanda). L’impresa è di proprietà turca per il 33% e Olandese per il 67%.
La campagna antisindacale ha prodotto il licenziamento di 18 lavoratori e le dimissioni forzate dal sindacato di altri 32 iscritti con la minaccia che avrebbero altrimenti perso il posto. Allo stesso tempo altri lavoratori sono stati assunti per rimpiazzare quelli sindacalizzati.
Nonostante diversi tentativi da parte del sindacato turco DISK-Tekstil e da parte di diversi marchi che hanno proceduto individualmente o attraverso la Fair Wear Foundation e Modint (l’associazione industriale olandese) a fare pressione sull’impresa per convincerla ad aprire una trattativa, la Metraco continua a fare pressione sul lavoratori perchè cessino la loro attività sindacale. Nel 2006 inoltre la Metraco ha deciso di chiudere la fabbrica e di riaprirne un’altra ad Avcilar, a 55 km di distanza; la nuova fabbrica è operativa da gennaio 2007. Solo pochi lavoratori (70) hanno continuato a lavorare nella nuova unità, soprattutto quelli con strette relazioni con la direzione. E’ chiaro che si è trattato di una precisa strategia per ostacolare la nascita del sindacato.
Pressioni sul sindacato: intimidazioni,licenziamenti e intervento dei militari
Quando i lavoratori hanno incominciato ad organizzarsi e ad iscriversi al DISK-Tekstil nel febbraio 2006, la Metraco ha subito messo in atto una strategia di repressione, cercando le persone coinvolte nel processo di sindacalizzazione per scoraggiarle.
In Turchia un lavoratore che intende iscriversi la sindacato deve firmare la richiesta di iscrizione in 5 copie e pagare un notaio per la notifica pubblica; lo stesso deve fare per lasciare un sindacato ed iscriversi ad un altro. La Metraco ha costretto i 32 lavoratori a dare le dimissioni dal sindacato, accompagnandoli dal notaio e costringedoli a pagare il servizio.
Il DISK-Tekstil ha quindi registrato i suoi membri presso il Ministero del Lavoro e della Protezione Sociale non appena è risultato chiaro il livello di intimidazione. In ogni caso il 12 aprile del 2006, 12 dei 14 membri del DISK-Tekstil inseriti nella lista comunicata al ministero sono stati licenziati. Nelle settimane successive la stessa sorte è toccata ad altri 6 membri. Il 19 aprile a due di questi lavoratori era stato promesso che sarebbero stati riassunti se avessero rinunciato a denunciare il caso al tribunale del lavoro e se avessero lasciato il sindacato.
Una donna è stata licenziata per aver rifiutato il trasferimento in un reparto dove vengono usati prodotti chimici e da cui era stata allontanata per ordine del medico. Avrebbe potuto evitarlo se avesse lasciato la tessera sindacale.
Il 30 Novebre 2006 un altro lavoratore è stato licenziato dopo aver parlato con gli ispettori che stavano investigando sulle condizioni di lavoro nello stabilimento.
La direzione della Metraco ha anche fatto uso improprio dell’esercito quando ha chiamato i militari per obbligare i lavoratori a lasciare il sindacato. Ha utilizzato sipatizzanti del partito fascista locale per sostituire i lavoratori sindacalizzati espulsi. Tale comportamento è assolutamente inaccettabile e testimonia che la Metraco non ha alcuna intenzione di creare condizioni di lavoro dignitose per i lavoratori e le lavoratrici della fabbrica.
Cause legali e denunce contro la Metraco.
I lavoratori turchi hanno il diritto di associarsi al sindacato. Questo è garantito dall’articolo 51 della costituzione turca. Il Turkish Criminal Code (articolo 118) stipula anche che minacciare i lavoratori perchè non si associno ad un sindacato è punibile con due anni di prigione. La Turchia ha ratificato le convenzioni ILO (87, 98) sul diritto di libera associazione sindacale e sul diritto di contrattazione collettiva.
Nell’aprile del 2006 il DISK-Tekstil ha denunciato il caso all’ILO di Ankara
e a diverse autorità governative, incluso il dipartimento diritti umani e il Ministero del Lavoro e della Sicurezza Sociale. Una denuncia è stata anche sporta alla polizia militare di Instanbul.
17 lavoratori hanno iniziato azioni legali verso la Metraco per i loro licenziamenti. Presso il tribunale di Beyoglu sono tuttora in corso i processi per 11 lavoratori e la prossima udienza è stata fissata per il 1 novembre 2007. Ma il fatto che sia in corso una causa legale non può essere considerato una valida scusa per la direzione per non procedere alla riassunzione che può avvenire in qualunque momento.
Al momento nessuna delle denunce ha portato ad un aiuto concreto ai lavoratori della Metraco. Il DISK-Tekstil ha dichiarato che l’ufficio ILO in Turchia ha richiesto informazioni al Ministro del Lavoro e della Sicurezza Sociale e che quest’ultimo ha concluso la propria ispezione indicando che nessuna azione verrà intrapresa finchè il processo è in corso.
Come hanno risposto i clienti della Metraco.
La Clean Clothes Campaign in Olanda, Italia, Norvegia e Svezia ha contattato i marchi committenti localizzati nei diversi paesi e clienti Metraco.
Alcuni marchi (Gaastra, Pall Mall, Bestseller, Gas Jeans, Helly Hansen) hanno incontrato oppure scritto lettere alla Metraco circa le violazioni in corso. Altri (Bestseller, Gaastra and O’Neill) hanno deciso di cancellare o sospendere i propri ordini.
Molti di questi (O’Neill, Gaastra, Helly Hansen, Scotch & Soda, and Pall Mall/Just Brands) hanno tentato di coordinare gli sforzi insieme alla Fair Wear Foundation e a Modint (associazione industriali del settore tessile olandese e rappresentata all’interno della FWF). Una ispezione da parte di questi marchi è avvenuta nel Novembre 2006 (commissionata da Modint da parte delle cinque imprese e come azione prevista dalla procedura della FWF). L’audit ha confermato le violazioni denunciate dai sindacati. Altri audit sono stati commissionati da altre imprese (ex. Bestseller, Guru). Come già citato, un lavoratore che aveva parlato con gli ispettori in Novembre è stato licenziato. E’ chiaro che i problemi rilevati dal DISK-Tekstil sono seri e credibili e che richiedono una risposta adeguata da parte dei committenti e dalla direzione aziendale.
La FWF ha informato i suoi stakeholder comunicando che la Metraco non solo ha violato gli standard internazionali dell’ILO ma ha anche dimostrato di non avere alcuna volontà di impegnarsi in azioni correttive in conformità a quanto stabilito dagli stessi codici di condotta, che sono parte integrante degli accordi commerciali con le imprese committenti e con la FWF.
La Clean Clothes Campaign accoglie positivamente le azioni intraprese dai marchi, in particolare il tentativo di lavorare insieme per la risoluzione del caso, ma la situazione dei lavoratori non è migliorata.
La Clean Clothes Campaign ritiene pertanto che le imprese che si riforniscono o si sono rifornite alla Metraco abbiano la responsabilità di continuare a fare pressione per una positiva risoluzione di questo caso.
Il sindacato turco chiede di congelare gli ordini alla Metraco
Data la sitiuazione fortemente negativa, il DISK-Tekstil chiede ai marchi europei di non fare più ordini alla Metraco, finchè la disputa non è risolta. La Clean Clothes Campaign contatterà i diversi clienti circa questa specifica richiesta e ne seguirà gli sviluppi. In caso di necessità, la Clean Clothes Campaign chiederà ai consumatori di contattare questi marchi per incoraggiarli a sostenere le richieste in campo.
QUESTIONI APERTE ALLA METRACO
Di seguito le richieste del sindacato alla Metraco sostenute dalla Clean Clothes Campaign:
1. Immediata riassunzione di tutti i lavoratori licenziati dall’inizio del processo di sindacalizzazione, nelle loro precedenti posizioni, livelli di anzianità e benefit, con appropriato compenso per il periodo di sospensione dal lavoro.
2. Riconoscimento immediato del sindacato; la direzione deve incontrarsi con il sindacato per discutere delle condizioni di lavoro e per facilitare la nascita di buone relazioni industriali.
3. Cessazione delle intimidazioni dei membri del sindacato e dei loro sostenitori.
4. Inchiesta sui comportamenti messi in atto dal responsabile delle risorse umane e assunzione di successive misure sanzionatorie.
5. Formazione dei manager sull’applicazione dei diritti fondamentali del lavoro, con particolare riferemento alla libertà di associazione sindacale.
(2007) REPORT - Olimpiadi: Nessuna medaglia alle Olimpiadi per i diritti dei lavoratori
GIUGNO 2007 - A un anno dall'apertura dei giochi olimpici di Pechino 2008, un'indagine in quattro aziende cinesi produttrici di materiale promozionale a marchio olimpico solleva il velo sulla filiera commerciale del CIO e dei Comitati olimpici nazionali.
Leggi l'intero rapporto in inglese
(2007) Riflessione sui limite degli strumenti volontari di controllo
a cura di Deborah Lucchetti (Fair/Campagna Abiti Puliti)
GIUGNO 2007 - Forse dipenderà dalle recenti notizie apparse in Gran Bretagna, che hanno fatto luce su imprese che producevano per Tesco in Bangladesh impiegando lavoro minorile, e che Tesco non sapeva di avere tra i suoi fornitori. Eppure Tesco è già membro dell’ETI (Etical Trade Initiative), organismo multistakeholder con sede in Gran Bretagna che richiede il monitoraggio indipendente di tutta la catena di fornitura, proprio per evitare questo tipo di abusi.
Il caso illustrato segna i limiti evidenti degli attuali strumenti volontari messi in piedi negli ultimi dieci anni per monitorare le condizioni di lavoro in tutti i segmenti della filiera produttiva.
E’ molto interessante a tal proposito, leggere con attenzione il recente studio indipendente pubblicato proprio dall'ETI (http://www.ethicaltrade.org/Z/lib/2006/09/impact-report/index.shtml) con l’obiettivo di fare una valutazione dell’impatto dei codici di condotta su 25 casi concreti. I risultati mettono in luce una serie di problemi gravi che i codici non sono, di fatto, riusciti ad affrontare e risolvere. Parliamo di libertà di associazione sindacale, per cui non si registra un effettivo aumento di sindacalizzazione dentro le imprese e nemmeno l’avvio di un processo reale di contrattazione collettiva (come sancito dalle convenzioni ILO 87 e 98); nemmeno il salario vivibile è mai raggiunto, visto che si riscontrano al massimo miglioramenti verso il salario minimo legale che sappiamo essere insufficiente per poter garantire una vita dignitosa ai lavoratori e alle loro famiglie. Le donne continuano ad essere discriminate, sia nell’accesso al lavoro, sia nella possibilità di avere possibilità di formazione e avanzamento mentre aumenta in generale la precarietà e la flessibilità del mercato del lavoro, sempre più ricco di manodopera informale e migrante.
In ultimo, e tra i punti aperti più importanti, i grandi marchi e distributori insistono nell’esercitare pratiche di acquisto predatorie, che mirano a ridurre i prezzi, accorciare i tempi di produzione e ridurre gli stock, ostacolando di fatto la possibilità dei fornitori di destinare maggiori risorse agli aumenti salariali e al miglioramento generale delle condizioni.
Altri aspetti critici interessanti che emergono dall'esperienza accumulata negli ultimi dieci anni in materia di controllo volontario della catena di fornitura, riguardano proprio la proliferazione di standard, codici e sistemi di implementazione, audit inclusi.
Ecco perchè la nuova iniziativa che sta per essere lanciata, decisamente business-oriented, ha tutto il sapore amaro dell’ennesimo tentativo di facciata, di cui è difficile comprendere efficacia reale e motivazioni, se non quella di mettere sul mercato un nuovo strumento di tutela dell’immagine e di public relations.
