(2006) Il controllo etico delle catene di fornitura
2006 - Il controllo della catena di fornitura in una fase di notevole delocalizzazione delle produzioni è il punto chiave e strategico su cui lavorare per garantire il rispetto dei diritti dei lavoratori e dell'ambiente. In questa ricerca prodotta dall'osservatorio Operandi e dall'Altis, un'interessante quadro riassuntivo dei principali punti problematici e degli strumenti più avanzati per intraprendere percorsi efficiaci di RSI. Tra le analisi e le proposte più avanzate viene citata quella della Campagna Abiti Puliti/Clean Clothes Campaign.
(2006) REPORT- La condizione femminile nell'industria dell'abbigliamento in Turchia ed Est europeo
GENNAIO 2006 - Un'indagine basata su 256 interviste a lavoratrici in 55 fabbriche di subfornitura denuncia condizioni di lavoro di estremo sfruttamento in un settore cresciuto rapidamente negli anni '90 e che ora mostra segni di saturazione.
Leggi il documento con schede per paese
(2006) Risarcimento a rischio per i lavoratori
I lavoratori superstiti e le famiglie dei lavoratori deceduti l’11 aprile 2006 nel crollo della Spectrum-Shariyar, maglificio di Savar in Bangladesh, sono ancora in attesa di ricevere le indennità spettanti e il corrispettivo per gli straordinari svolti. Alcuni lavoratori feriti necessitano di nuove cure mediche. La produzione è ripresa al terzo piano della Shariyar, ma con sistemi di sicurezza praticamente inesistenti. Una delegazione della Clean Clothes Campaign, che ha visitato la fabbrica la prima settimana di dicembre, non vi ha trovato estintori, solo alcuni secchi di sabbia, e nessuna uscita di sicurezza. La Spectrum-Shariyar dava lavoro a 4 mila persone prima del crollo, oggi ne occupa solo 400; molti dei superstiti hanno trovato impiego altrove, ma cento restano disoccupati e senza fonte di reddito.
Una delle imprese committenti, la spagnola Inditex, ha proposto la creazione di un fondo di garanzia, approvato dalla Clean Clothes Campaign, destinato al risarcimento dei feriti e delle famiglie delle vittime, che prevede:
- Per le famiglie dei deceduti: salario completo dall’11 aprile 2005 fino alla data di corresponsione del risarcimento; una somma forfetaria calcolata in base al salario percepito dalla vittima e alla composizione del nucleo familiare; un vitalizio adeguato annualmente al tasso di inflazione.
- Per i feriti: salario completo dall’11 aprile 2005 fino alla data di corresponsione del risarcimento; una somma forfetaria calcolata in base all’età, alle ferite riportate e al salario percepito dalla vittima; una pensione, adeguata annualmente al tasso di inflazione, commisurata al grado e alla durata dell’inabilità al lavoro, al salario percepito, e alla composizione del nucleo familiare.
La Clean Clothes Campaign ritiene che la proposta formulata dalla società di consulenza KPMG per conto della Inditex rappresenti il risarcimento minimo accettabile per una tragedia di queste proporzioni. Nella terza settimana di dicembre rappresentanti della Inditex e della Federazione internazionale dei lavoratori del tessile-abbigliamento (ITGLWF) si sono recati in Bangladesh per definire con la parti interessate le fasi per la costituzione del fondo di garanzia. All’Associazione dei produttori e degli esportatori del Bangladesh (BGMEA) e al governo del paese spetta sviluppare politiche di prevenzione e di miglioramento delle condizioni di lavoro per tutto il settore.
Altre imprese committenti della Spectrum-Shahriyar, Scapino e Cotton Group, a cui si sono accodate in seguito Steilmann e la catena di distribuzione KarstadtQuelle (KQ), hanno comunicato alla Clean Clothes Campaign l’intenzione di non partecipare al fondo di garanzia e di voler procedere separatamente alla costituzione di un fondo di soccorso per far fronte alle necessità più urgenti dei lavoratori. La Clean Clothes Campaign ritiene inammissibile che si possa pensare di sostituire con un sollievo momentaneo misure predisposte per rispondere alle esigenze di lungo periodo dei lavoratori e delle famiglie delle vittime. Le organizzazioni sindacali del Bangladesh riferiscono di non essere state consultate dalle imprese sui loro nuovi progetti e insistono per la loro adesione al fondo di garanzia.
La Clean Clothes Campaign chiede a tutte le imprese committenti di dare prova della serietà dell’impegno a risarcire adeguatamente tutte le persone che hanno subito le conseguenze della terribile tragedia che ha colpito la Spectrum-Shariyar sostenendo la proposta del fondo di garanzia e dotandolo dei mezzi economici sufficienti a coprire lo stanziamento complessivo previsto.
Vi avevamo informato delle indagini in corso sulla presenza di aziende italiane fra i committenti della Spectrum-Shariyar. Abbiamo svolto un lavoro approfondito di concerto con il sindacato italiano e bengalese, incontrato i lavoratori della fabbrica. Ma le informazioni che abbiamo raccolto non si sono rivelate fino a questo momento sufficienti a provare con certezza il coinvolgimento delle aziende che ci sono state segnalate. Il nostro lavoro di indagine continua.
Inviate una mail alle imprese committenti della Spectrum-Sharyiar per chiedere loro di assumere un atteggiamento responsabile - link non più attivo.
(2005) 5.000 senza lavoro, le imprese tacciono
GIUGNO 2005 - Il quadro delle vittime della Spectrum si fa sempre più drammatico; 74 morti, più di 100 feriti, più di 5.000 lavoratori rimasti disoccupati. Le interviste condotte sul posto alle famiglie dei lavoratori deceduti, a quelli rimasti feriti e senza lavoro mettono in luce un quadro drammatico che evidenzia condizioni di lavoro totalmente al di fuori delle regole nazionali e internazionali.
Sono ormai due mesi che la fabbrica è crollata e molte delle famiglie dei sopravvissuti sono rimasti senza casa poiché privi di reddito per pagare affitto e cibo.
Questa situazione avrebbe potuto essere evitata se le imprese avessero agito in tempo. La Clean Clothes Campaign ritiene questo ritardo grave e ulteriormente dannoso ed è perciò giunto il momento di chiedere ai cittadini ed ai consumatori di fare pressione sui principali marchi implicati: Karstadt Quelle (Germania), Steillmann e società del gruppo (Germania), Scapino (Olanda),Cotton Group e B&C (Belgio), Carrefour (Francia) e Zara/Inditex (Spagna) così come sulla BSCI ( Business Social Compliance Initiative) organismo di controllo dell'applicazione dei codici di condotta cui molti dei brand appartengono.
Essi devono impegnarsi immediatamente e concretamente per il risarcimento economico delle vittime e per la revisione dell'efficacia dei propri codici di condotta nei confronti delle imprese tessili bengalesi
Inviate una lettera alla BSCI e alle imprese europee (non più attivo)
A livello italiano la Campagna Abiti Puliti insieme alle organizzazioni sindacali territoriali sta lavorando per ottenere un incontro congiunto con le imprese coinvolte cui sottoporre le richieste concordate a livello internazionale. Renderemo pubblici i nomi delle imprese e le loro reazioni nei prossimi giorni insieme alle possibili richieste di pressione urgente.
AGGIORNAMENTO DELLLE ATTIVITA’ E DELLE AZIONI IN CORSO
Il 12 maggio le organizzazioni sindacali bengalesi National Garment Workers Federation (NGWF) e Bangladesh Garment Independent Workers Federation (BGIWF) hanno organizzato azioni comuni di protesta davanti al tribunale dove era stata portata l’istanza di scarcerazione per i due proprietari arrestati. La richiesta è stata negata e ciò ha costituito una decisione storica per il movimento dei lavoratori bengalesi.
Il 27 maggio centinaia di lavoratori del tessile insieme ai loro compagni della Spectrum e alle loro famiglie hanno organizzato un sit-in davanti agli uffici della Spectrum/Shahriyar. I parenti delle vittime hanno denunciato l’insostenibile situazione economica per cui oggi non sono in grado di rispondere ai bisogni basilari. I dimostranti hanno chiesto il pagamento degli stipendi arretrati e degli straordinari per tutti i lavoratori e soprattutto chiedono che venga loro riconosciuto il livello di risarcimento previsto dal Fatal Accident Compensation Act del 1955 che stabilisce un valore più alto del Workers Compensation Act finora considerato per determinare gli importi.
Nelle prime due settimane di maggio una ricercatrice della Clean Clothes Campaign ha visitato il luogo del disastro per raccogliere interviste dai lavoratori, dati documentati relativi al crollo oltre alle risposte delle autorità bengalesi, dei proprietari dell’impresa e dei marchi committenti della Spectrum. Un report preliminare è già stato inviato alle imprese coinvolte e a breve sarà disponibile il documento ufficiale.
Dalle ricerca sul campo e dalle informazioni ricevute dai sindacati e dalle ONG locali, l’Associazione dei produttori e degli esportatori del Bangladesh (BGMEA) ha attualmente risarcito solo alcune delle famiglie colpite con 79.000 Taka che verranno integrate con altre 21.000 da parte del tribunale del lavoro, in accordo con quanto previsto per il risarcimento di incidenti gravi e non di incidenti mortali. E’ evidente che 100.000 Taka (1250 euro) non sono sufficienti per compensare la perdita di vite umane e le necessità di sussistenza delle famiglie. I sindacati locali e le ONG stanno attualmente lottando, anche attraverso azioni legali, per ottenere risarcimenti più alti, almeno pari ad un milione di Taka, per le famiglie dei deceduti, come sarebbe previsto dal Fatal Accident Act in casi come questo.
Il BGMEA e le autorità rifiutano di risarcire i lavoratori feriti, molti dei quali rimarranno handicappati a vita e senza più abilità lavorativa. A peggiorare le cose inoltre risulterebbe che in molti casi i lavoratori feriti non hanno ricevuto appropriate cure mediche o sono stati aggravati dei costi delle cure stesse. Dovrebbe invece essere predisposto un presidio medico gratuito per fornire a tutti le cure adeguate.
Il crollo della fabbrica ha prodotto più di 5000 disoccupati, molti dei quali aspettano ancora le retribuzioni dei mesi di febbraio, marzo e aprile del 2005, anche se probabilmente vi sono altri arretrati. Il loro rapporto di lavoro non è ufficialmente cessato e perciò gli stipendi devono essere corrisposti; in caso di cessazione dei contratti comunque, in accordo con le leggi vigenti, i lavoratori dovrebbero ricevere un preavviso di 4 mesi e venire liquidati con 4 mensilità più una per ogni anno lavorato; i lavoratori dovrebbero inoltre avere assistenza per essere ricollocati, visto che i proprietari della Spectrum continuano la loro attività produttiva in altre 9 imprese tutte operanti.
Per quanto riguarda le investigazioni trasparenti e indipendenti il BGMEA e il RAJUK (ente governativo) hanno completato i loro rapporti. Tutto sembra confermare l’ipotesi della costruzione difettosa e carente e dell’aggiunta illegale di 5 piani ma al momento nessuno dei report è stato reso pubblico
Il problema più grave oltretutto è che non c’è ancora una lista chiara e pubblica dei deceduti, degli scomparsi e dei sopravvissuti e ciò è inaccettabile perchè ostacola le pratiche per il risarcimento.
Insistiamo ancora sul fatto che deve essere costituito un autorevole organismo di indagine indipendente che individui la lista completa delle vittime, dei feriti, degli scomparsi e dei ricoverati, e che attivi le autorità competenti in merito.
Anche le imprese committenti coinvolte e la BSCI dovrebbero fare pressione sulla BGMEA e sulle autorità bengalesi affinchè esso venga istituito.
Rispetto alle questioni relative alla salute e alla sicurezza e alla proposta della Clean Clothes Campaign di istituire una programma di verifica delle condizioni di sicurezza includendo la revisione strutturale degli edifici a più piani e la possibilità per i lavoratori di dare voce alle preoccupazioni relative ai rischi per la salute, le risposte dei marchi e della BSCI devono ancora pervenire. La campagna internazionale sta facendo pressione perchè questo programma sia urgentemente attivato anche perchè la Spectrum non è l’unica azienda che è stata costruita su terreni paludosi. E’ inoltre necessario che venga costituito immediatamente un organismo tripartito permanente (governo,imprese e sindacati) che monitori l’avanzamento del programma.