Le stesse imprese fornitrici denunciano la fatica di essere sottoposte a audit diversi, che richiedono una mole di dati differenziati da fornire a eserciti di ispettori provenienti dalle più disparate iniziative. Secondo quanto dichiarato recentemente da Neil Kerney, leader dell’ITGLWF (sindacato internazionale dei tessili) sul Finacial Times, “ le imprese hanno speso milioni di dollari in codici di condotta e audit e il maggiore risultato è stato quello di creare un esercito di frodatori”. Del resto anche il rapporto inchiesta della Clean Clothes Campaign - Looking for a quick fix (http://www.cleanclothes.org/pub-archive.htm) aveva messo in luce la debolezza degli audit sociali, spesso basati su informazioni truccate provenienti dai registri ufficiali preparati ad hoc per gli ispettori di turno. Lavoratori debitamente istruiti per dire ciò che si conviene e che rischiano il posto se non sono obbedienti; registri falsi che riportano paghe regolari e orari nella media, sono spesso la faccia presentabile di realtà dove ben altre sono le condizioni di lavoro. Condizioni e abusi che emergono in tutta la loro nuda drammaticità solo quando alcuni lavoratori decidono di prendere parola e denunciare i fatti che poi diventano oggetto di qualche scoop giornalistico, che all’improvviso scuote le coscienze e fa vedere una realtà molto diversa da quella dipinta nei bilanci sociali.
Come è successo di recente alla Tesco in Gran Bretagna che, a seguito della pessima figura che ha fatto di fronte all’opinione pubblica, ha deciso di correre ai ripari unendosi a Wal Mart, Carrefour e Metro per battezzare la nascita della nuova iniziativa, che avrebbe l’obiettivo di unificare metodi e sistemi di controllo della catena di fornitura per migliorare le condizioni dei lavoratori di tutti i settori.
Sarebbe interessante chiedere ai big della grande distribuzione quali sono le loro intenzioni in merito ai contenuti dell’iniziativa e come pensano di modificare le loro note e vampiresche pratiche di acquisto, che costringono i fornitori a produrre a costi sempre più bassi per potergli permettere di stare sul mercato globale con masse crescenti di merci a prezzi stracciati. Tutto ciò ricorda alcune pubblicità di importanti marchi della distribuzione italiana che tappezzano i muri delle nostre città ove campeggia vittoriosa la scritta SOTTO COSTO; senz’altro una bella conquista per noi consumatori, almeno fino a quando non cominceremo a chiederci chi paga per tale beneficio.
Seguiremo con attenzione gli sviluppi della nuova iniziativa, ben sapendo che sono ormai condivisi anche tra le imprese seriamente intenzionate a efficaci pratiche di responsabilità, alcuni punti chiave dai quali partire per affrontare il fallimento delle misure volontarie nel migliorare sensibilmente le condizioni dei lavoratori; in particolare risulta ormai chiaro che occorre partire dalle cause strutturali che generano il mancato rispetto dei diritti (perdurare di pratiche di acquisto selvagge in testa ma anche il non coinvolgimento dei lavoratori quali principali stakeholders).
Infine, ed è forse il punto più importante e contrastato da un certo filone di pensiero molto mercatocentrico, occorre prendere atto che nessuna misura volontaria potrà essere realmente efficace senza l'intervento e il ruolo attivo e complementare dei governi e delle autorità pubbliche. Lo ha detto persino la Banca Mondiale quando ha affermato nel 2003 che "progressi di sistema non saranno raggiunti senza il coinvolgimento attivo dei governi"1 .
1 Strenghtening implementation of corporate social responsibility in global supply chains - The Worldbank Group, 2003
(2007) Libertà di parola per i lavoratori della Fibres&Fabrics/JKPL
BREVE RIEPILOGO
10 mesi fa la Fibres & Fabrics International (FFI), insieme aLla sua sussidiaria Jeans Knit Pvt. Ltd. (JKPL) di Bangalore, fornitrice di imprese multinazionali come G-Star, Gap, Armani and Mexx ha chiesto e ottenuto dal Tribunale Civile di imporre il silenzio agli attivitsti e ai sindacati locali per impedirgli di denunciare pubblicamente le violazioni dei diritti sindacali in corso all'interno degli stabilimenti produttivi. Le organizzazioni interessate, Munnade, Cividep insieme ai sindacati GATWU e NTUI, avevano infatti riportato alla fine del 2005 l’esistenza di gravi violazioni nei reparti produttivi, come carichi di lavoro eccessivi e lavoro forzato, abusi psichici e fisici, mancanza di pagamento degli straordinari, assenza di regolari contratti.
La corte aveva emesso un’ordinanza restrittiva il 28 di Luglio del 2006 che era stata prolungata nel Febbraio 2007. Tale ordinanza sta tuttora impedendo alle organizzazioni non governative e ai sindacati di difendere i diritti dei lavoratori e di adoperarsi per migliorarne le condizioni alla FFI/JKPL. Questa situazione è assolutamente inaccettabile: la Clean Clothes Campaign e l’ India Committee of the Netherlands (ICN) hanno fatto incessanti pressioni sulla FFI/JKPL perchè facesse ritirare l’ordinanza restrittiva mentre alle imprese committenti è stato richiesto di intervenire per facilitare l’apertura del dialogo; le imprese hanno avuto reazioni diverse, alcune si sono attivate, altre sono rimaste silenti e tra queste le due imprese italiane Armani e Ra-Re.
Recentemente la SAI, l’organizzazione responsabile per la certificazione SA8000 ha informato la CCC e l’ICN che la certificazione alla FFI/JKPL potrebbe essere revocata. SAI ha fatto questa dichiarazione in seguito alla denuncia formale fatta dalla CCC e dall’ICN in relazione alla incoerenza del processo di certificazione che ha portato alla certificazione delle unità produttive della FFI.
Sebbene le condizioni di lavoro alla FFI/JKPL siano nel frattempo migliorate, l’ordinanza restrittiva è ancora in piedi e questo è un chiaro segnale intimidatorio nei confronti dei lavoratori e delle lavoartrici. Tale provvedimento impedisce nei fatti alle diverse organizzazioni locali di assumere iniziative concrete e di organizzarsi per instaurare nuove relazioni idustriali, mimando alla radice la libertà di associazione sindacale e di contrattazione collettiva.
La CCC e l’ICN pertanto chiedono (urge) ancora alle imprese che si rifonoscono o si sono fornite alla FFI/JKPL di unire gli sforzi in una iniziativa comune per affrontare e risolvere la situazione. E’ importante sottolineare che alcune imprese come Guess, Ra-Re e Armani a tutt’oggi non hanno fatto alcun passo, nè formale nè sostanziale, per sostenere la risoluzione del caso; questo atteggiamento non può che generare una forte disapprovazione. Le imprese che hanno fatto qualche pressione sulla FFI/JKPL sono adesso chiamate a continuare a collaborare per dare una risposta alle domande tuttora aperte.
Vi chiediamo di attivarvi in sostegno delle organizzazioni locali affinchè il caso ossa essere chiuso. Scrivete alle imprese che si riforniscono o si sono rifornite alla FFI/JKPL per ottenere che la FFI/JKPL accetti di aprire un vero confronto con le organizzazioni locali e i lavoratori.
Scrivete le vostre mail di pressione andando direttamente sul sito internazionale http://www.cleanclothes.org/urgent/07-05-10.htm#action Indicate nel soggetto - Support free dialogue at FFI/JKPL
(2007) Al via il fondo per i risarcimenti delle vittime
A due anni dal crollo della Spectrum al via il fondo per i risarcimenti delle vittime costituito dai buyer con la vistosa eccezione di Carrefour. In occasione della Giornata mondiale per la salute e sicurezza, celebrata il 28 aprile, L’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL) ha presentato il suo rapporto annuale: sono 2,2 milioni le persone che perdono la vita ogni anno nei luoghi di lavoro a causa di incidenti e malattie professionali, mentre il numero degli infortuni ammonta a 270 milioni. I casi denunciati di malattie professionali sono pari a 160 milioni, con un danno economico quantificabile nel 4% del PIL globale. L’OIL associa il tema della sicurezza a quello della dignità del lavoro: dove non c’è garanzia dell’insieme dei diritti contrattuali e sindacali, non ci può essere prevenzione dai rischi. Ma in una società globalizzata, dove la fabbrica ha scala planetaria, ha ancora senso un computo per nazione, che vede per esempio l’Italia non discostarsi dalla triste cifra di 4 morti al giorno?
Se riflettessimo sul numero di persone che in altre parti del mondo quotidianamente si ammalano, subiscono infortuni, perdono la vita per produrre le nostre merci, i paesi occidentali dovrebbero seriamente rivedere i propri calcoli e predisporre urgenti contromisure.
A chi appartengono i morti della Spectrum-Shariyar?
L’11 aprile 2005, a Savar, in una zona industriale a pochi chilometri dalla capitale del Bangladesh, crollava un edificio di nove piani, sorto e ampliato abusivamente su un terreno paludoso, che ospitava il maglificio Spectrum, fornitore di grandi imprese e distributori europei, fra i più noti Zara-Inditex e Carrefour. Morirono 64 persone e i feriti furono circa 80, di cui 54 gravi (vedi: www.abitipulit.org, “Azioni urgenti”; Newsletter n. 5/2006).
Ci sono voluti due anni di intenso lavoro, fra ricognizioni, trattative e pressioni pubbliche, ma alla fine il 1° aprile scorso gli operai rimasti invalidi e le famiglie degli operai deceduti nel crollo della Spectrum hanno cominciato a ricevere il primo pagamento dal fondo costituito da alcune delle imprese committenti per assicurare un vitalizio mensile alle famiglie colpite, che nel frattempo sono sopravvissute indebitandosi avendo ricevuto solo una modesta cifra una tantum dal datore di lavoro e dal governo per le necessità immediate. Si tratta per il momento di 22 persone per un totale di 3mila dollari erogati, prima tranche dello stanziamento iniziale di 60mila dollari in via di destinazione.
La prima a costituire il fondo è stata la spagnola Inditex, proprietaria del marchio Zara, a cui si sono aggiunte la catena di distribuzione tedesca KarstadQuelle (anche grazie alle pressioni della chiesa evangelica), New wave group (Svezia), Scapino (Olanda), Solo invest (Francia).
Hanno rifiutato di contribuire al fondo: Carrefour (Francia), secondo la quale questo tipo di risarcimento spetta al governo bengalese, Cotton group (Belgio); New yorker, Steilmann, Kirsten Mode e Bluhmod (Germania).
Il fondo, che dovrà raggiungere la somma di 533mila euro, sarà amministrato da un consiglio di fiduciari in rappresentanza di tutte le parti contribuenti: oltre alle imprese, è previsto che vi partecipino i proprietari della Spectrum, il governo del Bangaldesh, l’associazione dei produttori ed esportatori di abbigliamento del Bangladesh (BGMEA), più eventuali sottoscrizioni di privati e associazioni. La gestione corrente è affidata all’ong Incidin Bangladesh, partner di Oxfam Gran Bretagna, e alle organizzazioni sindacali locali.
Le Clean clothes campaign francese e belga hanno in programma nelle prossime settimane iniziative nei confronti di Carrefour per spingerla ad assumersi le proprie responsabilità. La CCC belga di lingua francese ha pubblicato un rapporto aggiornato sul disastro della Spectrum e sulle condizioni di salute e sicurezza nell’industria dell’abbigliamento del Bangladesh scaricabile dal sito: www.vetementspropres.be.
INVIATE UNA LETTERA A COTTON GROUP, STEILMANN, KIRSTEN MODE, BLUHMOD E NEW YORKER per sollecitare l’adesione al fondo di risarcimento della Spectrum - link non più valido
(2007) Una condanna ingiusta
Confermata in appello una condanna ingiusta
3 maggio 2007 - ll 12 aprile si è tenuto a Phnom Penh il processo di appello a carico di due persone, Born Samnang e Sok Sam Oeun, accusate dell’assassinio di Chea Vichea, presidente del Sindacato libero dei lavoratori del regno di Cambogia (FTUWKC), avvenuto il 22 gennaio 2004 (vedi Newsletter n. 3/2007). La sentenza ha confermato la condanna a vent’anni di carcere per entrambi. Il FTUWKC, le organizzazioni internazionali per i diritti umani, fra cui Amnesty international, il rappresentante per i diritti umani dell’ONU in Cambogia hanno fin dall’inizio sollevato seri dubbi sui risultati dell’indagine condotta dalla polizia e sulle procedure processuali che hanno determinato la condanna in primo grado. Oltre a molte altre irregolarità, i testimoni oculari chiave non sono stati ascoltati e in seguito hanno ricevuto minacce di morte.
La seconda udienza del processo di appello, fissata volutamente all’insolita ora delle 7,30 di mattina e nel giorno in cui i cambogiani festeggiano il capodanno, è iniziata con dieci minuti di anticipo impedendo agli accusati, ai loro legali, e alle organizzazioni della società civile di essere presenti. In poco meno di venti minuti, la corte ha respinto la richiesta del pubblico ministero di svolgere una nuova indagine, ha rifiutato di ascoltare i testimoni della difesa, non ha convocato l’ex capo della polizia di Phnom Penh, che Born Samnang aveva accusato nella prima udienza di averlo torturato per estorcergli una confessione, e ha confermato la sentenza di condanna a vent’anni di reclusione.
Secondo l’Asian human rights commission (AHRC), che ha seguito fin dall’inizio il caso, è chiaro il tentativo del governo di coprire un delitto politico individuando due opportuni capri espiatori. Il 18 aprile scorso, l’OIL ha stigmatizzato in una dichiarazione ufficiale gli esiti del processo di appello rivolgendo nuovamente al governo cambogiano l’invito a svolgere una nuova indagine, seria e imparziale, sull’assassinio di Chea Vichea.
INVIATE UNA LETTERA AL GOVERNO CAMBOGIANO (fate copia e incolla del testo che trovate di seguito)
Mr. Samdech Hun Sen Prime Minister E-mail: cabinet1b@camnet.com.kh Mr. Sar Kheng Deputy Prime Minister and Minister of Interior E-Mail: info@interior.gov.kh or moi@interior.gov.kh
CAMBODIA: Unjust conviction of two men by the appeal court in the murder of Chea Vichea I strongly condemn an unjust and politically biased conviction of Born Samnang and Sok Samoeun in the murder of a prominent union leader Chea Vichea by the Court of Appeals on 12 April 2007. I am informed that the Court of Appeals upheld the Municipal court's verdict in August 2005, in which that the two accused had been sentenced 20 years imprisonment.
However, I do not think the hearings of the appeal court were just and fair. The final hearing was conducted in an absentia of the two defendants and their defence lawyers. It is such a wrong procedure that the appeal should not decide in absentia without the present of the defendants, the defendants' lawyer because the defendants have also their rights to listen to the verdict announce.
I am also informed that during the hearings, the appeals court rejected all of the defend witnesses and did not bring the prosecution witnesses for the hearing at all. The appeal court also rejected prosecutor's request on April 6 for re-investigation to find real murderer. I am informed that the judge had always accepted the prosecution witnesses' testimony that they did not even join the appeal hearing. I suspect that there could be a political motivation behind the appeal verdict.
During the appeal hearing on 6 April 2007, Bon Samnang raised a lot about the torture in the police station that the police had tortured him to confess. However, all these matters were simply ignored. The appeal judge did not also accept Ms. Va Sothy's statement issued on 10 August 2006 from Thailand who is the eyes-witness at the sense and who see the perpetrators very clearly because Ms. Va Sothy haven't vow before the court.
There are many other irregularities in the appeal hearings.
On top of that, I think the final appeal court hearing on 12 April 2007 seemed so ridiculous because it was too rush that the judge started the hearing at 7: 20 am which is wrong this his schedule that suppose to started at 7: 30am so that it could less interested and participated from the international observer or media or the defend lawyers. I also think that the court had deliberately chose 12 April for its verdict to minimise when Cambodians are busy celebrating their new year.
From the begging since the murder of Chea Vichea, criminal investigation and trial was deeply flawed relating to murder of Chea Vichea and I believe that the true perpetrators responsible for the murder of Chea Vichea have not been held to account. Born Samnang and Sok Sam Oeun had alibis for the time of the shooting, but those providing the alibis were threatened and detained by police, while other witnesses were also intimidated by the police.
Now Born Samnang and Sok Sam Oeun will be held in prison for 20 years for the crime these two men in all probability have not committed. In all probability too this is a huge miscarriage of justice.
I therefore strongly urge the Cambodian authorities as well as international commnity to immediately intervene into this matter to bring independent and effective re-investigation into the murder of Chea Vichea so that the real murderers are brought to justice. Born Samnang and Sok Sam Oeun should be given a chance for re-trial and released without delay, unless there is sufficient evidence to bring charges against them.
Yours truly,
(2007) Il buco nero della RSI
Il buco nero della RSI
MARZO 2007 - Un commento alla Comunicazione della Commissione EU sulla Responsabilità Sociale d’Impresa e sul rapporto del Rappresentate Speciale dell’ONU John Ruggie sulle Norme per le imprese.
A cura di Deborah Lucchetti FAIR/Campagna Abiti Puliti
(2007) La risposta di Armani ad Abiti Puliti
La risposta di Armani ad Abiti Puliti
MARZO 2007 - ARMANI finalmente risponde alla Campagna Abiti Puliti; dopo l'articolo apparso su Carta, l'azienda si difende dichiarando di avere cessato i rapporti con il fornitore FFI con la collezione Autunno/Inverno 2006.
(2007) Intervista ad Antonio Franceschini, segretario nazionale dell'Unione CNA Federmoda
a cura di Ersilia Monti
FEBBRAIO 2007 - Abbiamo rivolto alcune domande in tema di etichettatura e tracciabilità di filiera al segretario nazionale dell'Unione CNA Federmoda che rappresenta circa 25mila imprese artigiane e piccole-medie imprese del comparto moda italiano, produttrici in conto proprio e in conto terzi.
(2007) Azioni legali & SA8000
Il 15 Dicembre, dopo varie posticipazioni, si è tenuta la prima audizione degli accusati, in cui per la prima volta le organizzazioni hanno potuto rispondere alle accuse di diffamazione, focalizzando l'intervento sul merito: le violazioni relativa alla possibilità di formare liberi sindacati e di esprimere liberamente la propria opinione, in nome del diritto che qualunque individuo o organizzazione dovrebbe avere di denunciare fatti come questi, in qualunque luogo si verifichino.
Il 20 Dicembre è stato ascoltato il board della FFI/JKPL. Avrebbe dovuto esserci una nuova udienza il 12 Febbraio che però è stata spostata al 19 Febbraio; il giudice dovrà decidere se modificare l'attuale ordinanza restrittiva temporanea in una definitiva, oppure cancellarla, autorizzando nuovamente le organizzazioni in questione a prendere parola. Non è al momento possibile prevedere quali saranno gli esiti della vicenda giudiziale ma le organizzazioni in lotta a fianco dei lavoratori non intendono accettare una eventuale decisione oscurantista e antidemocratica.
L'11 Gennaio invece, la Clean Clothes Campaign ha ricevuto una lettera dallo studio legale Pramila Associates Advocate a nome della Fibres and Fabrics International (FFI) nella quale si minaccia di ricorrere per vie legali contro la campagna se questa non cessa immediatamente di diffondere informazioni circa le condizioni di lavoro nella fabbrica.
Dall'Agosto 2006 la Clean Clothes Campaign insieme all'India Committee of the Netherlands (ICN), fa pressione pubblicamente sulla FFI e sulle aziende sue attuali clienti - Ann Taylor, Armani, G-Star, Gap, Guess, Mexx and Rare- affinchè cessino le violazioni in corso. Una di queste consiste nella mancata possibilità per i lavoratori di denunciare i problemi esistenti, senza avere paura di rappresaglie.
La lettera dello studio legale Pramila Advocates accusa la Clean Clothes Campaign e l'ICN di avere ordito una cospirazione con la finalità di danneggiare gli affari, la reputazione e l'immagine della FFI pubblicando informazioni false. Pramila minaccia di procedere contro la Clean Clothes Campaign per avere compiuto azioni illegali incluso l'utilizzo criminale del sito, se questa non rimuove tutti gli articoli pubblicati e non cessa di fare pressione sui marchi perchè la FFI ritiri il ricorso presentato contro gli stakeholder locali.
Sebbene la lettera sia strutturata come una ingiunzione legale, i legali della Clean Clothes Campaign hanno rilevato la mancanza di qualunque base giuridica. Secondo la Clean Clothes Campaign si tratta di un chiaro esempio della attitudine della FFI che testimonia la non volontà di intraprendere un dialogo con le parti sociali. La Clean Clothes Campaign ha risposto alla lettera ribadendo la necessità di accettare il dialogo con i lavoratori e di iniziare un processo correttivo immediato insieme alle organizzazioni locali.
Uno degli elementi più sorprendenti di questa vicenda risiede nel fatto che diverse unità della FFI sono state certificate SA8000 mentre altre sembrano essere in fase di certificazione.
Il 29 Novembre la Clean Clothes Campaign ha scritto una lettera di protesta alla SAI in cui sottolineava la mancata reazione da parte del board della società di certificazione alle ripetute segnalazioni da parte della Clean Clothes Campaign che mettevano in evidenza le continue violazioni esistenti alla FFI. La Clean Clothes Campaign aveva anche segnalato più volte alla SAI le questioni aperte e le domande che gli attivisti dei diritti umani e i sindacati avevano posto all'azienda, compresa la grave situazione di riduzione degli spazi democratici dovuta all'ordinanza restrittiva emessa dal Tribunale Civile di Bangalore.
Tale ordinanza, restringendo le possibilità effettive di azione delle organizzazioni indiane, impedisce nei fatti il reale coinvolgimento dei lavoratori e quindi propone un sistema di relazione con gli stakeholder esattamente contrario a quello che dovrebbe essere garantito dal processo di certificazione.
Il 10 Novembre la SAI informava la Clean Clothes Campaign che "la certificazione SA8000 richiede la consultazione degli stakeholder da parte dell'organo di certificazione (CB). Siamo ora in attesa di ricevere un report dal CB che dettagli le consultazioni avvenute con i sindacati". E' difficile immaginare che una consultazione significativa possa essere avvenuta in presenza di un ordine restrittivo da parte del tribunale. Questo è un impedimento grave che minaccia alla base la possibilità di aprire un dialogo costruttivo che possa portare all'attuazione di un serio piano correttivo che parta dalle problematiche sollevate dai lavoratori. Secondo la Clean Clothes Campaign l'ordinanza del tribunale è un messaggio che indebolisce i lavoratori che sono posti in una situazione di delegittimazione.
La Clean Clothes Campaign e l'ICN hanno formalizzato un ricorso in conformità alle Linee Guida SAI ce mette in discussione la certificazione degli stabilimenti della FFI. A Dicembre la SAI ha risposto di avere preso in carico il ricorso e di essere impegnata a valutare l'operato dell'organismo di certificazione che ha condotto gli audit alla FFI insieme alla verifica dei report prodotti. Il 9 di gennaio la SAI ha annunciato l'intenzione di condividere i report con la Clean Clothes Campaign a breve.