Una delegazione della BSCI e alcuni membri delle imprese committenti (KarstadtQuelle, Inditex, The Cotton Group) oltre a membri del ITGLWF, partiranno la prossima settimana per una missione investigativa in Bangladesh, in grave ritardo rispetto alle nostre richieste.
Mentre la delegazione ha rivelato che intende incontrare i lavoratori e visitare il luogo del disastro, ha invece mantenuto segreti i risultati dell’inchiesta indipendente commissionata a un’agenzia di consulenza tedesca con sede in Bangladesh.
La delegazione ha in programma di incontrare ministri e partecipare all’incontro organizzato l’8 giugno dal GTZ (Ministero Tedesco di Assistenza allo Sviluppo). Sebbene la Clean Clothes Campaign sia stata originariamente informata che l’incontro, parte delle normali procedure proprie del codice di condotta di BSCI, sarebbe stato lo spazio di consultazione con gli stakeholders locali, adesso pare non sia nemmeno certo che la questione relativa alla gestione delle conseguenze della tragedia della Spectrum sia nell’agenda ufficiale.
Ciò è molto grave e rende la missione poco credibile; senza la consultazione dei sindacati che avevano iscritti tra i lavoratori della Spectrum e degli attivisti attualmente coinvolti nel sostegno dei lavoratori e nelle azioni legali, non è possibile avere un quadro attendibile dell’accaduto.
Per questo ci aspettiamo e chiediamo che la missione della BSCI vada ad incontrare direttamente le famiglie delle vittime ed i sopravvissuti per riconoscere ciò che è loro dovuto.
La Clean Clothes Campaign ha gia spedito una lettera alla BSCI il 24 maggio dove esprime il totale disappunto per la lentezza del processo e la poca trasparenza della missione che di fatto sta sviando l’attenzione dai fatti reali: nessuna azione è stata intrapresa per rispondere ai bisogni dei lavoratori offesi, delle loro famiglie e delle migliaia di lavoratori rimasti senza lavoro e stipendio. La BSCI non ha ancora risposto a questa lettera che potete leggere in inglese sul sito della Clean Clothes Campaign.
(2005) Crolla la Spectrum in Bangladesh
La tragedia che ha colpito la Spectrum Sweater Ltd e l’annessa Shahriar Fabrics Ltd è solo l’ultimo degli incidenti mortali frutto dell’inosservanza delle misure di sicurezza che fanno strage ogni anno in Bangladesh nelle fabbriche produttrici di abbigliamento e tessuti per l’esportazione (50 morti nel 2000 alla Choudury Knitwear, 24 morti nel 2001 alla Maico Sweater, 9 morti nel 2004 alla Misco Supermarket, 23 morti alla Shan Knitting nel 2005). L’edificio sorgeva su un terreno acquitrinoso ed era stato costruito sole tre anni fa in modo abusivo con tecniche e materiali inadatti a sostenere l’altezza della struttura e il carico di macchinari industriali. Testimoni riferiscono che sedici ore prima del crollo gli operai avevano dato l’allarme osservando delle crepe aprirsi nei muri ma erano stati invitati a riprendere il lavoro. Resta ancora da chiarire se il proprietario avesse un permesso per effettuare lavoro notturno, che veniva comunque svolto anche dalle donne in violazione della legge del lavoro del Bangladesh.
Varie fonti riferiscono di numerose altre violazioni della legge del lavoro:
- un operaio morto tre giorni prima del crollo per le ustioni riportate dal contatto con liquido fuoriuscito da un macchinario per tintura difettoso; un’operaia ridotta in fin di vita tre mesi prima dalle scariche prodotte dai fili scoperti dell’impianto elettrico;
- salari al di sotto del minimo legale: alla Spectrum si pagavano 700 Taka al mese (10 euro) contro i 930 di legge già di per sé al di sotto dei livelli di sussistenza;
- settimane lavorative di sette giorni senza il venerdì di riposo prescritto dalla legge.
Tutto questo è in netto contrasto sia con gli obblighi di vigilanza che fanno capo alle autorità locali sia con le procedure di verifica dell’applicazione dei codici di condotta di cui imprese come Zara, Carrefour, Karstadt Quelle e Cotton Group si sarebbero dotate.
Il proprietario della Spectrum Sweater e della Shahriar Fabrics, Shahriar Saeed, e il direttore della Spectrum Sweater, Altaf Fakir, si trovano attualmente in carcere in attesa che il giudice si pronunci sulla loro richiesta di rilascio su cauzione.
RICHIESTE ALLE IMPRESE COMMITTENTI
Una volte identificate le imprese proprietarie dei marchi, la Clean Clothes Campaign, in accordo con le organizzazioni partner e i sindacati in Bangladesh, ha rivolto loro le seguenti richieste:
1. Assistenza e risarcimento: sostegno alle operazioni di soccorso e di estrazione dalle macerie delle vittime e dei sopravvissuti; risarcimento alle famiglie delle vittime nell’ordine di 200.000 taka (circa 2.443 euro) e di 50.000 ai feriti oltre alle cure mediche; pagamento dei salari arretrati di marzo e aprile, e degli straordinari effettuati in febbraio, marzo, aprile; garanzia del posto di lavoro, salario e risarcimento inclusi, ai lavoratori sopravvissuti. Si chiede alle imprese di prendere contatto con le organizzazioni sindacali e umanitarie locali.
2. Indagini complete, indipendenti e trasparenti con il coinvolgimento di organizzazioni locali serie e autorevoli che esaminino le responsabilità del governo, delle associazioni di categoria locali e delle imprese committenti nel non aver impedito o posto rimedio alle violazioni delle leggi edilizie e del lavoro. Agli acquirenti europei della Spectrum Sweater che hanno codici di condotta completi di programmi di verifica a tutela del diritto alla salute e alla sicurezza sul lavoro si chiede di rendere pubblici i risultati delle ispezioni periodiche condotte sul posto. All’Associazione dei produttori ed esportatori di abbigliamento del Bangladesh (BGMEA) si chiede di rendere pubblici i rapporti ispettivi che attestano l’adesione della Spectrum Sweater al programma antincendio adottato dalla BGMEA. Deve essere stilata una lista completa delle vittime e i risultati delle indagini svolte devono essere resi di pubblico dominio.
3. Misure per la revisione della sicurezza degli edifici e per il rispetto delle norme di sicurezza sul lavoro: il crollo della Spectrum Sweater è solo l’ultimo di una lunga serie di eventi luttuosi nell’industria dell’abbigliamento del Bangladesh (50 morti nel 2000 alla Choudury Knitwear, 24 morti nel 2001 alla Maico Sweater, 9 morti nel 2004 alla Misco Supermarket, 23 morti alla Shan Knitting nel 2005). Occorre impedire che diventi luogo comune associare il sacrificio di vite umane alla produzione di capi di abbigliamento a basso costo per i mercati occidentali. Si chiede al settore industriale, in collaborazione con organismi pubblici nazionali e internazionali, di impegnarsi con urgenza a favore di un programma di prevenzione che comprenda una revisione radicale delle strutture che ospitano gli stabilimenti, specie quelli a più piani, e la revisione dei relativi meccanismi ispettivi. La Clean Clothes Campaign raccomanda la creazione di un comitato internazionale e indipendente di vigilanza con il compito di esaminare le norme di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro e la loro effettiva applicazione. Del comitato dovrebbero far parte esperti in ingegneria civile, salute e sicurezza, norme del lavoro. Oltre a occuparsi di questioni tecniche, il comitato dovrebbe attivare l’accesso a canali di comunicazione riservati e sicuri attraverso i quali sia possibile ai lavoratori far pervenire ai datori di lavoro segnalazioni inerenti a questioni cruciali come la salute e la sicurezza.
4. Dialogo con gli stakeholder locali (Bangladesh Independent Garment Workers’ Union Federation (BIGUF), Bangladesh Textile and Garment Workers League (BTGWL), National Garment Workers Federation (NGWF) e l’organizzazione Karmojibi Nari) su tutte le questioni aperte, compreso l’ammontare del risarcimento (alcune organizzazioni chiedono che l’importo sia innalzato a 1 milione di alle famiglie delle vittime).
5. Misure di prevenzione nell’area circostante: La Clean Clothes Campaign nutre il fondato timore che, a causa di difetti progettuali e costruttivi, corrano rischi di crollo altri stabilimenti nelle vicinanze della Spectrum Sweater, area storicamente soggetta a innondazioni. Chiede alle imprese che si riforniscono in questa e in altre aree a rischio di mettersi immediatamente in contatto con i propri fornitori per accertare che gli edifici siano sani, costruiti nella legalità e che ai lavoratori siano garantiti adeguati livelli di tutela.
LA RISPOSTA DELLE IMPRESE
Carrefour ha assunto inizialmente un atteggiamento di chiusura accettando alla fine di prendere contatto con due organizzazioni del Bangladesh con le quali aveva intrattenuto rapporti. Una di queste, Karmojibi Nari (organizzazione a difesa dei diritti delle donne), che è partner della Clean Clothes Campaign, riferisce però di non aver ricevuto finora alcuna comunicazione da parte di Carrefour. C’è inoltre da interrogarsi sulla serietà e sulla credibilità di ispezioni che Carrefour sostiene di aver svolto periodicamente con risultati soddisfacenti. Queste non solo non sono state in grado di cogliere segnali della tragedia incombente ma neppure di accertare la serie di violazioni dei diritti sindacali di cui abbiamo riferito. La spagnola Zara ha reagito prontamente offrendo sostegno alle operazioni di soccorso della Mezzaluna rossa e si è impegnata a mantenere aperto il dialogo con la Campagna spagnola pur non prendendo impegni concreti per il futuro. Alcuni marchi (la tedesca Neckermann e l’olandese Scapino) inviavano ordini attraverso la catena di distribuzione tedesca Karstadt Quelle. Queste tre imprese, insieme a Zara, alla belga Cotton Group e a Steillmann, aderiscono alla Business Social Compliance Initiative (BSCI), un organismo per il monitoraggio dei codici di condotta di recente formazione, che opera in rappresentanza di 40 distributori europei, il cui scopo è armonizzare le pratiche ispettive avvalendosi esclusivamente di società di certificazione accreditate da SA8000 e condividendo al proprio interno i risultati delle ispezioni. La cosa curiosa è che nessuna delle imprese coinvolte aderente a BSCI disponeva di informazioni sulle condizioni di lavoro alla Spectrum Sweater.
BSCI ha affidato a una piccola agenzia di consulenza tedesca con sede in Bangladesh il compito di svolgere un’indagine per suo conto e si è impegnata a inviare propri rappresentanti sul posto solo nel mese di giugno, a quasi due mesi dalla tragedia, mentre continua a non dare risposta alle tre richieste principali formulate dalla Clean Clothes Campaign insieme alle organizzazioni sindacali e umanitarie locali in merito ai soccorsi, al risarcimento e a un’indagine indipendente. Nel frattempo i lavoratori sopravvissuti della Spectrum Sweater e della Shahriar Fabrics sono senza lavoro, devono sostenere tutte le spese per cure mediche e non hanno ricevuto i salari e gli straordinari arretrati. L’Associazione dei produttori ed esportatori di abbigliamento del Bangladesh (BGMEA) ha versato 100 mila ad alcune famiglie delle vittime, una cifra notevolmente inferiore a quella richiesta dai sindacati, e rifiuta di risarcire i feriti. Carrefour e BGMEA hanno già svolto le loro indagini, ma non hanno reso pubblici i risultati.
Continuano intanto le proteste dei lavoratori a Dhaka con manifestazioni, catene umane e scioperi della fame per chiedere al governo di fare giustizia.
La Clean Clothes Campaign continuerà a seguire il caso in collaborazione con i suoi partner in Bangladesh e a mantenere alta la pressione sulle imprese europee.