(2007) Sintesi del rapporto del comitato di inchiesta sulle violazioni dei diritti alla FFI
In un secondo colloquio con il comitato, i lavoratori hanno riferito di una serie di miglioramenti intervenuti nelle condizioni di lavoro: gli abusi verbali e le punizioni corporali sono cessati, è stato sospeso l’obbligo degli straordinari, sono stati installate le cassette del pronto soccorso; altre questioni sono state risolte solo in parte: è stato istituito un comitato per raccogliere i reclami dei lavoratori ma non è libero di funzionare, nel reparto spazzolatura sono state distribuite le mascherine ma non i guanti, i permessi e le ferie continuano a non essere accordati, sono avvenuti trasferimenti punitivi di personale non gradito al reparto spazzolatura dove si maneggiano le sostanze chimiche a mani nude.
I lavoratori si erano rivolti al sindacato del tessile-abbigliamento (Garment and textile workers union, GATWU) per essere aiutati a difendersi dalle molestie e dalle percosse dei superiori, e da una lunga serie di negazioni dei diritti basilari, fra i quali la decurtazione del salario e condizioni di lavoro nocive. La situazione era divenuta insostenibile al punto che ogni mese almeno cento addetti del reparto davano le dimissioni. Il GATWU aveva inoltrato due lettere alla direzione nei mesi di febbraio e marzo 2006 chiedendo un incontro, ma non aveva ottenuto risposta. Si era rivolto allora ad alcune organizzazioni per i diritti umani che hanno accettato l’invito a costituire un comitato di inchiesta con l’incarico di accertare i fatti denunciati dai lavoratori.
I 14 lavoratori del reparto lavaggio incontrati dal comitato di inchiesta il 23.4.2006 avevano un’anzianità di servizio variante dai 2 mesi ai quattro anni, e differenti qualifiche: operai, assistenti e supervisori. Tutti di sesso maschile, di età compresa fra i 19 e i 28 anni, immigrati a Bangalore dai villaggi rurali del Karnataka dell’Andhra Pradesh, molti di loro erano in possesso di diploma di scuola superiore. Rappresentavano nel complesso la composizione demografica della manodopera occupata nel reparto. Dai colloqui è emersa l’urgenza dei lavoratori di far cessare gli abusi fisici e verbali, il cui grado di brutalità ha molto colpito i componenti del comitato, di ottenere il giusto livello di retribuzione, protezione dalle lavorazioni nocive e la possibilità di difendere i propri diritti.
Violazioni accertate
1. Abusi verbali e fisici
• Le percosse sono la regola se i lavoratori non tengono il passo con i ritmi produttivi che vengono costantemente aumentati. Sono i supervisori e il direttore del reparto a picchiare i lavoratori, a bastonate, a schiaffi, a calci, in qualsiasi parte del corpo. Nel reparto spazzolatura la quota di produzione individuale era di 70 pezzi in 8 ore, ma ultimamente è stata portata a 90 pezzi in 8 ore. Nell’ottobre 2005 un ragazzo è stato denudato e picchiato di fronte ai compagni di turno allo scopo di intimidirli.
• I supervisori sono spinti alla violenza dai superiori e subiscono a loro volta le percosse dei capi reparto
• I lavoratori ricevono percosse anche fuori dalla fabbrica da parte di individui prezzolati. Il sistema usato è molto semplice: i lavoratori più scomodi sono messi nel turno di notte e, una volta usciti, vengono assaliti sulla strada di casa. Alcuni mesi fa, un lavoratore del reparto lavaggio è stato chiamato fuori dalla fabbrica verso mezzanotte e il giorno dopo il suo corpo senza vita è stato trovato lungo i binari della ferrovia. Il GATWU sta svolgendo indagini sull’accaduto con la polizia locale.
• Gli insulti, contenenti minacce, a sfondo sessuale, o allusivi del basso stato di casta dei lavoratori, sono subiti come una perdita di dignità intollerabile
2. Licenziamenti arbitrari
• Il licenziamento è comminato senza preavviso o diritto di difesa ogni volta che i lavoratori avanzano proteste o esprimono difficoltà a far fronte a ritmi di lavoro insostenibili.
3. Straordinari non pagati
• I lavoratori subiscono dure punizioni, anche fisiche, se non raggiungono la quota produttiva giornaliera assegnata.
• Il lavoro straordinario è richiesto frequentemente ma non viene retribuito. Normalmente si lavora 4 ore in più nel turno diurno e un’ora in più in quello notturno senza regolare compenso e con il divieto di timbrare il cartellino prima e dopo le ore straordinarie.
• Nel reparto spazzolatura, a causa delle dure condizioni di lavoro, il turnover del personale è altissimo: pochi lavoratori si fermano più di un mese. Quasi cento lavoratori lasciano il posto ogni mese perché non resistono agli abusi e alle vessazioni.
4. Assenza di lettere di assunzione
• Nessun dipendente ha mai ricevuto una lettera di assunzione, il suo rapporto di lavoro si basa sulle informazioni ricevute oralmente al momento della presa di servizio. Non sono forniti neppure i tesserini di riconoscimento. Anche le promozioni a supervisore avvengono senza incarico scritto.
5. Retribuzioni
• La paga giornaliera varia dalle 98 alle 104 rupie a seconda della categoria e della specializzazione, le categorie sono decise arbitrariamente dalla direzione.
• Ai lavoratori era stato promesso un aumento annuo di 115 rupie al momento dell’assunzione, ma ne hanno ricevute solo 105.
• Nei primi due o tre mesi i neoassunti sono pagati con assegno, ma poiché quasi sempre non posseggono un conto bancario, cadono vittime dei cambia valute che li aspettano fuori dalla fabbrica il giorno di paga per scontare gli assegni lucrando sulle commissioni.
• I lavoratori sono costretti ad apporre le proprie firme in calce a fogli in bianco o a moduli ufficiali che potranno servire a dimostrare la corresponsione di compensi non percepiti.
6. Riposi settimanali
• Spesso è richiesto di lavorare anche di domenica, che è il giorno di riposo settimanale. Chi prende due o tre giorni di permesso continuativi rischia il licenziamento in tronco.
7. Atmosfera militaresca
• Durante le ore di lavoro è vietato parlare, lo scambio anche di una sola parola può comportare provvedimenti punitivi.
• Quando c’è molto lavoro, la pausa pranzo è ridotta a meno di 30 minuti. Non sono accordate pause per bere il tè.
• I bagni sono chiusi a chiave e i lavoratori non ne possono disporre liberamente.
8. Misure di sicurezza inadeguate
• Gli addetti al reparto lavaggio maneggiano quotidianamente acidi, soda caustica, spazzole metalliche, ma hanno a disposizione solo mascherine, e nessuno degli altri presidi come gli occhiali, le scarpe di sicurezza, ecc. Nel reparto spazzolatura, le mascherine sono fornite ogni settimana ma restano inutilizzate perché sono scomode e di pessima qualità. Le sostanze chimiche impiegate provocano infezioni e irritazioni cutanee. Mancano del tutto i guanti e gli altri presidi di sicurezza, che sono forniti solo in occasione delle visite ispettive disposte dalle imprese committenti. La mancanza di precauzioni nel trattare le sostanze chimiche nocive è la causa probabile dei disturbi che affliggono un elevate numero di lavoratori.
• C’è un medico di fabbrica, ma non parla il dialetto locale, e non è in grado di comunicare con i lavoratori. I suoi interventi risultano inoltre scarsamente efficaci.
9. Assistenza sanitaria e pensionistica
• Ogni mese dal salario sono dedotti i contributi sanitari e pensionistici, ma la percentuale applicata varia di mese in mese. I lavoratori non hanno la certezza che i contributi vengano versati dal momento che non hanno mai ricevuto una lettera di assunzione. Per le cure mediche esiste un ospedale, ma è praticamente inaccessibile perché è molto lontano dalla fabbrica.
10. Welfare
• Il salario è appena sufficiente a far fronte alle esigenze primarie proprie e della famiglia. La maggior parte dei lavoratori non è sposata e condivide un alloggio con altri compagni di lavoro, ma con i pochi guadagni non può permettersi di inviare soldi ai genitori rimasti in campagna. Inoltre i ritmi coatti non consentono di avere tempo libero da dedicare ad attività ricreative o di socialità.
11. Meccanismi per la raccolta e il trattamento dei reclami dei lavoratori
• C’è un incaricato alla raccolta delle segnalazioni dei lavoratori, ma nessuno l’ha mai visto. A detta dei lavoratori, il proprietario dell’azienda vive in Italia e solo a pochi è capitato di vederlo. Hanno sentore che l’ispettorato del lavoro stia per disporre una visita alla fabbrica, ma non sanno se e quando questa avrà luogo né hanno mai avuto occasione di incontrare un ispettore.
Le richieste dei lavoratori
I lavoratori chiedono di poter lavorare con dignità e nel rispetto dei loro diritti, e con retribuzioni sufficienti per condurre una vita dignitosa. In particolare chiedono:
• La fine delle violenze, dei soprusi e dello sfruttamento.
• La riduzione dei ritmi produttivi a livelli umanamente accettabili e una precisa programmazione del lavoro. Gli straordinari devono essere retribuiti.
• La fine dei licenziamenti arbitrari. Devono essere messe in atto procedure che consentano ai lavoratori di difendersi.
• L’emissione delle lettere di assunzione nelle quali siano chiaramente specificati i termini del rapporto di lavoro.
• La libertà di organizzazione sindacale all’interno della fabbrica, l’unica misura che garantisca la risoluzione duratura dei problemi, poiché alle organizzazioni sindacali è conferito il diritto di negoziare migliori condizioni di lavoro con la direzione.
• La fine di ogni forma di abuso verbale e fisico nei confronti sia dei lavoratori sia dei supervisori.
(2007) Jeans sporchi per Armani e RaRe
Le fasi di lavorazione dei jeans sono particolarmente dure e nocive: alla FFI/JKPL i jeans non vengono solo tagliati e cuciti, ma anche stinti col lavaggio, o macchiati, spazzolati, e adeguatamente “danneggiati” per conferirgli l’aspetto vissuto molto in voga. I ritmi produttivi sono elevati e mantenuti con sistematica violenza, al punto che negli ultimi tempi almeno cento persone, nel solo reparto lavaggio, lasciano volontariamente il lavoro ogni mese, incapaci di subire oltre percosse e maltrattamenti. La perdita della dignità, avvertita come una condizione intollerabile, ha spinto i lavoratori a venire allo scoperto e a cercare aiuto presso il sindacato e le organizzazioni di base.
Alla FFI/JKPL il personale è ingaggiato senza lettera di assunzione, gli straordinari non vengono pagati, chi non tiene il passo con i ritmi produttivi sempre crescenti viene licenziato in tronco, le norme di sicurezza non sono rispettate. Ma soprattutto ai lavoratori è vietato organizzarsi per difendere i propri diritti e raccontare all’esterno ciò che avviene nella fabbrica.
Il tentativo del Sindacato dei lavoratori del tessile-abbigliamento (Garment and textile workers’ union, GATWU) di incontrare la direzione della FFI/JKPL va a vuoto e spinge le organizzazione di base a costituire un Comitato di inchiesta (Fact-finding team) con lo scopo di accertare la veridicità delle denunce fatte dai lavoratori e dare forza alle loro richieste. Un rapporto sulle violazioni rilevate, steso dal Comitato fra l’aprile e l’agosto 2006, viene inviato alla direzione della FFI/JKPL e alle imprese committenti, alcune delle quali fanno svolgere delle ispezioni da auditor esterni (senza per altro coinvolgere le organizzazioni locali), che confermano nella sostanza gli abusi denunciati comprese le molestie fisiche e verbali. Solo a questo punto, e dopo aver ricevuto pressioni da parte di alcuni dei principali clienti e della Clean clothes campaign, la direzione accetta, il 9 giugno e il 3 luglio 2006, di incontrare il GATWU e le organizzazioni di base per discutere dei risultati dell’indagine, senza però voler incontrare i lavoratori e negando le contestazioni. Alla fine di luglio tutte le organizzazione indiane coinvolte nel caso: Garment and textile workers’ union (GATWU), Women garment workers front (Munnade), Civil initiatives for development and peace (CIVIDEP), New trade union initiative (NTUI) e la Clean clothes campaign Task force in India sono raggiunte da un’ingiunzione del tribunale civile di Bangalore, emessa su richiesta della direzione della FFI/JKPL, che vieta la diffusione di informazioni sulle condizioni di lavoro all’interno della fabbrica con l’accusa di diffamazione e danno di immagine. Il bavaglio imposto dal giudice, che non è stato ancora revocato malgrado si siano già svolte un paio di udienze a dicembre, ha di fatto interrotto il canale di comunicazione esistente fra la campagna internazionale e le organizzazioni sindacali e non governative locali, alle quali non è più possibile fornire notizie sugli sviluppi del caso. Le iniziative pubbliche precedenti al blackout hanno avuto almeno il risultato, secondo quanto accertato dal Comitato di inchiesta, di far cessare i maltrattamenti e il furto degli straordinari, benché ancora tutto o quasi resti da fare.
A fine novembre 2006 la Clean clothes campaign ha inoltrato un reclamo al Social accountability international (SAI), l’organismo di certificazione che presiede al sistema SA8000 sul rispetto dei diritti dei lavoratori, dopo aver scoperto che quattro dei cinque stabilimenti della FFI/JKPL hanno ricevuto la certificazione SA8000 mentre l’ultimo sta completando l’iter. La contestazione mossa dalla CCC si basa sul fatto che le consultazioni con il sindacato locale con le quali SAI afferma di voler concludere la fase istruttoria sono seriamente compromesse dal provvedimento restrittivo della libertà di informazione emesso dal tribunale, che costituisce un grave impedimento all’instaurarsi di un dialogo costruttivo fra le parti dal quale possa scaturire un piano correttivo efficace.
L’11 gennaio scorso il segretariato europeo della Clean clothes campaign e L’India committee of the Netherlands hanno ricevuto dalla FFI/JKPL, attraverso uno studio legale di Bangalore, l’intimazione a cancellare dal sito tutto il materiale pubblicato sul caso sotto la minaccia di una causa legale per diffamazione. La lettera, che non ha alcun valore legale, sta solo a indicare la determinazione della FFI/JKPL di non confrontarsi con le controparti locali per trovare una soluzione ai problemi denunciati dai propri dipendenti, che per altro non hanno mai voluto incontrare. La CCC e l’ICN hanno risposto proponendo una trattativa mediata da una terza parte e l’avvio di un processo correttivo in collaborazione con il GATWU e le organizzazioni locali.
Le richieste alle imprese committenti
- Ritiro da parte di FFI/JPKL della denuncia all’origine del provvedimento restrittivo della libertà di informazione emesso dal tribunale di Bangalore nei confronti delle organizzazioni di base locali.
- Impegno di FFI/JPKL a riprendere il dialogo interrotto con GATWU, NTUI e Women garment workers front “Munnade” in rappresentanze delle organizzazioni di base.
- Sviluppo e attuazione da parte di FFI/JPKL di un piano di interventi correttivi in collaborazione con GATWU e gli altri partner locali sulla base delle richieste già presentate alla società e alle imprese committenti.
- Coinvolgimento degli stakeholder locali nelle ispezioni effettuate da terzi e in ogni altra iniziativa avente per obiettivo la risoluzione dei problemi rilevati.
- Miglioramento delle procedure attraverso le quali sia possibile ai lavoratori segnalare anonimamente situazioni di non rispetto delle normative appoggiandosi a organizzazioni che godano della loro fiducia.
- Predisposizione di misure idonee affinché ai lavoratori sia consentito esercitare il loro diritto alla libertà di associazione e alla contrattazione collettiva.
La risposta delle imprese committenti
- G-Star: è il principale cliente di FFI/JPKL. L’azienda non ha mostrato disponibilità al dialogo né a intraprendere iniziative concrete nei confronti di FFI/JPKL. Gli incontri fra la CCC olandese, l’ICN, e l’azienda non hanno avuto esiti concreti, per questo motivo la CCC e l’ICN hanno presentato un ricorso al Punto di contatto nazionale dell’OCSE in Olanda per violazione delle linee guida dell’OCSE sulle imprese multinazionali. Il ricorso è stato accettato il 6 dicembre 2006.
- Mexx: ha dichiarato di volersi impegnare per arrivare a una trattativa con le varie parti in causa finalizzata a definire misure correttive, e a questo fine riconosce la necessità della revoca del provvedimento restrittivo emesso dal tribunale di Bangalore. Nel contempo ha deciso di aderire alla Fair wear foundation (iniziativa multistakeholder promossa dalla Clean clothes campaign olandese).
- Ann Taylor: si è mantenuta fin dall’inizio in comunicazione con FFI/JKPL per ricercare soluzioni correttive. Ha fatto svolgere due ispezioni da due diversi enti di certificazione, con interviste ai lavoratori, ma non ha ascoltato le organizzazioni locali. Ritiene che vi siano stati in seguito dei tangibili miglioramenti alla FFI/JKPL, giudizio che sarebbe condiviso dai lavoratori che sono stati intervistati. Non ha però preteso il ritiro preventivo del provvedimento restrittivo del tribunale e non ha reso pubblici i risultati delle ispezioni e le decisioni concordate, rendendo di fatto impossibile valutare la qualità del suo intervento.
- Gap: ha collocato nuovi ordini alla FFI quando il provvedimento del tribunale era già in vigore e con la campagna di pressione pubblica in atto. Ha poi corretto il tiro, su richiesta della CCC, invitando la direzione della FFI a ritirare la denuncia che ha costretto le organizzazioni locali al silenzio, ma senza ottenere risultati.
- Tommy Hilfiger: non è più committente di FFI/JKPL ma lo era al tempo in cui sono stati rilevati gli abusi. Ha scritto a FFI/JKPL contestando il ricorso alle vie legali e dichiarando di non essere disponibile a eventuali future collaborazioni in assenza di soluzioni concrete alle questioni sollevate dalla CCC.
- Guess: dichiara di aver effettuato un ordine di prova e di non essere un cliente abituale di FFI/JKPL. Non ha dato seguito all’impegno di informare la CCC sui propri orientamenti in merito alle richieste avanzate.
L'azienda italiana RARE non ha dato alcuna risposta alle lettere inviate dalla Clean clothes campaign; ARMANI ha inviato una lettera ufficiale in seguito alla pubblicazione del caso su CARTA.
(2007) Al via nuova iniziativa di RSI
Al via una nuova iniziativa di RSI firmata dai grandi distributori globali
Riflessione sui limite degli strumenti volontari di controllo
a cura di Deborah Lucchetti Campagna Abiti Puliti
GIUGNO 2007 - Forse dipenderà dalle recenti notizie apparse in Gran Bretagna, che hanno fatto luce su imprese che producevano per Tesco in Bangladesh impiegando lavoro minorile, e che Tesco non sapeva di avere tra i suoi fornitori. Eppure Tesco è già membro dell’ETI (Etical Trade Initiative), organismo multistakeholder con sede in Gran Bretagna che richiede il monitoraggio indipendente di tutta la catena di fornitura, proprio per evitare questo tipo di abusi.
Il caso illustrato segna i limiti evidenti degli attuali strumenti volontari messi in piedi negli ultimi dieci anni per monitorare le condizioni di lavoro in tutti i segmenti della filiera produttiva.
E’ molto interessante a tal proposito, leggere con attenzione il recente studio indipendente pubblicato proprio dall'ETI (http://www.ethicaltrade.org/Z/lib/2006/09/impact-report/index.shtml) con l’obiettivo di fare una valutazione dell’impatto dei codici di condotta su 25 casi concreti. I risultati mettono in luce una serie di problemi gravi che i codici non sono, di fatto, riusciti ad affrontare e risolvere. Parliamo di libertà di associazione sindacale, per cui non si registra un effettivo aumento di sindacalizzazione dentro le imprese e nemmeno l’avvio di un processo reale di contrattazione collettiva (come sancito dalle convenzioni ILO 87 e 98); nemmeno il salario vivibile è mai raggiunto, visto che si riscontrano al massimo miglioramenti verso il salario minimo legale che sappiamo essere insufficiente per poter garantire una vita dignitosa ai lavoratori e alle loro famiglie. Le donne continuano ad essere discriminate, sia nell’accesso al lavoro, sia nella possibilità di avere possibilità di formazione e avanzamento mentre aumenta in generale la precarietà e la flessibilità del mercato del lavoro, sempre più ricco di manodopera informale e migrante.
In ultimo, e tra i punti aperti più importanti, i grandi marchi e distributori insistono nell’esercitare pratiche di acquisto predatorie, che mirano a ridurre i prezzi, accorciare i tempi di produzione e ridurre gli stock, ostacolando di fatto la possibilità dei fornitori di destinare maggiori risorse agli aumenti salariali e al miglioramento generale delle condizioni.
Altri aspetti critici interessanti che emergono dall'esperienza accumulata negli ultimi dieci anni in materia di controllo volontario della catena di fornitura, riguardano proprio la proliferazione di standard, codici e sistemi di implementazione, audit inclusi.
Ecco perchè la nuova iniziativa che sta per essere lanciata, decisamente business-oriented, ha tutto il sapore amaro dell’ennesimo tentativo di facciata, di cui è difficile comprendere efficacia reale e motivazioni, se non quella di mettere sul mercato un nuovo strumento di tutela dell’immagine e di public relations.
Le stesse imprese fornitrici denunciano la fatica di essere sottoposte a audit diversi, che richiedono una mole di dati differenziati da fornire a eserciti di ispettori provenienti dalle più disparate iniziative. Secondo quanto dichiarato recentemente da Neil Kerney, leader dell’ITGLWF (sindacato internazionale dei tessili) sul Finacial Times, “ le imprese hanno speso milioni di dollari in codici di condotta e audit e il maggiore risultato è stato quello di creare un esercito di frodatori”. Del resto anche il rapporto inchiesta della Clean Clothes Campaign - Looking for a quick fix (http://www.cleanclothes.org/pub-archive.htm) aveva messo in luce la debolezza degli audit sociali, spesso basati su informazioni truccate provenienti dai registri ufficiali preparati ad hoc per gli ispettori di turno. Lavoratori debitamente istruiti per dire ciò che si conviene e che rischiano il posto se non sono obbedienti; registri falsi che riportano paghe regolari e orari nella media, sono spesso la faccia presentabile di realtà dove ben altre sono le condizioni di lavoro. Condizioni e abusi che emergono in tutta la loro nuda drammaticità solo quando alcuni lavoratori decidono di prendere parola e denunciare i fatti che poi diventano oggetto di qualche scoop giornalistico, che all’improvviso scuote le coscienze e fa vedere una realtà molto diversa da quella dipinta nei bilanci sociali.
Come è successo di recente alla Tesco in Gran Bretagna che, a seguito della pessima figura che ha fatto di fronte all’opinione pubblica, ha deciso di correre ai ripari unendosi a Wal Mart, Carrefour e Metro per battezzare la nascita della nuova iniziativa, che avrebbe l’obiettivo di unificare metodi e sistemi di controllo della catena di fornitura per migliorare le condizioni dei lavoratori di tutti i settori.
Sarebbe interessante chiedere ai big della grande distribuzione quali sono le loro intenzioni in merito ai contenuti dell’iniziativa e come pensano di modificare le loro note e vampiresche pratiche di acquisto, che costringono i fornitori a produrre a costi sempre più bassi per potergli permettere di stare sul mercato globale con masse crescenti di merci a prezzi stracciati. Tutto ciò ricorda alcune pubblicità di importanti marchi della distribuzione italiana che tappezzano i muri delle nostre città ove campeggia vittoriosa la scritta SOTTO COSTO; senz’altro una bella conquista per noi consumatori, almeno fino a quando non cominceremo a chiederci chi paga per tale beneficio.