Vi informeremo di ogni ulteriore sviluppo o di iniziative che richiedono il vostro sostegno.
(2005) Tunisia: un vicino di casa in crisi
MARZO 2005 - La Clean Clothes Campaign ha incontrato in Tunisia le organizzazioni sindacali e della società civile di uno dei maggiori paesi esportatori di abbigliamento dell'Unione Europea entrato in recessione dopo la fine dell'Accordo Multifibre.
(2004) REPORT - Olimpiadi: Gioca pulito alle Olimpiadi
GIUGNO 2004 - Le contraddizioni denunciate dalla campagna "Gioca pulito alle Olimpiadi" in un report che mette in evidenza il costo sociale di un avvenimento sportivo mondiale così importante e popolare. Dietro i successi e le medaglie dei nostri beniamini dello sport, si celano condizioni di lavoro ingiuste per migliaia di lavoratori che producono abbigliamento, scarpe e gadget per l'industria dello sport.
(2004) Benetton:un brutto calendario
23 giugno 2004 - Cosa si nasconde dietro agli stereotipi sui quali Benetton ha fondato il suo successo? Il carteggio fra Benetton e il Coordinamento Nord Sud del Mondo - un bell’esempio di campagna di pressione e controinformazione dal basso, secondo la definizione data nella rubrica “Il racconto del mese” dalla rivista Altreconomia - svela, dalla viva voce dei rispettivi protagonisti, i retroscena su temi quali la pace, la lotta alla fame, moralità e valore sociale, comunità locali, cultura.
Questa lettera è una risposta dettagliata e argomentata alla lettera del direttore della pubblicità del Gruppo Benetton, Paolo Landi che faceva seguito alla lettera spedita al direttore di Famiglia Cristiana don Antonio Sciortino in data 3.2.2004 motivata dall'inserimento di Benetton Group fra gli sponsor del calendario annuale, dedicato al tema della solidarietà, in virtù del suo impegno sociale.
Lettera Coordinamento Nord Sud
Replica Coordinamento Nord Sud
(2004) Filande e tessiture di cotone in Tamil Nadu - India
COME SI LAVORA NELLE FILANDE E TESSITURE DI COTONE CHE PRODUCONO PER L’ESPORTAZIONE
30 marzo 2004 - Una task force indiana, che riunisce 30 ong e 7 sigle sindacali, ha svolto indagini nelle filande e nelle tessiture di Vedasanthur, distretto di Dindigul, nel Tamil Nadu, che producono filato e tessuto di cotone per il mercato interno ma soprattutto per l’esportazione. Le informazioni raccolte dalle organizzazioni sindacali locali (CITU e altre) e le interviste condotte con i lavoratori da HOPE, una ong locale, compongono un quadro drammatico: salari al di sotto del minimo legale, violazione delle leggi sulla previdenza sociale, nessuna misura di igiene e sicurezza, negazione dei diritti sindacali, straordinari forzati, lavoro minorile.
Solo in 56 dei 167 impianti per la lavorazione del cotone nel distretto di Dindigul e’ tollerata la costituzione di sindacati. Licenziamenti, liste nere e in alcuni casi la violenza fisica sono gli strumenti di cui si servono i proprietari per impedire ai lavoratori di associarsi liberamente. Essi hanno ottenuto dalla corte distrettuale di Munsif Vedasanthur l’imposizione del divieto ai lavoratori di radunarsi per un raggio di 300 metri dagli stabilimenti. Lo scopo e’ impedire alle organizzazioni sindacali di avvicinare gli operai ai cancelli e organizzare assemblee per informarli dei loro diritti.
Si calcola che siano 950 i bambini al lavoro nell’industria del cotone di Dindigul. In alcune fabbriche, adulti e bambini vengono puniti o indotti a lavorare piu’ speditamente a colpi di bastone. Gli ambienti sono malsani, saturi di polvere di cotone, e l’uso di vecchi macchinari e’ responsabile di frequenti incidenti con tagli e talora con amputazione delle dita.
Il diritto alla previdenza sociale non e’ garantito: non sono versati i contributi pensionistici ne’ assicurativi, e non viene pagata l’aspettativa per maternita’. Chi lavora da piu’ di tre anni continua a essere classificato come lavoratore temporaneo. Le paghe sono al di sotto dei minimi legali e non consentono un’alimentazione sufficiente ne’ condizioni abitative dignitose.
SCRIVIAMO ALLE AUTORITA’ DEL TAMIL NADU (provate per email, se il messaggio torna indietro, provate alternativamente per fax o lettera) per chiedere il rispetto delle leggi, la riabilitazione dei bambini lavoratori, un incontro con la Clean Clothes Campaign Task force – Tamil Nadu e con i sindacati per definire un piano di intervento.
Scrivete nell'oggetto: Violations of workers’ rights in Vedasanthur.
Inviate copia alla Task Force: savelrc@vsnl.net
Dr. J. Jayalalithaa
Chief Minister of Tamil Nadu
Secretariat
St. George Fort
Chennai – 600 009
Fax : 91-44-2561441
E-mail: cmcell@tn.gov.in or cmcell@tn.nic.in
Mr. M.B. Pranesh, I.A.S
Principal Secretary
Labour & Employ. Dept
Secretariat
St. George Fort
Chennai – 600 009
Fax: 91- 44 – 25679739
E-mail: labsec@tn.gov.in
Mr. Senthil Kumar
The District Collector
Dindigul District
Dindigul
E-mail: collr@dindigul.tn.nic.in
Mr. Appukutti
President
Dindigul Spinners Association,
24 11th Cross Street
Thiruvalluvar Nagar
Spencer Compound
Dindigul -624 003
E-mail: dispa@rediffmail.com
Dear Sirs,
I would like to draw your attention to the critical situation of the workers of the cotton spinning mills in Vedasanthur, Dindigul, whose fundamental rights are regularly being violated. I call upon you to take action to see that steps are taken to improve conditions for workers in this sector.
I have been informed by the Clean Clothes Campaign (CCC) Task Force – > Tamil Nadu that violations of workers’ rights in Dindigul include:
- forced overtime
- violation of minimum wage legislation
- failure to pay legal benefits, including Employees State Insurance, provident fund benefits, holiday pay, and maternity benefits
- violation of health and safety standards in the workplace
- violation of the right to freedom of association (of the 167 cotton mills in Dindigul, only 56 mills allow trade unions).
I understand that workers are regularly denied their right to free association. Specifically, trade unions have been prohibited from
conducting gate meetings in front of the mills. Mill owners have obtained a stay from the Munsif Vedasanthur District Court to prevent
workers from assembling in front of the mill gate for a radius of 300 meters. I urge you to take action to lift this court order and ensure
that workers are able to exercise their right to free association.
I am also especially distressed to learn that an estimated 950 children are employed in the Dindigul cotton mills.
According to the CCC Task Force – Tamil Nadu, working conditions in these mills violate numerous laws, including:
- the Factories Act 1948
- The Equal Remuneration Act, 1976,
- The Trade Unions Act, 1926,
- The Minimum Wages Act, 1948,
- The Child Labour (Prohibition and Regulation) Act, 1986
- The Industrial Disputes Act, 1947,
- the Maternity Benefit Act, 1961,
- The Contract Labour (Regulation and Abolition) Act, 1970,
- The Industrial Employment Standing Order Act 1948,
- The Employees Provident Funds and Miscellaneous provisions Act, 1952, and the Payment of Bonus Act, 1965.
Regarding the denial of legal benefits, I request that you advise the appropriate authorities/departments to see that basic benefits (ESI,
Provident Fund, maternity benefits, etc.) are paid to workers.
These children should be rehabilitated and provided education further their parents must be supported under poverty alleviation schemes.
There are numerous short-term and long-term actions that should be taken to improve the overall working conditions in the textile spinning mills
in Dindigul district. I urge you to convene a meeting with the CCC Task Force – Tamil Nadu and relevant trade union and labor officials to
develop a follow-up plan for addressing these problems. I believe that you have an important role to play in developing a systematic approach
for investigating and following up on rights violations in textile facilities in Vedasanthur to ensure that good labor standards are met.
Thank you for your consideration and I hope that you will keep me informed of the steps you take to address these concerns.
Sincerely,
(nome, cognome, nazione, eventuale organizzazione di appartenenza)
(2004) Cambogia: sindacalista ucciso
Leader sindacale dei lavoratori dell'abbigliamento assassinato in Cambogia
(fonti: ICFTU, Reuters, BBC, Human Rights Watch, AP, AFP, Radio Free Asia e fonti locali) (In coda trovate il sunto di un recente studio della Cisl internazionale sull’industria dell’abbigliamento in Cambogia).
13 febbraio 2004 - Chea Vichea, 36 anni, leader del Sindacato libero dei lavoratori del regno di Cambogia (FTUWKC) e’ stato ucciso a colpi d’arma da fuoco il 22 gennaio scorso mentre leggeva il giornale in un chiosco affollato di Phnom Penh. Vichea era stato fra i fondatori del partito di opposizione di Sam Rainsy che aveva lasciato per dedicarsi completamente all’impegno sindacale in difesa dei lavoratori dell’industria dell’abbigliamento pur continuando a mantenere stretti legami col partito. La sua morte fa seguito a quella di altri tre membri dell’opposizione, assassinati nelle prime settimane di gennaio. Al suo funerale hanno partecipato 10 mila persone, forte la presenza delle operaie tessili. La Cisl internazionale ha presentato una denuncia all’Organizzazione internazionale del lavoro: Vichea aveva ricevuto numerose minacce di morte ed era riuscito in un’occasione a identificarne gli autori, malgrado cio’ non gli e’ stata concessa alcuna protezione.
Nell’aprile 2003 Vichea era stato licenziato insieme al segretario generale e a 30 iscritti al FTUWKC per aver svolto attivita’ sindacale all’interno della fabbrica di abbigliamento INSM nella provincia di Phnom Penh. Solo in un caso era riuscito a ottenere giustizia, nel settembre 2003, facendo condannare il capo del servizio di sicurezza che l’aveva aggredito mentre volantinava davanti a una fabbrica per invitare i lavoratori a partecipare alla manifestazione del primo maggio. Poco dopo la sua morte, altri iscritti al suo sindacato sono stati fatti oggetto di minacce. C’e’ forte scetticismo fra gli esponenti dell’opposizione politica e sindacale in merito agli arresti effettuati negli ultimi giorni di persone sospettate dell’assassinio di Vichea; il FTUWKC rivolge un appello alla comunita’ internazionale affinche’ il governo di Hun Sen riceva forti pressioni che lo inducano ad avviare un’indagine seria e imparziale che porti all’arresto dei veri assassini e dei mandanti dell’omicidio.
SCRIVIAMO AL PRIMO MINISTRO DELLA CAMBOGIA per chiedere che sia fatta luce sul caso e sia garantito ai cittadini della Cambogia l’esercizio dei propri diritti senza dover temere di perdere la vita (devo dirvi che ho tentato piu’ volte di spedire il fax ma senza successo, se non ci riuscite, spedite per posta).
Mr. Hun Sen
Prime Minister
Kingdom of Cambodia
Phnom Penh
Fax: 00855-23-88-06-24
Re: Killing of FTUWKC President Chea Vichea
Dear Prime Minister Hun Sen,
We are contacting you to express our outrage at the January 22nd murder of trade union leader Chea Vichea. We call upon you to publicly denounce this brutal killing and take immediate steps to investigate and bring to justice those who organized and carried out Vichea’s murder.
As the president of the Free Trade Union of the Workers of the Kingdom of Cambodia (FTUWKC) Vichea was an important leader in the struggle for workers’ rights in Cambodia. His death is a tragic loss to the movement to improve the lives of workers in your country. This blatant attempt to silence the voice of workers, particularly the women and men in the garment and textile industries, who are organizing and pushing for improvements cannot be tolerated.
In addition to taking clear and decisive action to bring Vichea’s killers to justice, we believe the Cambodian government must take steps to ensure that assassinations like this do not happen again. In recent months a number of people (or their family members) who have voiced criticisms of your government have been killed, apparently with impunity. Not only trade unionists and other rights activists, but all the people of Cambodia must have the freedom to freely voice their opinions, without fear of reprisals. When threatened, they must be given the protection they need. According to a variety of sources, Vichea had received numerous death threats and was forced to go into hiding a number of times, however he was reportedly denied police protection, with tragic results.
Chea Vichea was a courageous man who undertook an important and difficult work to push for positive change in Cambodia; as a result he lost his life. We urge you to give your personal attention to this very serious matter. Please keep us informed of the progress made by any governmental inquiry into Vichea’s killing.
Sincerely,
(nome, cognome, eventuale organizzazione di appartenenza)
La Cisl internazionale ha pubblicato il mese scorso un dossier sull’industria dell’abbigliamento in Cambogia (http: //www.icftu.org/displaydocument.asp?Index=991218894)
Riassunto:
CAMBOGIA: I LAVORATORI DEL SETTORE TESSILE DI FRONTE A UN DESTINO INCERTO (ICFTU Online, 23 gennaio 2004)
Nel gennaio 2005 la fine dell’Accordo multifibre, che stabiliva quote di esportazione per il settore tessile, mettera’ la Cambogia in diretta concorrenza con paesi come la Cina che hanno una manodopera molto piu’ economica e ricattabile. Riuscira’ l’industria trainante della Cambogia a evitare il tracollo? In che modo il sindacato potra’ continuare a difendere i diritti dei lavoratori? Di questo si occupa il nuovo studio della Confederazione internazionale dei sindacati liberi, che sottolinea la relativa liberta’ sindacale di cui godono i lavoratori cambogiani rispetto ad altri paesi della regione asiatica, sebbene licenziamenti e intimidazioni siano all’ordine del giorno. Sono riportate le dichiarazioni del leader sindacale Chea Vichea, assassinato a Phnom Penh il 22 gennaio scorso. Sebbene vi sia stato qualche timido segnale di miglioramento in seguito all’accordo siglato nel 1999 con gli Stati Uniti, che lega le esportazioni al rispetto dei diritti sindacali, e di cui lo studio tenta un bilancio, le condizioni di vita e di lavoro dei 200 mila occupati del settore tessile, per il 90 per cento donne, restano molto dure. Lo studio si sofferma inoltre sul destino tragico di tante giovani donne cambogiane che non hanno possibilita' di scelta fra lo sfruttamento in fabbrica e il racket della prostituzione.
(2004) Attivista di ong impegnata nel caso Tarrant aggredito da ignoti
21 gennaio 2004 - Il 30 dicembre, Martin Barrios, coordinatore della Commissione per i diritti umani e sindacali nella regione di Tehuacan, stato di Puebla, e’ stato aggredito sulla soglia della sua casa, sede dell’ufficio della commissione, da uno sconosciuto armato di un mattone, riportando gravi ferite al volto e alla testa. Barrios e’ riuscito a divincolarsi mettendo in fuga l’aggressore che era atteso da un complice a bordo di un taxi. Secondo la Commissione, l’aggressione subita da Barrios e le minacce che l’hanno preceduta sono un atto intimidatorio rivolto a tutta l’organizzazione, che e’ impegnata nella difesa dei diritti dei lavoratori delle maquiladoras del Puebla. Lo scorso anno la Commissione ha difeso i diritti di centinaia di lavoratori licenziati ingiustamente da diverse fabbriche di blue jeans di proprieta’ della Tarrant Apparel Group, con sede a Los Angeles, e di numerosi lavoratori di altre maquiladoras di Tehuacan.
Sempre nel 2003 l’organizzazione canadese Maquila Solidarity Network e il Centro de Apoyo al Trabajador (CAT) di Ajalpan, sede di uno stabilimento Tarrant in cui nell’autunno scorso sono state licenziate alcune centinaia di lavoratori per aver tentato di organizzarsi in sindacato (caso girato in lista il 3 novembre 2003), hanno pubblicato il dossier “Blue jeans, blue waters and worker rights”, ampiamente diffuso in Messico, Canada e Stati Uniti, che denuncia la sistematica violazione dei diritti sindacali e delle norme ambientali nell’industria del blue jeans di Tehuacan.
L’aggressione a Martin Barrios si aggiunge a un lungo elenco di attacchi portati agli attivisti per i diritti umani nello stato di Puebla, il piu’ grave dei quali e’ stata l’uccisione dell’avvocatessa Griselda Tirado Evangelio a Huehuetla, e poi minacce e molestie verso i membri di CADEM a Cuetzalan, minacce e intimidazioni nei confronti del CAT e di iscritti al sindacato indipendente degli stabilimenti Tarrant ad Ajalpan.
SCRIVIAMO AL GOVERNATORE DELLO STATO DI PUEBLA per chiedergli di intervenire promuovendo un’indagine per far luce sul caso Barrios, per individuare e punire gli aggressori e i mandanti, e di predisporre misure a protezione della vita e della sicurezza di Barrios, della sua famiglia e dei membri della Commissione.
Potete inviare il testo che segue per fax al numero 0052-222-213-8805 oppure collegarvi al sito governativo, pagina delle comunicazioni al governatore: http://www.puebla.gob.mx/gobierno/escribealgobernador.html, inserire nome e cognome, indirizzo di posta elettronica, nome della citta’ e dello stato, e incollare il testo del messaggio nella finestra in basso a destra.
Inviate copia del messaggio a Maquila Solidarity Network: info@maquilasolidarity.org (oggetto: Martin Barrios)
Melquiades Morales Flores, Governor of Puebla
14 Oriente, No. 1006, Colonia El Alto, Puebla
Puebla, Mexico
Dear Governor Morales Flores,
I am writing to bring to your attention disturbing reports of a brutal assault carried out under suspicious circumstances against Martin Amaru Barrios, a leader of the Comision de Derechos Humanos y Laborales del Valle de Tehuacan, A.C.
On December 30, at 9:30 a.m. Barrios was attacked by an unknown assailant outside his home in Tehuacan. As he was about to enter his house, Barrios was assaulted from behind by a man carrying a brick. Barrios was able throw off the assailant, who fled to a taxi that was waiting for him in front of the house. Barrios suffered serious injuries to his face and skull, and has registered a formal complaint with the local authorities.
It appears the man and his accomplish who was driving the taxi were waiting for Barrios when he returned home. As well, the assailant made no attempt to enter the house or to rob Barrios. Barrios had also received threats prior to the attack. It would therefore appear that the attack had been planned in advance, and the assailant and his accomplice to the crime had been paid to carry out the assault.
As you may be aware, Barrios and the Commission have been playing a very important role in defending the rights of maquila workers in the Tehuacan region. It is therefore highly suspicious that this attack occurred recently after the Commission was involved in efforts to ensure that hundreds of maquila workers who were unjustly fired received their full severance pay as required by the Federal Labour Law. Prior to the assault, Barrios had received threats related to the work of the Commission in defending workers' rights.
We are very concerned that this assault might be part of a broader campaign to silence and punish Barrios, members of his family and other members of the Commission. In order to ensure that justice is done, and that there are no further attacks on Barrios, members of his family and/or other members of the Commission, we would strongly urge that you take the following actions:
1. Immediately launch a full investigation of the attack and threats against Barrios and ensure that those who are responsible, including the intellectual authors of the crime, are brought to justice; and
2. Direct local authorities to take immediate preventive measures to protect the life and security of Martin Amaru Barrios, his family, and other members of the Commission.
I look forward to receiving a prompt reply to my letter detailing the measures your government is taking to investigate the crime, bring those responsible to justices, and provide protection to Barrios, his family, and other members of the Commission.
(nome, cognome, citta’e paese, eventuale organizzazione di appartenenza)
(2003) T-shirt e fondi pensione in Honduras
24 dicembre 2003 - Quello che segue e' il primo caso in questa lista di un fondo pensione del sindacato che chiede conto a un'impresa del suo comportamento. Notate anche la capacita' raggiunta da ong e gruppi di base di svolgere un costante e scrupoloso lavoro di monitoraggio e di denuncia. La traduzione e' di Silvia Giamberini. Buone feste.
(fonte: Maquila Solidarity Network, info@maquilasolidarity.org; www.maquilasolidarity.org)
Il fondo di solidarietà della Federazione sindacale del Quebec ritira le azioni possedute in Gildan a seguito di licenziamenti ingiusti in Honduras.
Il 12 novembre il Fondo di Solidarietà della Federazione del Lavoro del Quebec (FTQ), che amministra fondi pensione degli iscritti al sindacato per un valore di circa 90 milioni di dollari, ha annunciato che liquiderà le proprie azioni del produttore di T-Shirt di Montreal Gildan Activewear, uscendone anche dal consiglio di amministrazione, a causa del rifiuto di Gildan di reintegrare nel posto di lavoro 38 lavoratori licenziati per organizzazione sindacale nella fabbrica di El Progreso in Honduras.
Il licenziamento ingiustificato e altre violazioni dei diritti dei lavoratori, documentati da Maquila Solidarity Network (MNS) e dal Gruppo di monitoraggio indipendente dell'Honduras nel maggio 2003, sono stati confermati da un'indagine indipendente sul posto svolta dal Fondo di Solidarietà, che ha quindi chiesto a Gildan il reintegro dei lavoratori.
Gildan ha rifiutato il reintegro, negando che le affermazioni dell'MSN siano basate su fatti dimostrati, e affermando però a seguito dell'annuncio di FTQ che i licenziamenti riguardano un caso isolato che coinvolge pochi lavoratori.
Per rispondere alle pressioni crescenti di azionisti istituzionali e clienti che sollecitano assicurazioni tangibili del rispetto dei diritti dei lavoratori, nell'ottobre 2003 Gildan è entrata a far parte della Fair Labor Association (FLA), un organismo di controllo degli standard di lavoro di cui fanno parte le maggiori aziende americane e alcune importanti ONG e organizzazioni religiose, e ha affermato quindi che la partecipazione alla FLA dimostra l'impegno di Gildan ad applicare condizioni di lavoro eque; di fatto l'appartenenza alla FLA richiede che FLA approvi un programma di monitoraggio interno da effettuarsi a cura di Gildan stessa, e l'esecuzione una volta all'anno di un audit esterno in una sola fabbrica, che è l'unico controllo eseguito da auditor scelti da FLA.
Il Fondo di solidarietà, MSN e i loro partner nel gruppo di coordinamento Ethical Trading Action Group (ETAG) vedono l'iscrizione di Gildan alla FLA come un primo passo ma sono preoccupati per i tempi lunghi prima dell'esecuzione degli audit, e chiedono quindi a Gildan di cooperare a un’inchiesta indipendente sulle condizioni di lavoro in almeno uno stabilimento di proprietà e in uno stabilimento di un contoterzista in America Centrale prima della fine del 2003, e di correggere le violazioni dei diritti dei lavoratori identificate.
Contemporaneamente, il National Labor Committee (NLC), ong con sede a New York, ha denunciato altre violazioni dei diritti dei lavoratori in una fabbrica in Honduras, la AAA, che produce per il 75% per Gildan: 42 lavoratori licenziati per organizzazione sindacale, quote produttive e orari di lavoro eccessivi, danni fisici per movimenti ripetitivi, perquisizioni, e altro ancora. NLC ha invitato Gildan a richiedere l'osservanza della normativa sul lavoro incluso il diritto di organizzazione sindacale e di porre fine al clima di intimidazioni presente in fabbrica. Inoltre, MSN ha ricevuto recentemente informazioni sul licenziamento di altri 39 lavoratori di Gildan coinvolti in tentativi di organizzazione sindacale in Honduras.
Gildan afferma tramite lettere e sulla stampa che il governo dell'Honduras ha archiviato il caso riguardante le presunte violazioni di libertà di associazione presso lo stabilimento El Progreso. Secondo le informazioni possedute da MSN, il governo honduregno non ha condotto un'inchiesta seria; al contrario il ministro del lavoro ha ignorato per un anno la richiesta di registrazione dell’organizzazione sindacale dei lavoratori di El Progreso.