Seguiremo con attenzione gli sviluppi della nuova iniziativa, ben sapendo che sono ormai condivisi anche tra le imprese seriamente intenzionate a efficaci pratiche di responsabilità, alcuni punti chiave dai quali partire per affrontare il fallimento delle misure volontarie nel migliorare sensibilmente le condizioni dei lavoratori; in particolare risulta ormai chiaro che occorre partire dalle cause strutturali che generano il mancato rispetto dei diritti (perdurare di pratiche di acquisto selvagge in testa ma anche il non coinvolgimento dei lavoratori quali principali stakeholders).
Infine, ed è forse il punto più importante e contrastato da un certo filone di pensiero molto mercatocentrico, occorre prendere atto che nessuna misura volontaria potrà essere realmente efficace senza l'intervento e il ruolo attivo e complementare dei governi e delle autorità pubbliche. Lo ha detto persino la Banca Mondiale quando ha affermato nel 2003 che "progressi di sistema non saranno raggiunti senza il coinvolgimento attivo dei governi"1 .
1 Strenghtening implementation of corporate social responsibility in global supply chains - The Worldbank Group, 2003
(2006) Sostieni la lotta dei lavoratori della A-One
Il caso A-One è ancora più urgente date le recenti proteste dei lavoratori avvenute in Bangladesh che hanno messo in luce la situazione disperata del settore tessile nel paese. Il caso mostra quanto la legge, le autorità locali e gli imprenditori stiano ostacolando il miglioramento delle condizioni di lavoro. Vi chiediamo di dedicare attenzione a questa storia e di entrare in azione, dalla parte dei lavoratori della A-One e dalla parte dei lavoratori del settore tessile in genere.
Vi descriviamo i fatti e la storia in dettaglio, convinti che questo caso emblematico serva a richiamare l’attenzione su tutte le imprese che si riforniscono in Bangladesh. Di fatto questo caso riguarda la libertà di associazione e l’efficacia della legge in Bangladesh.
Legittimi rappresentanti dei lavoratori, onestamente eletti secondo la legge, le regole e i regolamenti stabiliti dall’Autorità del Governo del Bangladesh e delle Zone Speciali per l’Esportazione (Government of Bangladesh and Export Processing Zone Authority - BEPZA), sono stati licenziati in maniera illegale. Se questo può accadere senza conseguenze, ciò comporta implicazioni gravi non solo per questo caso, ma per l’applicazione della legge in altri casi nelle EPZ e fuori dalle zone speciali E genera seri dubbi sulla credibilità dei codici di condotta delle imprese, che richiamano al pieno rispetto delle convezioni ILO sulla libertà di associazione, contrattazione collettiva e rappresentanza dei lavoratori
Chi è coinvolto?
Nel febbraio 2005 i lavoratori avevano eletto alla A-One un consiglio di fabbrica di 15 persone (Workers Representation and Welfare Committee - WRWC), com'era loro diritto secondo la legge vigente nella EPZ del Savar dal 2004. Il WRWC era stato approvato dalla Autorità della Export Processing Zone (BEPZA) il 4 aprile del 2005 e aveva portato in discussione alla direzione della A-One 13 punti da migliorare all’interno della fabbrica.
Il 18 agosto la direzione A-One aveva concordato su 12 delle 13 richieste sottoposte. Subito dopo le reali intenzioni dell’azienda sono divenute chiare. A metà settembre la A-One ha cominciato a licenziare illegalmente i lavoratori e i membri del comitato: il 10 settembre sono stati licenziati 47 lavoratori mentre 9 membri del WRWC ricevevano minacce di morte per forzarli a dare le dimissioni; l’11 settembre, sono stati licenziati altri 80 lavoratori e il 10 di ottobre ulteriori 119. L’azienda non aveva pagato quanto dovuto ai lavoratori licenziati.
All’inizio di Ottobre del 2005 il Consiglio di Fabbrica aveva chiesto alla Clean Clothes Campaign (CCC) di contattare le imprese e le autorità bengalesi, incluse Bepza e Bepzia (Bangladesh Export Processing Zone Investors Association). Il WRWC era sostenuto da due federazioni sindacali tessili bengalesi NGWF e BIGUF, dal Bangladesh Center for Worker Solidarity e dal Solidarity Center Bangladesh.
Le richieste formulate dai lavoratori erano le seguenti:
- reintegrare i 255 lavoratori con il pagamento degli arretrati
- cessare qualunque forma di intimidazione del WRWC e dei lavoratori che lo sostenevano
- investigare sulle minacce rivolte ai lavoratori da parte del personale della A-One
- riconoscere il consiglio di fabbrica e costituire un tavolo negoziale
La CCC aveva contattato le imprese committenti (buyers) della A-One: le imprese tedesche Tchibo e Miles, le imprese italiane Coin e Tessival e l’impresa olandese C&A. Tali imprese erano anche state contattate dall’American National Labor Committee (NLC) mentre il Solidarity center aveva contattato anche l’impresa statunitense Target (AMC). La CCC inoltre aveva scritto anche direttamente alla A-One, al Bepza, al Bepzia e a varie autorità governative. Anche il WRWC aveva scritto lettere a tutti i buyer, alla direzione A-One e al Bepza, che rifiutarono di incontrarli.
Da allora le CCC tedesca, italiana e olandese con il segretariato internazionale, insieme ad altri gruppi, sono stati costantemente in contatto con le diverse imprese coinvolte; si sono tenuti diversi incontri tra la direzione della A-One, alcuni committenti, i lavoratori i sindacati locali e internazionale (ITGLWF). Sebbene alcune imprese, in particolare la Tchibo, abbiano fatto sforzi concreti e abbiano ufficialmente richiesto alla A-One di reintegrare tutti i lavoratori illegalmente licenziati o costretti alle dimissioni (mentre facevano presente che un rifiuto avrebbe avuto conseguenze negative per gli ordini futuri e invece il reintegro avrebbe favorito la A-One come fornitore preferito), tali richieste fino ad oggi non sono state esaudite.
Le recenti proteste dei lavoratori in Bangladesh.
La CCC era in procinto di preparare una campagna pubblica sul caso A-one, quando sono giunte le informazioni sulle estese proteste in Bangladesh. La A-One era una delle imprese attaccata dai lavoratori, che hanno distrutto la mensa e parte dell’edificio. Vogliamo affermare con chiarezza che nonostante siano trascorsi molti mesi dal loro licenziamento illegale e nonostante loro abbiano subito molte minacce e azioni repressive, i lavoratori della A-One hanno sempre mantenuto un comportamento pacifico e costruttivo, pronti ad incontrare la direzione, i buyer e tutti gli altri soggetti in campo per fornire spiegazioni e fatti concreti. Questo comportamento è in aperto contrasto con quello della direzione A-One e delle autorità locali delle EPZ come emergerà chiaramente dal seguito di questa storia.
Il ruolo di Bepza e Bepzia
La CCC aveva contattato le autorità, BEPZA and BEPZIA, il 12 ottobre 2005. Il 31 ottobre il Bepza aveva spedito una lettera alla CCC negando l’esistenza di licenziamenti illegali e dichiarando che il lavoratori erano stati “aggressivi” e “indisciplinati”, che avevano fatto scioperi illegali e perciò erano stati licenziati. Essi dichiaravano anche che i 15 membri del WRWC si erano dimessi volontariamente. Il Bepza asseriva inoltre che i problemi alla A-One “erano cominciati in seguito alle agitazioni dei lavoratori alla Ringshine Textile” e che “ il consiglio di fabbrica della Ringshine Textile era manovrato da ONG e sindacati per istigare i membri del consiglio di fabbrica della A-One”In quel caso Bepza aveva disconosciuto l'accordo legittimo, firmato dai committenti, dalla direzione aziendale e dai rappresentanti dei lavoratori eletti alla Ringshine.
Le imprese committenti che avevano contattato il Bepza e il Bepzia, su richiesta della CCC, avevano ricevuto una versione più estesa della stessa lettera.
Il Bepza sosteneva che il WRWC non aveva seguito le procedure e che i licenziamenti erano legali. In risposta alle loro accuse, il WRCW aveva spedito un report dettagliato ai committenti nel quale emergevano le prove di una repressione sistematica e anche i tentativi fatti dal consiglio di fabbrica di seguire le “procedure” che il Bepza teoricamente intendeva preservare.
Il Bepza inoltre ha costantemente sostenuto nei riguardi dei buyers e degli altri soggetti in campo che non c’erano le condizioni legali per riassumere i lavoratori poiché essi avevano accettato di dimettersi. Questo non è corretto: la A-One ha il diritto e la possibilità di negoziare con il WRWC e insieme possono accordarsi per il reintegro di tutti i lavoratori. Il Bepza può anche permettere e favorire tale processo.
Disgraziatamente i buyers committenti sempre attribuito grande affidabilità al Bepza e si sono convinti che era effettivamente in corso un processo legale credibile per gestire la vertenza, e hanno ripetutamente evitato di agire in prima persona.
La risposta delle imprese committenti.
In ottobre e novembre 2005 le CCC dei paesi coinvolti nel caso hanno contattato le relative imprese committenti. Quella che segue è una panoramica delle loro risposte.
La C&A ha contattato sia la A-One che il Bepza in ottobre e diverse altre volte, ma ha sempre rifiutato di fornire copie della corrispondenza per metterci nelle condizioni di valutare quanta pressione reale sia stata effettivamente esercitata.
Nelle sue comunicazioni alla CCC, la C&A ha sempre sostenuto che i suoi ordini erano indirizzati a due fornitori coreani con l’ultima consegna a luglio del 2005, e pertanto non aveva strumenti legali o contrattuali su cui far leva nei confronti della A-One. La CCC ha ripetutamente spiegato che le violazioni verso il Consiglio di fabbrica erano avvenute quando la C&A aveva ordini in corso con la A-one, richiamando il loro codice di condotta che si estende a tutta la filiera produttiva.
Tchibo ha fatto un accordo con la società di audit CSCC per condurre un’ispezione a Novembre 2005; gli ispettori avevano riportato dati preoccupanti e documentati circa il lavoro straordinario e i bassi salari.
In un incontro con la CCC tedesca nel dicembre 2005 Tchibo aveva annunciato che avrebbe assunto la società di consulenza Systain per svolgere indagini in Bangladesh in Dicembre e poi per organizzare una missione in gennaio.
La CCC aveva fornito tutti i contatti degli altri committenti europei, nella speranza che essi potessero cooperare per aumentare il livello di pressione.
Tra dicembre 2005 e marzo 2006, sono stati organizzati diversi incontri prima tra la Systain ( per conto di Tchibo e Miles), la A-One e i lavoratori. I committenti avevano suggerito “soluzioni” che non includevano il reintegro del WRWC, cosa chiaramente inaccettabile per i lavoratori. Alla fine, il 7 di marzo è stata firmata una dichiarazione di intesa da Tchibo e Miles insieme alla Systain, al Solidarity Center, l’ITGLWF (sindacato internazionale dei tessili) con il supporto dei sindacati locali e del WRWC.
La direzione A-One era presente all’incontro dove la dichiarazione di intesa fu elaborata, ma successivamente ha rifiutato di impegnarsi in quella direzione.
COIN/Oviesse è un distributore italiano che si approvvigionava principalmente attraverso l’impresa italiana Tessival. Tessival possiede anche propri marchi, come Herod e Greenland, con produzione affidata alla A-One. Dopo ripetute richieste a dicembre la COIN aveva finalmente incaricato il responsabile qualità di seguire il caso e Tessival aveva contattato la A-One, che aveva risposto che “tutto andava bene e i problemi erano risolti”. La Tessival in dicembre aveva prodotto un documento di ispezione coinvolgendo un proprio referente commerciale locale che puntava l’attenzione sui presunti disordini causati dai lavoratori (mentre ignorava i licenziamenti illegali) e che riprendeva molte delle precedenti dichiarazioni del Bepza. Da questo momento sia Tchibo che Miles (attraverso Systain) hanno confermato che violazioni molto serie e sostanziali erano in corso alla A-One, e alla Tessival fu richiesto di nuovo di cooperare. In febbraio anche Coin aveva dichiarato di avere richiesto alla Tessival maggiore impegno per risolvere il caso.