Gildan ha recentemente diffuso una lettera che ha ricevuto dall'International Development Research Centre (IDRC), ente finanziatore dell'indagine di MNS/EMIH, in cui, in risposta alle proteste di Gildan per le denunce di MNS, si afferma che "non è possibile per IDRC stabilire la validità delle affermazioni riportate nel rapporto, neanche con le informazioni addizionali fornite da Gildan". Gildan afferma che la lettera "parla da sola", mentre invece è ben lontana dal rifiutare i contenuti del rapporto. IDRC suggerisce che "fornirà il supporto per una revisione indipendente" delle questioni irrisolte, cosa che MSN ha richiesto a Gildan per tutto l'anno passato.
Il 22 dicembre MSN ha presentato un reclamo formale alla FLA, con il sostegno del Canadian Labour Congress e della Federazione Indipendente dei Lavoratori dell'Honduras (FITH), per denunciare il licenziamento ingiustificato dal novembre 2002 di oltre cento lavoratori dello stabilimento El Progreso.
SCRIVIAMO A GILDAN - copiate e inviate la lettera che segue (Si chiede a Gildan di cooperare a una inchiesta indipendente entro la fine dell'anno e di reintegrare i sindacalisti licenziati):
Ogg.: El Progreso factory in Honduras
Stephane Lemay
Vice-President, General Counsel and Corporate Secretary
c.c. Maquila Solidarity Network: info@maquilasolidarity.org
Dear Mr. Lemay,
I am writing to urge your company to cooperate with an independent investigation by the Fair Labor Association (FLA) of alleged violations of freedom of association at your company's El Progreso factory in Honduras. In order to demonstrate your company's willingness to seriously address these allegations in a timely manner, Gildan should agree to cooperate with such an investigation at the earliest possible date.
I also urge your company to offer to reinstate the 39 workers fired in October and November 2003, plus the approximately 70 workers fired in November 2002 and March, April and July 2003.
I look forward to receiving a prompt reply to my letter, declaring your company's willingness to cooperate with such an investigation at the earliest possible date and to reinstate the unjustly fired workers.
Yours truly,
(nome, cognome, eventuale organizzazione di appartenenza, nazione)
(2003) Kappa in Birmania: botta e risposta
Kappa in Birmania: botta e risposta
2003 - Chiediamo a BasicNet, multinazionale torinese, proprietaria dei marchi Kappa, Robe di Kappa e Jesus Jeans di abbandonare la produzione di capi di abbigliamento in Birmania, paese governato da una delle peggiori dittature mondiali. I sindacati internazionali, l'Organizzazione Internazionale del Lavoro, il sindacato birmano in esilio e molte ONG chiedono alle aziende multinazionali di interrompere i rapporti commerciali con la Birmania.
La campagna ha totalizzato 2500 cartoline e 5000 email spedite. A Torino il presidente di BasicNet annuncia una ‘pausa di riflessione’: sospendera’ temporaneamente l’approvvigionamento di capi di abbigliamento dalla Birmania.
Il 19 febbraio 2003, a Torino, nell’ambito dell’iniziativa “Olimpiadi 2006 e responsabilita’ sociale” organizzata dalla Campagna Biancaneve, si e’ tenuto un incontro pubblico fra Francesco Gesualdi del Centro Nuovo Modello di Sviluppo e Marco Boglione, presidente di BasicNet/Kappa.
Nel 2002, la Rete di Lilliput ha promosso una campagna di pressione pubblica per chiedere a BasicNet di non rifornirsi piu’ da produttori localizzati in Birmania, prevedendo nel contempo delle forme di indennizzo per i lavoratori delle fabbriche interessate, in accordo con le richieste del sindacato e dell’opposizione democratica birmani.
Marco Boglione ha riconosciuto che il governo birmano e’ uno dei peggiori regimi oppressivi e che in Birmania si violano i diritti umani. Cio’ nonostante ha affermato che non spetta alle imprese assumere iniziative per fare cambiare il comportamento dei governi. Secondo Boglione questo compito spetta alle istituzioni internazionali (che in realta’ si sono gia’ espresse per la sospensione delle relazioni commerciali con il paese, vedi OIL, e per denunciare il lavoro forzato, vedi ONU) e, in assenza di misure coercitive da parte loro, le imprese hanno solo l’obbligo di rispettare le leggi dei paesi in cui operano, anche se sono in contrasto con le convenzioni internazionali. Boglione non ha dichiarato come cio’ si concili col codice di condotta assunto da BasicNet che la obbliga a rifornirsi solo da imprese che rispettano i fondamentali diritti dei lavoratori compreso il diritto ad organizzarsi in libere associazioni sindacali. Boglione ha anche messo in discussione la validita’ degli embarghi come forma di pressione a difesa dei diritti umani, mentre ha esaltato l’investimento perche’ promuove lo sviluppo e l’occupazione. Ad ogni modo ha dichiarato di volersi prendere una pausa di riflessione sospendendo per il momento l’approvvigionamento di capi di vestiario in Birmania. A Boglione sono state fatte alcune proposte (SA8000, adeguamento al protocollo sui codici di condotta del CCNL, scelta di cooperative) per migliorare il codice di condotta di BasicNet e la ricerca dei fornitori. La campagna continua.
Per chi ha voglia di leggere le argomentazioni di Boglione in ‘presa diretta’, trovate di seguito la trascrizione della registrazione sonora del dibattito.
Potete inoltre scaricare altri articoli utili:
(2003) Accordo raggiunto in Bangladesh dopo l'uccisione di un lavoratore
20 novembre 2003 - Lo scorso 3 novembre 2003 un operaio tessile è stato ucciso, 200 sono stati feriti e 20 sono stati arrestati nel corso degli scontri svoltisi tra gli operai e la polizia nel distretto industriale BSCIC di Fatulla, Naranyongang (vicino alla città di Dhaka) in Bangladesh. Il lavoratore ucciso si chiamava Kamal, aveva 25 anni e lavorava, secondo un articolo apparso su "New Nation", alla Pentex Garments Ltd.
L'agitazione è nata dopo che gli operai di diversi stabilimenti avevano chiesto il pagamento dei salari arretrati e della gratifica festiva, che in Bangladesh deve obbligatoriamente venire pagata entro il 25 novembre, fine del mese di digiuno/ramadan. Negoziati tra i dirigenti e gli operai nella notte tra il 2 ed il 3 novembre non avevano portato ad alcun risultato e la situazione è degenerata rapidamente dopo l'arresto di un leader sindacale. La protesta, nel corso della quale alcuni stabilimenti tessili sono stati presi d'assalto, si è diffusa in tutta la zona che conta 400 impianti e 16000 lavoratori.
A seguito degli scontri e degli arresti, la Clean Clothes Campaign aveva diffuso in data 8 novembre 2003 un appello nei confronti della BMKEA (Associazione degli Imprenditori della Maglieria del Bangladesh) in cui si chiedeva di ritirare le denunce sporte nei confronti dei lavoratori tessili arrestati, riconoscere le richieste iniziali dei lavoratori riguardo al loro legittimo pagamento, inclusa la gratifica festiva, assicurare urgentemente cure mediche adeguate e un risarcimento ai lavoratori feriti e alla famiglia del lavoratore ucciso, garantire luoghi di lavoro sicuri dove i diritti dei lavoratori vengano rispettati.
In seguito all'appello, la BMKEA ha preso delle misure per venire incontro a queste richieste. Nello specifico si è impegnata a: ritirare le denunce sporte nei confronti dei lavoratori arrestati, che nel frattempo sono stati rilasciati; al pagamento di 100.000 tk alla famiglia di Kamal, il lavoratore assassinato negli scontri; ridurre l'orario lavorativo giornaliero a 8 ore, e pagare per ogni ora successiva il doppio del salario orario normale previsto; proseguire le pratiche per l'adempimento del pagamento della gratifica festiva (i lavoratori forniranno la lista degli stabilimenti in cui non viene pagato in modo che la BMKEA possa provvedere); e assicurare che i feriti ricevano adeguate cure mediche.
La Clean Clothes Campaign ringrazia tutti coloro che hanno provveduto a contattare la BMKEA per esprimere la loro preoccupazione riguardo a questi problemi e provvederà ad aggiornare le notizie al riguardo fino al completamento dell’accordo.
(2003) Tarrant-Messico: continua la battaglia per il riconoscimento del sindacato
2 novembre 2003 - La Tarrant Mexico - Ajalpan di Puebla e’ un’azienda a capitale statunitense, facente capo alla Tarrant Apparel Group con sede a Los Angeles, che produce abbigliamento per Levi’s, Liz Claiborne, Tommy Hilfiger, the Wet Seal e altre marche USA.
E’ al centro di un conflitto sindacale dopo che a fine agosto alcune centinaia di lavoratori sono stati licenziati per aver costituito un sindacato indipendente, SUITTAR, e aver proclamato uno sciopero a giugno per migliori condizioni di lavoro.
Il motivo ufficialmente addotto dall’azienda per i licenziamenti e’ il calo produttivo con conseguente esubero di personale, ma la procedura seguita e’ in netto contrasto con la legge del lavoro messicana che impone alle aziende di dimostrare per iscritto al JLCA (Comitato locale per la Conciliazione e l’Arbitrato di Puebla) lo stato di necessita’ temporanea e quindi di negoziare un’indennita’ di disoccupazione per i lavoratori (questo perche’ in Messico non esiste sussidio per la disoccupazione). Inoltre, il motivo del licenziamento deve essere comunicato ai lavoratori per iscritto e, in caso di licenziamento senza giusta causa, essi hanno diritto a un’indennita’ di licenziamento o al reintegro nel posto di lavoro. Nel caso della Tarrant di Ajalpan nessuna di queste norme e’ stata rispettata e quindi i licenziamenti sono illegali. A colmare la misura, il 6 ottobre il JLCA ha respinto la richiesta di riconoscimento di SUITTAR adducendo una serie di vizi di forma. Questi, a norma di legge, avrebbero dovuto essere comunicati ai richiedenti prima del pronunciamento definitivo in modo da potervi porre rimedio; si tratta anche in questo caso di un provvedimento illegittimo. SUITTAR si appellera’ contro la decisione davanti agli uffici amministrativi nazionali del North American Agreement on Labor Cooperation (NAO/NAALC), l’OIL e l’OCSE. Ma poiche’ il caso non sara’ discusso prima di 6-8 mesi, e’ necessario che continui la pressione internazionale sul governo messicano, sulla Tarrant e sui suoi committenti.
Levi-Strauss ha risposto alle sollecitazioni e ha informato personalmente molti dei clienti della Tarrant Apparel Group che le e’ stato negato l’accesso agli stabilimenti messicani dove intendeva recarsi per monitorare l’applicazione del suo codice di condotta e in seguito la Tarrant Mexico ha rotto i rapporti commerciali con Levi’s.
Fra tutti i committenti, le peggiori reazioni vengono da Tommy Hilfiger, the Wet Seal e i Federated Department Stores. The Wet Seal, pur avendo un codice di condotta, non si e’ ancora espressa circa il suo intendimento, Tommy Hilfiger si e’ affrettata a cancellare le commesse per “ragioni commerciali”, i Federated Department Stores hanno dichiarato che non interverranno poiche’ il loro codice di condotta non contempla il diritto alla liberta’ di associazione.
E’ vero che molti dei marchi clienti di Tarrant non sono presenti nei negozi italiani, ma vi preghiamo di partecipare comunque alla campagna di pressione che serve a rafforzare il processo di costruzione della liberta’ sindacale in Messico. Lo abbiamo gia’ fatto in passato sostenendo, con buoni risultati, i lavoratori Nike della Mexmode, e con risultati purtroppo meno buoni, i lavoratori Puma della Matamoros.