Il 22 di Febbraio l’American Solidarity Center ha spedito una e-mail a Target richiedendo di unirsi agli altri committenti in uno sforzo comune per implementare la dichiarazione di intesa del 7 Marzo. Target aveva dichiarato che non si era più rifornita dalla A-One e sebbene inizialmente sembrasse avere intenzione di coordinarsi con gli altri marchi, non c’è stato alcun seguito.
La cronologia allegata fornisce un resoconto dettagliato delle azioni intraprese dalle varie parti in campo:
Il ruolo della direzione A-One.
Le principali violazioni in questo caso riguardano la libertà di associazione sindacale, lunghi orari di lavoro e straordinario obbligatorio, salari minimi non rispettati e diverse altre violazioni della legge locale e dei codici di condotta.
L’ispezione commissionata da Tchibo, a novembre 2005 ha confermato quanto dichiarato dai lavoratori.
La direzione di A-One e il Bepza hanno continuato a dichiarare che i membri del WRWC si sono dimessi volontariamente, I membri del WRWC hanno invece sempre dichiarato che sono stati forzati a firmare sotto costrizione (in un caso sotto la minaccia di un coltello) e lo hanno dichiarato fin dall’inizio della denuncia, immediatamente dopo le loro dimissioni. Essi hanno anche fornito un documento dettagliato sulle repressioni sistematiche nella già menzionata lettera del 17 novembre. E’ altrettanto importante sottolineare che l’impresa non ha mai fornito prove che i lavoratori fossero stati licenziati per cause diverse da quella di essersi organizzati; infatti la lettera del Bepza (spedita anche a noi e ai committenti dalla stessa A-One) di ottobre rende tutto molto chiaro. Nuove assunzioni inoltre sono cominciate il 20 di novembre mentre il 25 dello stesso mese almeno altri 50 nuovi lavoratori erano stati licenziati.
L’unica comunicazione diretta che la CCC ha ricevuto dalla A-One è arrivata in dicembre, e consisteva nella copia della risposta inviata dal Bepza alla CCC. Quando i committenti hanno richiesto di fornire le prove dei pagamenti degli stipendi arretrati, la direzione di A-One non ha risposto.
In molte occasioni, la A-One ha fatto promesse poi mai mantenute, mentre i lavoratori hanno sempre fornito tutte le informazioni richieste, oltre a proposte ragionevoli e disponibilità all’accordo.
La situazione attuale
A seguito del rifiuto di A-One di attenersi alla dichiarazione di intesa del 7 marzo, il 7 aprile la Tchibo ha inviato la proposta di una “roadmap” indirizzata a tutte le parti sociali. Tale percorso include alcuni cambiamenti alla dichiarazione di intesa, come la richiesta di affidare l'indagine sulla effettiva illegalità dei licenziamenti del WRWC ad un comitato multilaterale.
Poiché i committenti coinvolti avevano già fatto svolto indagini in merito e avevano concluso che i membri del WRWC dovevano essere reintegrati, una nuova indaginesu questo produrrebbe ulteriori ritardi. Dopo averne discusso con i lavoratori avvenute il 21 di aprile, la CCC ha risposto a Tchibo in questo senso sollecitando invece l’insediamento di un comitato multilaterale per seguire gli sviluppi del caso, soprattutto per coinvolgere le altre imprese ancora inattive.
Tale comitato dovrebbe lavorare sulla successiva applicazione dell’accordo raggiunto il 7 marzo 2006 e monitorare il pagamento delle spettanze ancora pendenti dal settembre 2005.
Una lettera separata è stata spedita il 22 aprile a tutte le imprese collettivamente, richiamandole principalmente alla necessità di contattare Tchibo per formare un’alleanza comune per raggiungere l’accordo.
Durante la prima settimana di maggio, l’ITGLWF ha tentato di contattare la direzione di A-One e Tchibo (con Systain) per fissare un incontro, il tutto senza risultati. Nella seconda settimana di maggio, i lavoratori hanno dichiarato di avere perso ogni speranza e di sentirsi fortemente frustrati. A quella data, l’ultimo ordine di Tchibo era stato ultimato, mentre sono attualmente in produzione Herod e Greenland, marchi che appartengono alla Tessival.
Conclusioni.
Sebbene alcuni dei marchi, in particolare Tchibo, abbiano prodotto sforzi effettivi per tentare di trovare una soluzione, ciò è avvenuto solo dopo un lungo periodo (6 mesi) di inaccettabili ritardi, causati dal fatto che le imprese confidavano nel fatto che il Bepza seguisse il caso, nonostante nessuna delle procedure e degli organismi descritti nella legge delle EPZ per regolare le vertenze fosse operativa.
Le aziende con una seria politica di responsabilità sociale di impresa sanno molto bene che in Bangladesh le leggi che disciplinano il lavoro nelle EPZ sono disattese e che le persone incaricate della supervisione delle zone per l’esportazione sono le stesse che ne ostacolano da anni l’applicazione.
E' pur vero che i committenti hanno talvolta ignorato i fatti e questo e sono stati cosi ingenui da pensare che la legge funzionasse, ma le prove presentate nel corso del caso da sole erano sufficienti a far capire che queste autorità non erano e non sono attendibili.
Tchibo è giunta a questa conclusione intorno a gennaio, ma ha speso purtroppo altri due mesi a proporre una “soluzione” che mirava ad affrontare i problemi per l’intera EPZ (in cooperazione con il Bepza), ma senza includere il reintegro dei lavoratori del WRWC alla A-One!
La CCC sostiene fortemente l’avvio di un processo ad ampio raggio nelle EPZ per il miglioramento delle condizioni di lavoro e in particolare per il rispetto della libertà di associazione. Questo processo comunque dovrà includere un accordo accettabile per il caso A-One. Tale accordo non è complicato, in alcun modo irragionevole o insostenibile in questo momento: il caso Ringshine dimostra che può essere fatto. E nei fatti un fallimento dell’accordo sul caso A-ONE significherebbe negare in parte il successo dell’accordo Ringshine. I lavoratori riceverebbero il messaggio che la legge non li protegge e che al contrario rischiano di perdere il lavoro e subire pesanti intimidazioni, se tentano di esercitare i loro diritti.
Dopo le ultime settimane di protesta, che hanno avuto per conseguenza anche la distruzione della mensa della A-One, molte organizzazioni hanno richiesto alle autorità di investigare e affrontare le cause alla radice dei disordini.
Le cause sono da ricercare nella mancanza del rispetto dei diritti dei lavoratori a formare e iscriversi al sindacato liberamente e a leggere rappresentanze sindacali.
Il fallimento nell’implementazione della legge nelle EPZ, dei codici di condotta in maniera significativa quando si tratta di liberta di associazione, orario di lavoro e salari e la non volontà dei committenti ad agire concretamente, velocemente e collettivamente di fronte a vertenze serie come questa, sono considerarsi tra le cause primarie dei gravi disordini in corso.
AGITE IMMEDIATAMENTE
Contattate subito Coin, Tessival, C&A e Target per chiedere loro di:
- lavorare con Tchiboe Miles per applicare l’accordo raggiunto il 7 marzo 2006, incluso il reintegro di tutti i lavoratori licenziati e costretti alle dimissioni
- informare ufficialmente la A-One che il rifiuto di attenersi all’accordo avrà come esito la cessazione degli ordini attuali e futuri mentre il raggiungimento dell’accordo consentirà alla A-One di venire considerata prioritariamente nella lista dei fornitori
- assicurarsi che i lavoratori ricevano le spettanze pendenti dal settembre 2005
- contattare Bepza e Bepzia per chiedere che assicurino le condizioni per il raggiungimento di un accordo pacifico alla A-One e lavorino per la piena attuazione della legge in vigore dal 2004 nelle EPZ
- Invino copia delle comunicazioni alla CCC
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Nelle prossime settimane la CCC inviterà tutte le imprese che si riforniscono nelle EPZ del Bangladesh a contattare il Bepza e il Bepzia per chiedere loro di assicurare una soluzione per il caso A-One e il rispetto della legge. Le imprese dovrebbero anche agire attivamente per assicurare che i propri fornitori nelle zone rispettino la legge e permettano ai consigli di fabbrica di essere eletti e operare liberamente. Dovrebbero anche fare passi avanti per sostenere lo sviluppo di sane relazioni industriali.
Vi terremo informati sulle risposte delle imprese e se necessario vi chiederemo di mobilitarvi per sostenerci ancora.
CRONOLOGIA DEI FATTI
Febbraio 2005
Viene eletto alla A-One un consiglio di fabbrica (Workers Representation and Welfare Committee / WRWC) con 15 delegati.
4 aprile 2005
Il WRWC ottiene il riconoscimento dell’ente governativo responsabile delle zone per l’esportazione del Bangladesh (Bangladesh Export Processing Zone Authority / BEPZA)
4 luglio 2005
Il WRWC discute le sue richieste con la direzione aziendale.
18 agosto 2005
La direzione accetta di prendere provvedimenti in merito a 12 delle 13 richieste formulate dal WRWC.
10 settembre 2005
47 lavoratori vengono licenziati e 9 delegati del WRWC sono minacciati di morte per indurli alle dimissioni.
11 settembre 2005
80 lavoratori vengono licenziati.
1 ottobre 2005
Altri 119 lavoratori vengono licenziati.
Ottobre 2005 - diverse date
La Clean Clothes Campaign prende contatti con le imprese committenti della A-One.
12 ottobre 2005
La Clean Clothes Campaign prende contatti con BEPZA e BEPZIA
17 novembre 2005
Il WRWC scrive la sua urgente “richiesta ai rappresentanti delle imprese proprietarie dei marchi affinché intervengano per far cessare le violazioni delle norme del lavoro in essere nelle zone per l’esportazione e le violazioni dei [loro] codici di condotta e delle [loro] politiche di responsabilità sociale operate dal fornitore A-One”.
20 novembre 2005
Nuove assunzioni alla A-One.
? Novembre 2005
Un audit commissionato da Tchibo trova riscontri di abuso del lavoro straordinario e di bassi salari.
14 dicembre 2005
L’incontro con un rappresentante di Systain accende la speranza di una soluzione imminente fra i delegati del WRWC e i lavoratori licenziati. Ma è grande la delusione nell’apprendere che occorrerà aspettare fino alla terza settimana di gennaio quando la mancanza di denaro avrà impedito a tutti di far rientro a casa per l’Eid, la più importante festa musulmana dell’anno. Si lavora per venire a capo almeno delle questioni tecniche relative alle spettanze da riscuotere: arretrati salariali, indennità di licenziamento, premi, liquidazioni dal fondo di previdenza (istituito solo nel novembre 2005 pur essendo obbligatorio per le aziende insediate nelle EPZ), e poterle comunicare a Systain/Tchibo.
28 dicembre 2005
I lavoratori inviano a Tchibo l’elenco delle persone che sono state licenziate o si sono “dimesse volontariamente” con un calcolo dettagliato dei compensi dovuti e una serie precisa di richieste:
- pagamento delle retribuzioni maturate da settembre 2005, gratifiche per le festività;
- riconoscimento a tutti i lavoratori licenziati delle gratifiche per festività;
- nessuno deve essere indotto a sottoscrivere una lettera di licenziamento in cambio dei compensi a cui ha diritto;
- le somme dovute devono essere corrisposte entro gennaio 2006, e comunque prima dell’inizio della festa dell’Eid
30 dicembre 2005
I lavoratori formulano delle ipotesi di accordo elaborate sulla scorta dell’esperienza sulla composizione delle vertenze maturata nel caso Ringshine, procedure per le future relazioni fra il WRWC e la A-One, procedure per la presentazione di denunce da parte dei lavoratori, procedure per l’applicazione dei provvedimenti disciplinari.