SCRIVIAMO A THE WET SEAL, FEDERATED DEPARTMENT STORES INC., TOMMY HILFIGER per chiedere alle imprese di fare pressione sulla Tarrant, sul governo federale messicano e sul governo dello Stato del Puebla affinche’ sia riconosciuta legittimita’ al sindacato SUITTAR, le si invita inoltre a firmare con esso un contratto collettivo di lavoro: peter.whitford@wetseal.com; jzimmerman@fds.com; ddyer@tommy-usa.com; jhorowitz@tommy-usa.com; thilfiger@tommy-usa.com; cbirchfield@tommyhilfiger.com
Inviate per conoscenza ai seguenti indirizzi corrispondenti a uffici governativi ed altri uffici delle imprese (probabilmente qualcosa tornera’ indietro):
gguez@aol.com; gerard.guez@tags.com; kamel.nacif@tags.com; corazon.reyes@tags.com, silvia.davila@tags.com; tarrant.ajalpan@tags.com; gabriela.bringas@tags.com; pguez@innovogroup.com; iaa@innovogroup.com,
paul.guez@tags.com;buzon_abascal@stps.gob.mx;antonio.zarain@puebla.gob.mx; antonio.lopezmalo@puebla.gob.mx; armando.toxqui@puebla.gob.mx;
atq1969@hotmail.com; dorrit.bern@charming.com;sfried@limitedbrands.com;
catpuebla@yahoo.com.mx
To:
The Wet Seal
Federated Department Stores
Tommy Hilfiger
Ogg.: Tarrant Mexico – Legal recognition of the workers’ union
Dear sirs,
I have recently received updated information regarding the illegal dismissals of hundreds of workers from the Tarrant México – Ajalpan factory in Puebla, as well as reports that workers at this facility are being prevented from exercising their legal right to free association.
Specifically, the independent union SUITTAR was on October 6th unjustly denied legal recognition.
The company’s and labour board’s actions against the workers, and the leadership of the union, violate Mexican labour laws (the right to organize), as well as fundamental workers’ rights and constitute a human rights violation. Workers at Tarrant are entitled to be represented by
the union of their choosing, without intimidation or discrimination.
I therefore fully support the workers in this matter. I urge you to take responsibility and:
· Immediately contact Tarrant management, the Mexican federal government and the Puebla state government to ensure that:
a. The Ajalpan workers’ rights to freedom of association are upheld, thus accepting SUITTAR’s appeal, overturning the registro decision and legally recognizing the independent union. The JLCA violated LFT (Mexican Federal Law) Articles 685 and 686 stipulating its responsibility to revise all submitted documents and notify the petitioners what is lacking before considering the registro petition.
b. The company signs a collective bargaining agreement with SUITTAR according to LFT Articles 386 and 439.
· Work together with Levi’s, Limited Brands, Charming Shoppes and other TAG clients to urge TAG and the Puebla state government to comply with the brands’ Codes of Conduct and Mexican and international law.
· Publicly cite the Worker Rights Consortium report as evidence of the illegal violations, see www.workersrights.org.
· Communicate directly with the workers and the CAT, for instance via catpuebla@yahoo.com.mx.
For your information, I am also contacting the factory’s management, the governor and JLCA of Puebla to share my concerns with them.
Thank you for your consideration. I appreciate your prompt attention and action, and hope that you will take the necessary steps to bring about a resolution to this matter that is to the satisfaction of the workers and in compliance with the law.
Sincerely,
(nome, cognome, citta’ e paese, evenutale organizzazione di appartenenza)
(2003) LOTTO in Indonesia: licenziati per aver scioperato, aspettano giustizia da tre mesi
Dal 16 luglio trovano i cancelli della loro fabbrica chiusi. Da tre mesi vivono senza stipendio e a resistere sono rimasti in 174. La loro colpa e’ di aver scioperato per quattro giorni a luglio per chiedere il rispetto del salario minimo legale e la fine delle intimidazioni nei confronti del loro giovane sindacato. Sono le lavoratrici e i lavoratori della PT Busana Prima Global di Bogor che produce abbigliamento sportivo per grandi marche europee e americane: Le Coq sportif, Bear USA, Lotto, Head e per squadre di calcio come il Manchester United.
Una giovane operaia racconta: “Una di quelle sere passate a lavorare in straordinario fino alle 6 del mattino, sono svenuta. Mi hanno condotto in infermeria e fatta distendere sul lettino. Mi sono riposata un po’, poi l’infermiera mi ha portato un po’ d’acqua e qualcosa da mangiare. Ha aspettato che finissi, ma subito mi ha fatto fretta perche’ ritornassi al mio posto, il lavoro non puo’ aspettare”.
Gli straordinari sono una cosa seria alla PT Busana, e anche se il preavviso e’ minimo, non ci si puo’ rifiutare. Chi lavora a tempo determinato, sa che non ricevera’ le maggiorazioni di legge. Non sorprende che i lavoratori raccontino che almeno una volta al giorno qualcuno si ferisce le dita, trafitte dall’ago della macchina da cucire. I rimedi sono sbrigativi: l’ago viene estratto, viene applicata tintura di iodio, e si deve riprendere il lavoro.
Situazioni come queste non sono una novita’, cosi’ come spesso capita che alla fine i lavoratori si coalizzino e reagiscano, nei paesi che almeno ufficialmente non lo vietano, costituendo un sindacato. Ma di li’ in poi la strada e’ tutta in salita. Alle prime rivendicazioni, al primo sciopero, fioccano i licenziamenti. Ogni datore di lavoro adotta una propria strategia: chi si appiglia a un cavillo legale, chi fa muro senza fornire giustificazioni.
Nel caso della PT Busana, ha fatto gioco una legge che consente in Indonesia di licenziare un lavoratore che senza giustificato motivo non si presenti al lavoro per cinque giorni di fila. Il 15 luglio, dopo quattro giorni di sciopero, un accordo mediato dal ministero del lavoro fissava per il giorno successivo il rientro in fabbrica. Ma quella mattina, davanti ai cancelli chiusi, gli addetti alla sicurezza ordinavano ai lavoratori di attendere. Dopo qualche ora, senza motivo apparente, due lavoratori venivano accusati da rappresentanti della direzione di atti di violenza e fatti condurre ai locali uffici di polizia dove venivano seguiti dagli altri compagni che volevano portare solidarieta’. Quello stesso pomeriggio, 166 persone venivano licenziate con il pretesto di aver superato i cinque giorni di assenza dal lavoro. I lavoratori della PT Busana si sono rivolti alla giustizia perche’ sia riaffermato il diritto di sciopero, ma sanno che potrebbero passare anche due anni prima di una sentenza, nel frattempo sono disoccupati e non hanno ricevuto ne’ la liquidazione ne’ l’indennita’ di licenziamento.
In agosto abbiamo scritto alla direzione della Lotto che ha risposto dicendo che la PT Busana non e’ un suo fornitore diretto, ma il fornitore del suo licenziatario inglese. Assicurava di averlo immediatamente invitato a sollecitare al fornitore una soluzione positiva della vertenza. Da allora pero’ non abbiamo avuto piu’ notizie e non ci risulta neppure che Lotto abbia risposto alla segreteria della Clean Clothes Campaign in merito alle politiche aziendali adottate per garantire e verificare il rispetto degli standard sindacali.
Ci sembra quindi arrivato il momento di insistere.
CHE COSA POSSIAMO FARE:
Vi invito a collegarvi al sito della Clean Clothes Campaign: www.cleanclothes.org e ad aggiungere il vostro nome alla lettera di pressione telematica indirizzata a: Bear USA, Le Coq Sportif, Lotto e Head. Trovate il link al caso in prima pagina annunciato da una bella foto delle operaie della PT Busana, e che inizia con “Please keep supporting the 174 young Indonesians in the PT Busana factory who dared to stand up for their rights”. Ciccate su “Please take two minutes to sign on to the web petition”
(2003) L'indignazione del CAT
L'indignazione del CAT
17 febbraio 2003 - Il Centro de Apoyo al Trabajador (CAT), organizzazione che assiste i lavoratori della Matamoros in Messico, respinge le conclusioni contenute nel rapporto della Puma (tradotto nel mio precedente messaggio), pone serie critiche al metodo seguito nelle indagini e denuncia la campagna di diffamazione condotta nei suoi confronti. La Clean Clothes Campaign tedesca ha scritto a Puma per denunciare due gravi scorrettezze: aver filmato i lavoratori durante le interviste, aver trasmesso nelle conclusioni del rapporto la falsa impressione che aderire al sindacato di comodo Sindicato Francisco Villa de la CTM equivalga ad esercitare la liberta' di associazione. La campagna tedesca ha chiesto a Puma di incontrare un rappresentante del CAT che sara' in Germania in questi giorni. Il 25 febbraio si terra' una conferenza stampa a Colonia.
Sotto trovate la traduzione della dichiarazione del CAT e un messaggio da inviare a Puma. I messaggi gia' inviati sono tantissimi e occorre che ne arrivino ancora molti.
DICHIARAZIONE DEL CENTRO DE APOYO AL TRABAJADOR (CAT)
Atlixco, Puebla
12 Febbraio 2003
Egregio dr. Reiner Hengstmann,
di fronte alla societa' civile e al mondo intero respingiamo con fermezza le conclusioni contenute nel vostro rapporto pubblico! Ci siamo incontrati con voi oltre una settimana fa nella citta' di Puebla, in Messico, in un'atmosfera illusoria di fiducia e comprensione reciproca. In quella sede ci avete comunicato l'intenzione di svolgere una serie di interviste alla Matamoros Garment S.A. allo scopo di raccogliere indicazioni utili in relazione alle denunce di sfruttamento del lavoro e di violazione dei diritti umani e sindacali. In risposta alle nostre contestazioni circa le gravi intimidazioni subite dai lavoratori, ci avete assicurato che avreste condotto un'indagine e, una volta terminate le interviste, avreste reso pubblici i risultati, ma non prima di esservi consultati con noi.
Invece che cosa e' accaduto? Avete dato pubblicita' alle vostre conclusioni senza consultarci, dopo averci per giunta negato una risposta alla e-mail con la quale, la mattina successiva al nostro incontro, vi illustravamo in dettaglio il nostro punto di vista circa la necessita' di sottoporre i risultati a una verifica indipendente. Nel messaggio esprimevamo la nostra netta preoccupazione che venissero scelte modalita' non idonee per intervistare i lavoratori e suggerivamo che queste venissero, come minimo, condotte in luoghi separati dalla fabbrica al fine di garantire la necessaria obiettivita'. Abbiamo insistito su questo punto senza ricevere risposta.
Avete tradito la nostra fiducia e l'accordo in base al quale ci saremmo astenuti dal riferire del nostro incontro a John Whittinghill (direttore della Matamoros, ndt.), ad altre organizzazioni, o alla stampa, finche' le indagini non fossero concluse e i risultati ci fossero comunicati prima della loro diffusione pubblica.
Ed ecco che questa mattina avete inviato a noi e a tutto il mondo i "risultati" delle indagini svolte dalla Puma. Avete citato il sito web della Matamoros, dove sono pubblicati i livelli salariali degli operai, che mostra come una giornata di lavoro di 10 ore sia pagata non piu' di 39 pesos. Il salario minimo nella "Zona C" e' di 40,30 pesos al giorno, mentre il salario minimo di un cucitore nella categoria professionale e' di 52,10 pesos per una giornata lavorativa di 8 ore. (http://www.conasami.gob.mx/indice.htm). Ovviamente la maggioranza degli operai sono cucitori, il che significa che dovrebbero essere classificati nella categoria professionale, cio' che attualmente non avviene.
Ci chiediamo quindi che tipo di indagine abbiate svolto. E' evidente che non siete a conoscenza dei minimi salariali messicani e state di fatto violando le leggi del lavoro nazionali. Respingiamo fermamente le vostre dichiarazione cariche di menzogne che offendono tutti i lavoratori, e quelli della Matamoros Garment in particolare. State aggiungendo ingiustizia alle tante perpetrate nei confronti dei lavoratori messicani, specie di quelli che lavorano nell'industria per l'esportazione, che fa di loro persone invisibili e ignorate dal mondo.
Le vostre dichiarazioni testimoniano con ogni evidenza la mancanza di scrupoli, il completo disinteresse e l'avversione che caratterizzano il vostro comportamento verso i lavoratori, senza contare la bassezza morale di chi mente sapendo di mentire quando afferma che il CAT approva i risultati delle vostre indagini.