6 gennaio 2006
Tchibo propone un accordo finalizzato solo al pagamento della gratifica per l’Eid rinviando a data da destinarsi il resto delle questioni aperte, proposta che non incontra il favore dei lavoratori, restii ad accettare soluzioni temporanee senza precise garanzie sul futuro delle trattative. Ciò è anche dovuto al fatto che Tchibo valuta in maniera diversa i dati sui salari, basati sui minimi dichiarati dal BEPZA, piuttosto che su quelli effettivamente corrisposti
8 gennaio 2006
Si svolge un incontro fra la direzione di A-One, Miles, la BEPZA e il Solidarity Center, nel corso del quale A-One rifiuta inizialmente di riassumere i lavoratori licenziati. Accetta infine il ritorno di “alcuni” ma non tutti, e di pagare per gli altri i compensi dovuti. Per un’organizzazione sindacale si tratta di un’ipotesi selettiva inaccettabile e che potrebbe stare in piedi solo nell’eventualità che la direzione producesse per i lavoratori destinati all’espulsione prove credibili di gravi inadempienze compiute, punibili con il licenziamento, e provvedesse a saldare le loro spettanze nel modo più corretto e completo.
23 e 25 gennaio 2006
Le parti si erano accordate per tenere un “incontro tecnico” nella terza settimana di gennaio alla presenza di un delegato del WRWC allo scopo di valutare la congruità delle somme corrisposte ai lavoratori licenziati. In caso di difformità, A-One si era impegnata a liquidare per intero il dovuto. I lavoratori chiariscono che non rinunciano con questo a rivendicare il diritto ad essere reintegrati. Se ciò avverrà, restituiranno alla A-One tutte le indennità percepite. Si svolgono due incontri nel corso dei quali la direzione della A-One rifiuta di fornire le informazioni richieste.
16 febbraio 2006
Tchibo, Miles e Systain presentano ai lavoratori due alternative (una con previsione di reintegro, l’altra senza) chiedendo il loro parere su quale proporre alla direzione della A-One e manifestando nuovamente il timore di una chiusura imminente.
20 febbraio 2006
I lavoratori ribadiscono che non intendono scostarsi dalle loro richieste: reintegro nel posto di lavoro, spettanze dovute a partire dal giorno del licenziamento, attuazione delle ipotesi di accordo presentate in dicembre, che contengono indicazioni per migliorare le relazioni industriali e la formazione.
22 febbraio 2006
Tchibo comunica a A-One la risposta dei lavoratori e invia copia della lettera alla Clean Clothes Campaign. Tessival invia una comunicazione analoga, C&A assicura di averlo fatto a sua volta, ma rifiuta di fornire copia della lettera alla CCC, rendendo così difficile accertarne il tenore. Target (AMC) si sottrae al confronto malgrado i tentativi fatti dal Solidarity Center di stabilire un contatto con l’azienda.
7 marzo 2006
Viene stesa una dichiarazione di intenti al termine di un incontro fra Systain, Solidarity Center, direzione di A-One e ITGLWF (sindacato internazionale dei lavoratori del tessile-abbigliamento) sottoscritta da tutte le parti ad esclusione di A-One, il cui rappresentante si riserva una valutazione nel consiglio di amministrazione. Il documento definisce i parametri negoziali (non è un accordo). A-One si impegna anche a corrispondere a 74 lavoratori le retribuzioni del mese di settembre e le indennità nel frattempo maturate. Questi lavoratori non erano stati liquidati a tempo debito poiché A-One pretendeva che sottoscrivessero una lettera “liberatoria”. Systain e il coordinatore dell’ufficio legale del Solidarity Center si propongono come osservatori per monitorare fisicamente l’effettuazione dei pagamenti. La data fissata e’ il 15 marzo.
15 marzo 2006
La direzione della A-One cerca di indurre i lavoratori che si presentano per riscuotere le spettanze ad accettare di essere liquidati per dimissioni anziché ricevere il trattamento economico previsto dalla legge e dalle norme prescritte dalla BEPZA. Accettare questa forma di pagamento equivarrebbe a una manifestazione di consenso al licenziamento, proprio ciò che i lavoratori non vogliono. La direzione aziendale non risponde a Tchibo/Miles a proposito della dichiarazione di intenti.
Primi di aprile 2006
Systain riferisce che la direzione di A-One rifiuta di reintegrare i delegati del WRWC, mostrandosi disposta a correre il rischio di perdere le commesse di Tchibo e di Miles. Systain comunica ancora una volta ai sindacati e ai gruppi in campo che raccomanda la riassunzione per tutti i lavoratori sindacalizzati ma non per i delegati del WRWC.
5 aprile 2006
Il Solidarity Center ribadisce nuovamente la volontà dei lavoratori di tener fede alle loro richieste e per i delegati del WRWC, una volta reintegrati, di restituire l’indennità di licenziamento che hanno accettato in stato di costrizione.
7 aprile 2006
Tchibo diffonde a tutte le parti in causa una proposta di “roadmap”.
21 aprile 2006
La CCC replica a Tchibo che nella fase attuale un’ulteriore indagine per accertare se i delegati del WRWC siano stati allontanati in modo legale o illegale sarebbe improduttiva.
22 aprile 2006
Lettera della CCC a tutte le imprese committenti per invitarle a contattare Tchibo e a formare insieme ad essa un’alleanza finalizzata ad ottenere gli obiettivi perseguiti dai lavoratori. Le si sollecita a rivolgersi a BEPZA e BEPZIA per manifestare preoccupazioni a tale proposito, e a sollevare il caso della A-One in seno al MFA Forum.
27 aprile 2006
Le organizzazioni sindacali inviano una lettera alla Banca Mondiale, con copia a varie ambasciate e altri organismi internazionali, per sollecitare un intervento in favore della risoluzione della vertenza.
(2006) Fabbriche recuperate in Argentina: l'avventura italiana di CUC e Textiles Pigué
di Ersilia Monti
MAGGIO 2006 - La disoccupazione balza dal 6 al 24% e su 40 milioni di abitanti, 20 milioni precipitano sotto la soglia di povertà. I proprietari si indebitano e gli investitori finanziari trovano uno sbocco lucroso nella legge sulla parità di cambio fra peso e dollaro, i capitali finiscono all’estero e le imprese, già minate dalla concorrenza internazionale, sono abbandonate a sé stesse.
Nel lungo elenco delle dismissioni finiscono alcune aziende fiore all’occhiello dell’industria argentina, come la Zanello, la più grande fabbrica di macchine agricole del paese, ritornata a nuova vita nel 2004 dopo essere stata rimessa in attività dalle maestranze. Oggi produce trattori, ma anche autobus, e ha firmato un accordo con il governo in base al quale in futuro potrà produrre anche automobili; i lavoratori guadagnano il 20-30% in più della media nel settore industriale. “Un economista ortodosso direbbe che è impossibile, ma i fatti sono qui a smentirlo”, dice José Abelli, presidente del MNER, il movimento nazionale delle imprese recuperate, che abbiamo incontrato a Milano il 26 aprile in una serata di conoscenza promossa dalla Cooperativa Chico Mendes.
Oggi le fabbriche autogestite sono oltre 200 e danno lavoro a 15 mila persone. Ci sono imprese metalmeccaniche, alimentari, tessili, di trasporti, giornali, e anche un albergo a cinque stelle. Una di queste è la ex Gatic, un tempo uno dei maggiori produttori argentini di tessile e calzature, licenziatario per l’Argentina e il Sud America di grandi marchi dello sport come Nike, Adidas, New Balance, Fila, Le Coq, e fornitore della nazionale di calcio. Nei suoi giorni migliori occupava 7 mila persone in 22 stabilimenti e 3 mila persone nella rete distributiva. Ma i debiti accumulati ed errori di gestione portano l’azienda sull’orlo del fallimento. Nel 2002 cessa la produzione e gli operai restano per mesi senza salario, ma senza perdersi d’animo prendo no contatti con il MNER, e fondano una prima cooperativa, la Cooperativa Unidos por el calzado (CUC), che produce calzature, e pochi mesi dopo la cooperativa Textiles Pigüé, il più grande e strategico degli impianti della Gatic, poiché fornisce la materia prima, tessuti e tomaie in cuoio, a tutti gli stabilimenti, entrambe hanno sede nella provincia di Buenos Aires. Dopo un tentativo di sgombero violento e una serie di traversie legali, la Textiles Pigüé, come la CUC prima di lei, ottiene il riconoscimento giuridico e l’affidamento degli impianti.
La battaglia si sposta ora sul fronte legislativo per colmare il vuoto esistente in materia di espropriazioni. Della ex Gatic restano oggi 8 fabbriche, 5 sono autogestite e occupano un migliaio di persone, 3 sono state acquistate dal fondo di investimento americano Leucadia, che ha tentato fino all’ultimo di strappare la Textiles Pigüé all’autogestione. Le decisioni più importanti si prendono in assemblea, se serve si lavora più di otto ore al giorno perché le fabbriche recuperate non hanno accesso al credito e le politiche pubbliche non sono favorevoli, ma contando sulla comprensione dei fornitori e la solidarietà dei cittadini, il lavoro finora non è mancato. Dal 2005 una linea di scarpe sportive della CUC arriva in Italia grazie alla rete del commercio equo e solidale argentino, nata dalla collaborazione con la cooperativa Chico Mendes nell’ambito del progetto “Argentina equa e solidale”. Le scarpe si vendono in due modelli base, in cuoio, nelle botteghe milanesi della cooperativa Chico Mendes (www.chicomendes.it).
Ma c’è un progetto più ambizioso, ai suoi primi passi, che fa ben sperare per il futuro. Si chiama CADI (cuoio argentino, disegno italiano) e nasce per impulso di José Abelli, dalla fiducia nelle grandi potenzialità del movimento cooperativo internazionale e dalla convinzione che per costruire un’economia diversa “bisogna partire dando lavoro là come qui”. L’idea è quella di mettere in collaborazione imprese recuperate italiane e argentine con il fine di arrivare a un prodotto finito che incorpori il meglio delle competenze tecniche di entrambi i paesi. La legge Marcora del 1985 ha permesso il recupero di 180 imprese italiane in fallimento, riconvertite in cooperative di lavoratori. Una di queste è la Gommus di Montecarotto, nella provincia di Ancona, che da vent’anni produce in autogestione suole in gomma e in termoplastica dando lavoro a 70 persone, con un ragguardevole carnet clienti di piccoli e grandi marchi. Il progetto CADI, nella sua prima fase, la coinvolge per la fornitura delle suole, che sono già partite alla volta dell’Argentina per entrare nel ciclo produttivo di Textiles Pigüé. Se il test avrà successo, il progetto prevede altre due fasi fino ad arrivare alla costruzione di una filiera partecipata vera e propria, che potrebbe coinvolgere altre cooperative italiane e argentine. E si stanno sondando possibilità di collaborazione anche in Brasile e in India.
Fabbriche recuperate di tutto il mondo unitevi? “Speriamo che arrivi presto il momento in cui non ci sarà più bisogno di recuperarle”, dice scherzando Girolamo Badiali, presidente di Gommus. Sì, perché reinventarsi imprenditori non è facile, ma i lavoratori delle fabbriche autogestite stanno dimostrando di avere stoffa da vendere.
(2006) Il controllo etico delle catene di fornitura
2006 - Il controllo della catena di fornitura in una fase di notevole delocalizzazione delle produzioni è il punto chiave e strategico su cui lavorare per garantire il rispetto dei diritti dei lavoratori e dell'ambiente. In questa ricerca prodotta dall'osservatorio Operandi e dall'Altis, un'interessante quadro riassuntivo dei principali punti problematici e degli strumenti più avanzati per intraprendere percorsi efficiaci di RSI. Tra le analisi e le proposte più avanzate viene citata quella della Campagna Abiti Puliti/Clean Clothes Campaign.