Non abbiamo mai ritrattato e non ritratteremo mai le denunce che abbiamo fatto in merito alle condizioni dei lavoratori, a Puma, alla situazione specifica della Matamoros.
Non vi abbiamo autorizzato a usare il nome delle nostra organizzazione che avete infangato per servire i vostri scopi. Nel farlo avete diffamato e macchiato il nome dell'intera classe lavoratrice.
In considerazione di tutto questo, ci vediamo costretti a denunciare Puma alla societa' civile, alla stampa nazionale e internazionale e a tutto il mondo, come un'impresa non degna di fiducia che adotta comportamenti antisindacali.
L'unico modo che avete per riabilitarvi e' ritornare alla Matamoros Garment,parlare con John Whittinghill e con il governo dello stato del Puebla; riconoscere che sono stati perpetrati abusi ai danni dei lavoratori e garantire che essi possano scegliere liberamente la propria organizzazionesindacale senza subire intimidazioni o ritorsioni; cancellare il contratto di protezione siglato con il Sindicato Francisco Villa del CTM. La lotta continua!
CAT - Centro de Apoyo al Trabajador
SCRIVIAMO NUOVAMENTE A PUMA (sintesi: siamo delusi dei risultati delle vostre indagini. Il CAT avanza serie critiche circa il metodo ma anche l' assenza di consultazioni. Disapproviamo inoltre le riprese filmate dei lavoratori intervistati e l'informazione fuorviante secondo cui iscriversi a un sindacato di comodo equivalga a esercitare la liberta' di associazione.
Vi chiediamo nuovamente di ripristinare gli ordini alla Matamoros , di garantire il rispetto del vostro codice di condotta e delle convenzioni OIL e di accettare verifiche indipendenti con l'inclusione dei lavoratori e di loro organizzazioni di fiducia come il CAT. Vi chiediamo di riprendere il dialogo con la direzione della Matamoros e del governo dello stato del Puebla, di riconoscere le violazioni subite dai lavoratori e di garantire loro il diritto di scegliere il proprio sindacato cancellando il contratto di protezione siglato con il Sindicato Francisco Villa de la CTM.)
Mr. Reiner Hengstmann
Global Head Environmental and Social Affaire
PUMA AG
e-mail: reiner.hengstmann@puma.com
Ogg.: Respect workers' rights at Matamoros Garment factory - Mexico
Dear Mr. Hengstmann,
We consider the outcome of your investigation at the Matamoros Garment
factory as extremely disappointing. The CAT not only rejects the conclusions
reached by PUMA but also has very serious criticisms about the way the
investigation was conducted and about the fact that results were not
discussed first with the CAT as parties agreed to do. In addition, we
strongly disagree with your approach to investigation, such as the use of
videotaping of interviewed workers, and with your approach to information,
such as giving the false impression that joining the CTM amounts to freedom
of association.
We call upon you once more to resume production at the Matamoros facility
and ensure that your code and internationally recognized labour standards
are respected. A system of independently verifying compliance with these
standards needs to be set up which includes workers and their organizations,
such as CAT. A corrective action plan has to be developed and PUMA must
ensure that it is implemented. An important first step would be the formal
recognition of the free trade union SITEMAG.
We ask you to talk with the Matamoros management and the Government of the
State of Puebla to recognize the violations against the workers and give
them the opportunity to freely choose a union without company harassment or
pressure, and terminate the protection contract signed with the Sindicato
Francisco Villa of the CTM.
We hope to be soon hearing good news from you in this respect.
Sincerely,
(nome, cognome, eventuale organizzazione di appartenenza)
(2003) Nike e Puma: un appello agli italiani da Nikewatch
10 marzo 2003 - Sui casi Nike/PT Doson (Indonesia) e Puma/Matamoros (Messico) Tim Connor, coordinatore della Nikewatch Campaign per l'organizzazione australiana Oxfam Community Aid Abroad, invita a scrivere una email alla Footlocker, una delle piu' grandi catene di distribuzione di scarpe e abbigliamento sportivi.
Rivolge l'invito in modo particolare agli italiani che pare si siano distinti per il numero di messaggi inviati finora a Nike. Questo non puo' che farci piacere (grazie a tutti da parte mia) e dunque insistiamo!
Ecco un aggiornamento sul caso PT Doson, a seguire il testo da inviare a Footlocker (sul caso Puma inviero' a giorni le ultime notizie):
Due rappresentanti degli ex lavoratori della PT Doson, Yeheskiel Prabowo e Ida Mustari, accompagnati da Tim Connor di Oxfam Community Aid Abroad, hanno preso parte a un seminario al controvertice di Davos (Public Eye on Davos) su globalizzazione e lavoro, il 27 gennaio scorso. Phil Knight, presente al World Economic Forum, e' stato invitato a discutere pubblicamente delle politiche del lavoro di Nike, ma ha preferito declinare l'invito.
Ida ha raccontato i suoi 9 anni di lavoro alla PT Doson a far scarpe per Nike, la quantita' di ore straordinarie lavorate da lei e dal marito senza riuscire a mantenere i due figli, cresciuti dai nonni nella lontana Sumatra, per vederli solo una volta all'anno per quattro giorni durante le festivita' religiose. Poi a settembre 2002 la doccia fredda: Nike toglie le commesse, per Ida e per i suoi compagni e' il licenziamento in tronco. Per poter avere la liquidazione, citano in giudizio il datore di lavoro, che garantisce solo la meta' della somma, pur sapendo che una causa puo' durare fino a 2 anni. Ida cerca un nuovo posto, ma intanto, come molti altri, deve fare debiti per sopravvivere ed e' chiaro che non potra' continuare a pagare la sua parte di spese legali. Gli ex dipendenti della PT Doson - riferisce al Jakarta Post uno dei loro rappresentati sindacali - sono costretti a vivere di riso e sale. In virtu' del meccanismo del subappalto, che le consente di scindere legalmente le proprie responsabilita' da quelle dei suoi fornitori, a nulla
sono valsi finora i tentativi di ottenere da Nike il pagamento del dovuto.
Ma su questo occorre insistere: Nike non puo' sottrarsi alla responsabilita' morale che la lega a chi ha contribuito a costruire la sua fortuna per 11 anni e mezzo e ora chiede che siano rispettati i suoi diritti. Trovate i racconti di Ida e Prabowa a Davos nel sito www.evb.ch/nikewatch.htm.
COPIATE E SPEDITE QUESTO MESSAGGIO (sintesi: la vostra e' una delle piu' grande catene di distribuzione di articoli sportivi, per questo vi chiedo di contribuire alla risoluzione di due conflitti di lavoro, in Indonesia e in Messico. PT Doson ha prodotto scarpe sportive per conto di Nike per 11 anni e mezzo e ora, rimasta senza lavoro, ha licenziato tutti i 7 mila dipendenti. I lavoratori hanno fatto causa al proprietario per avere la liquidazione, ma i tempi sono lunghi e intanto fanno la fame. Chiedete a Nike di intervenire immediatamente, il fatto che non fosse proprietaria della fabbrica non la esime dalle sue responsabilita' morali. Puma ha dato lavoro alla Matamoros Garment in Messico fino al gennaio 2003. Le condizioni di lavoro erano pessime, ma proprio quando si stava formando un sindacato, Puma ha tolto le commesse.
Chiedete a Puma di ripristinare gli ordini e assicurare il libero esercizio dell'attivita' sindacale. Voi avete il potere di influenzare le decisioni di aziende come Nike e Puma e di far sapere che i consumatori non vogliono acquistare prodotti ottenuti con lo sfruttamento del lavoro)
Inviate il messaggio a:
customer_service@footlocker.com (attenzione digitate: customer_service)
help@footlocker-europe.com
inviatene copia a:
timc@sydney.caa.org.au,
continuous.improvement@nike.com
Oggetto: Nike-PTDoson, Puma-Matamoros
Mr. Matthew D. Serra
President and Chief Executive Officer
Footlocker Inc.
Dear Mr. Matthew D. Serra,
As your company is one of the world's largest sportswear retailers, I am writing to urgently seek your support for workers from two sportswear factories. One was in Indonesia, the other is in Mexico. The PT Doson factory in Indonesia produced sportshoes for Nike for eleven and a half years. In September 2002 Nike stopped ordering from the factory and it closed, putting 7,000 people out of work.
The factory's owner is refusing to pay workers the severance pay required by the Indonesian government. The workers have taken the factory to court, but the case could take up to two years to complete. Meanwhile workers are living off credit while they seek other work. Press reports indicate that many of the workers are going hungry, with meals consisting of little more
than rice with salt.
Please urgently call Nike's attention to this case and urge the company to pay workers what they are owed. Nike's system of contracting out all its production should not excuse Nike from responsibility for ensuring that the legal rights of the workers who make its goods are respected. This includes their right to severance pay when a factory closes, particular when the
factory closes as a result of Nike cutting its orders.
Puma was a customer at the Matamoros Garment factory in Mexico from July 2002 until January 2003. A Mexican labour rights group reports that conditions at the factory were poor, including illegally low wages, forced overtime and verbal abuse. Puma recently ceased ordering from the factory, just as workers started to establish an independent union.According to Puma this was because the factory is currently unable to meet production deadlines.
The factory owner has told workers that Puma left because the workers organised a union and held a short strike for better wages and conditions. Genuine respect and promotion of workers' right to form and join democratic trade unions is the most powerful way that companies can prevent exploitation in the production of their goods.
Please urge Puma to restart ordering from the Matamoros Garment factory and to work with the factory to ensure that workers' trade union rights are respected.
As a major sportswear retailer your company has considerable influence over Nike, Puma and other sportswear companies. Consumers do not want to buy goods made in sweatshops. I look forward to hearing that you have used your influence to persuade these companies to do the right thing in these cases.
Sincerely
(nome, cognome, paese, eventuale organizzazione di appartenenza)
(2003) Nike e Puma: un appello agli italiani da Nikewatch
Nike e Puma: un appello agli italiani da Nikewatch
10 marzo 2003 - Sui casi Nike/PT Doson (Indonesia) e Puma/Matamoros (Messico) Tim Connor, coordinatore della Nikewatch Campaign per l'organizzazione australiana Oxfam Community Aid Abroad, invita a scrivere una email alla Footlocker, una delle
piu' grandi catene di distribuzione di scarpe e abbigliamento sportivi.
Rivolge l'invito in modo particolare agli italiani che pare si siano distinti per il numero di messaggi inviati finora a Nike. Questo non puo' che farci piacere (grazie a tutti da parte mia) e dunque insistiamo!
Ecco un aggiornamento sul caso PT Doson, a seguire il testo da inviare a Footlocker (sul caso Puma inviero' a giorni le ultime notizie):
Due rappresentanti degli ex lavoratori della PT Doson, Yeheskiel Prabowo e Ida Mustari, accompagnati da Tim Connor di Oxfam Community Aid Abroad, hanno preso parte a un seminario al controvertice di Davos (Public Eye on Davos) su globalizzazione e lavoro, il 27 gennaio scorso. Phil Knight, presente al World Economic Forum, e' stato invitato a discutere pubblicamente delle politiche del lavoro di Nike, ma ha preferito declinare l'invito.
Ida ha raccontato i suoi 9 anni di lavoro alla PT Doson a far scarpe per Nike, la quantita' di ore straordinarie lavorate da lei e dal marito senza riuscire a mantenere i due figli, cresciuti dai nonni nella lontana Sumatra, per vederli solo una volta all'anno per quattro giorni durante le festivita' religiose. Poi a settembre 2002 la doccia fredda: Nike toglie le commesse, per Ida e per i suoi compagni e' il licenziamento in tronco. Per poter avere la liquidazione, citano in giudizio il datore di lavoro, che garantisce solo la meta' della somma, pur sapendo che una causa puo' durare fino a 2 anni. Ida cerca un nuovo posto, ma intanto, come molti altri, deve fare debiti per sopravvivere ed e' chiaro che non potra' continuare a pagare la sua parte di spese legali. Gli ex dipendenti della PT Doson - riferisce al Jakarta Post uno dei loro rappresentati sindacali - sono costretti a vivere di riso e sale. In virtu' del meccanismo del subappalto, che le consente di scindere legalmente le proprie responsabilita' da quelle dei suoi fornitori, a nulla
sono valsi finora i tentativi di ottenere da Nike il pagamento del dovuto.
Ma su questo occorre insistere: Nike non puo' sottrarsi alla responsabilita' morale che la lega a chi ha contribuito a costruire la sua fortuna per 11 anni e mezzo e ora chiede che siano rispettati i suoi diritti. Trovate i racconti di Ida e Prabowa a Davos nel sito www.evb.ch/nikewatch.htm.
COPIATE E SPEDITE QUESTO MESSAGGIO (sintesi: la vostra e' una delle piu' grande catene di distribuzione di articoli sportivi, per questo vi chiedo di contribuire alla risoluzione di due conflitti di lavoro, in Indonesia e in Messico. PT Doson ha prodotto scarpe sportive per conto di Nike per 11 anni e mezzo e ora, rimasta senza lavoro, ha licenziato tutti i 7 mila dipendenti. I lavoratori hanno fatto causa al proprietario per avere la liquidazione, ma i tempi sono lunghi e intanto fanno la fame. Chiedete a Nike di intervenire immediatamente, il fatto che non fosse proprietaria della fabbrica non la esime dalle sue responsabilita' morali. Puma ha dato lavoro alla Matamoros Garment in Messico fino al gennaio 2003. Le condizioni di lavoro erano pessime, ma proprio quando si stava formando un sindacato, Puma ha tolto le commesse.
Chiedete a Puma di ripristinare gli ordini e assicurare il libero esercizio dell'attivita' sindacale. Voi avete il potere di influenzare le decisioni di aziende come Nike e Puma e di far sapere che i consumatori non vogliono acquistare prodotti ottenuti con lo sfruttamento del lavoro)
Inviate il messaggio a:
customer_service@footlocker.com (attenzione digitate: customer_service)
help@footlocker-europe.com
inviatene copia a:
timc@sydney.caa.org.au,
continuous.improvement@nike.com
Oggetto: Nike-PTDoson, Puma-Matamoros
Mr. Matthew D. Serra
President and Chief Executive Officer
Footlocker Inc.
Dear Mr. Matthew D. Serra,
As your company is one of the world's largest sportswear retailers, I am writing to urgently seek your support for workers from two sportswear factories. One was in Indonesia, the other is in Mexico. The PT Doson factory in Indonesia produced sportshoes for Nike for eleven and a half years. In September 2002 Nike stopped ordering from the factory and it closed, putting 7,000 people out of work.
The factory's owner is refusing to pay workers the severance pay required by the Indonesian government. The workers have taken the factory to court, but the case could take up to two years to complete. Meanwhile workers are living off credit while they seek other work. Press reports indicate that many of the workers are going hungry, with meals consisting of little more
than rice with salt.
Please urgently call Nike's attention to this case and urge the company to pay workers what they are owed. Nike's system of contracting out all its production should not excuse Nike from responsibility for ensuring that the legal rights of the workers who make its goods are respected. This includes their right to severance pay when a factory closes, particular when the
factory closes as a result of Nike cutting its orders.
Puma was a customer at the Matamoros Garment factory in Mexico from July 2002 until January 2003. A Mexican labour rights group reports that conditions at the factory were poor, including illegally low wages, forced overtime and verbal abuse. Puma recently ceased ordering from the factory, just as workers started to establish an independent union.According to Puma this was because the factory is currently unable to meet production deadlines.
The factory owner has told workers that Puma left because the workers organised a union and held a short strike for better wages and conditions. Genuine respect and promotion of workers' right to form and join democratic trade unions is the most powerful way that companies can prevent exploitation in the production of their goods.
Please urge Puma to restart ordering from the Matamoros Garment factory and to work with the factory to ensure that workers' trade union rights are respected.
As a major sportswear retailer your company has considerable influence over Nike, Puma and other sportswear companies. Consumers do not want to buy goods made in sweatshops. I look forward to hearing that you have used your influence to persuade these companies to do the right thing in these cases.
Sincerely
(nome, cognome, paese, eventuale organizzazione di appartenenza)
(2003) La nuova campagna Benetton: ecco perchè non ci piace
Febbraio 2003 - La nuova campagna promozionale con la quale Benetton associa il suo nome al Programma alimentare mondiale delle Nazioni unite e’ appena partita e gia’ incombe sulle nostra strade e infarcisce i nostri giornali. Guardiamo quella pubblicita’ e come sempre scuotiamo la testa. Benetton non ci convince. Non ci convince sui temi della pace, della lotta alla fame, delle donne, delle minoranze etniche. Ecco perche’:
NEL GOLFO PER L’ESERCITO INGLESE: LA NAVE DI BENETTON
“Milano - Nel dibattito italiano sui preparativi bellici fa irruzione il caso "Strada Gigante": una nave italiana che sta trasportando verso il teatro di guerra materiale bellico per conto delle forze armate britanniche. A fare scandalo - secondo Oliviero Diliberto, leader dei Comunisti italiani - è che la nave sia in parte di proprietà dei Benetton, dinastia dall'immagine storicamente pacifista. "Stradablu", la compagnia armatrice che possiede la nave spiega che i Benetton hanno con la loro "21 Investimenti" una partecipazione in "Stradablu" minoritaria e "finanziaria", senza coinvolgimento nella gestione. Dalle visure camerali, si scopre però che la partecipazione è del 44,62%. Tra i proprietari della "21 Investimenti" con il 56% dei Benetton c'è anche il 10% della Fininvest di Berlusconi.»
PER COMBATTERE LA FAME BASTA PAGARE UN GIUSTO SALARIO
La multinazionale veneta sarebbe di maggior aiuto alla causa della lotta contro la fame nel mondo se decidesse finalmente di corrispondere a chi lavora per lei in ogni parte del mondo salari in linea con il costo della vita. Dall’indagine “Wearing thin: the state of pay in the fashion industry, 2000-2001” , condotta dall’organizzazione inglese Labour Behind the Label, aderente alla rete della Clean Clothes Campaign, Benetton risulta essere una delle aziende meno attente al problema dei livelli retributivi nei paesi di delocalizzazione. Riferirsi costantemente ai minimi salariali locali, come fa Benetton, significa mantenere consapevolmente intere comunita’ al di sotto della soglia di poverta’.
Il Coordinamento Lombardo Nord/Sud del Mondo ha scritto alle grandi associazioni pacifiste italiane invitandole a non accettare eventuali traini promozionali da parte della Benetton in campagne di solidarieta’ con la popolazione irachena, come invece avvenne durante la guerra del Kosovo (ricordate la campagna ‘Benetton per il Kosovo’ lanciata dalla multinazionale proprio mentre negava la presenza di bambini, profughi kurdi, nelle sue fabbriche turche?) (per informazioni: Ersilia Monti)
LE DONNE AFGHANE NON VESTONO BENETTON
Lettera aperta alla stampa
.
Abbiamo visto sulle vostre pagine le splendide foto di bambine e ragazze afghane, ritratte dalla Benetton a pubblicizzare il nuovo corso della politica afghana rispetto alle donne. Le immagini hanno un forte impatto emotivo, l¹accostamento burqua-volto scoperto e/o le didascalie non lasciano dubbi: oggi le ragazze sarebbero libere di trovare un lavoro, di andare a scuola, di rientrare dall¹esilio.
Noi e voi sappiamo che non è così.
Certamente conoscete quanto noi gli ultimi rapporti di Human Rights Watch, che potete consultare comodamente sul loro sito www.hrw.org , o persino tradotti in parte in italiano sui nostri siti (www.wforw.it ; www.ecn.org/reds/donne/donne.html), visto che la stampa si guarda bene dal pubblicarli.
Potete rivolgervi ad Amnesty International, o anche ai vostri stessi corrispondenti che sono certamente ben informati. Perché allora ospitare sulle vostre pagine una campagna pubblicitaria che nega e nasconde quello che è oggi più che mai necessario denunciare con forza?
La "liberazione" delle donne è stato uno dei principali falsi obiettivi dei bombardamenti americani in Afghanistan. Le donne afghane, attraverso le loro organizzazioni quali tra le altre Rawa ed Hawca, si sono opposte strenuamente a questo massacro e sono state ignorate. Hanno denunciato senza ambiguità che i nuovi padroni dell¹Afghanistan, i signori della guerra insediati dal governo americano e mai liberamente eletti dalla popolazione, sono dei criminali. Essi hanno provocato centinaia di migliaia di morti negli ultimi trenta anni, hanno devastato, torturato e calpestato i diritti e la dignità umana delle donne quando erano al governo prima dei talebani. Contro di loro Rawa chiede da anni un processo internazionale per crimini contro l¹umanità e l¹accurata documentazione per realizzarlo è già pronta e disponibile da anni. Peccato che non si trovi ne¹ un giornale ne¹una forza politica, neppure qui in Italia, disposto a sporcarsi le mani con questa storia poco edificante.
In tutte le province dell¹Afghanistan le scuole riaperte a beneficio dei riflettori occidentali vengono assalite da bande di fondamentalisti e non sono poche quelle che sono state costrette a chiudere di nuovo.
Dobbiamo ricordarvelo noi che la sharia è in vigore ovunque, le carceri sono piene di donne che fuggono alla violenza domestica, i suicidi per sfuggire ai matrimoni forzati non diminuiscono, in molte regioni è nuovamente proibito alle donne circolare senza un parente stretto maschio? Le donne vengono arrestate e sottoposte a visite ginecologiche forzate, non riescono a raggiungere scuole, posti di lavoro, università a causa delle restrizioni rigidissime sulla libertà di movimento. Forse non è evidente a chi gira solo per Kabul, ma chi mette un piede fuori dalla capitale entra in un territorio fuori da ogni controllo.
Sta per arrivare l¹8 marzo e qui in Italia ci saranno compagne a sostegno di Rawa. Per favore, evitate di pubblicare, magari accanto a un articolo corretto e ben informato come certo siete in grado di fare, qualche bella foto pubblicitaria capace di spazzare via, con un¹occhiata, fiumi di inchiostro.
COORDINAMENTO ITALIANO A SOSTEGNO DI RAWA
www.ecn.org/reds/donne/coordinamentoRAWA.htmlNUOVI VOLTI DELLA COLONIZZAZIONE
Nel 1991 la Benetton acquisto’ in Argentina, a prezzi stracciati, 900 mila ettari di terreno in Patagonia dove alleva greggi di pecore che la riforniscono di migliaia di tonnellate di lana. Quei luoghi pero’ non erano disabitati, ci vivono infatti da sempre le comunita’ Mapuche, ora confinate in una striscia di terra sovraffollata chiamata Reserva de la Compania. Ogni tanto qualche famiglia mapuche sconfina per occupare un misero fazzoletto di quella che solo fino a ieri era la sua terra. Il risultato immediato e’ lo sgombero violento, come ha potuto sperimentare lo scorso ottobre la famiglia Nahuelquir-Curinanco, a cui la polizia, mandata dai Benetton, ha sequestrato i beni e ha demolito l’abitazione. Quello che segue e’ l’ultimo comunicato della Comunità Mapuche-Tehuelche “11 de Octubre”.
Esquel, Puelmapu, 28 febbraio 2003
BENETTON: LA MULTINAZIONALE DELLA MENZOGNA, I COLORI UNITI DELLA SIMULAZIONE
.
La menzogna non è un marchio registrato di Benetton, ne è la sua essenza. Poche settimane fa la multinazionale italiana ed il PAM (programma alimentario mondiale dell’ONU) hanno lanciato la campagna Cibo per la Vita. Utilizzando fotografie scattate in Sierra Leone, Afghanistan, Cambogia e Guinea argomentano che cercheranno di coscientizzarci sulla fame nel mondo. I buoni samaritani tornano alla carica... tremino gli affamati!!!
Con l’accumulazione di quasi un milione di ettari in territorio mapuche la multinazionale perpetua un sistema sociale, economico e politico ingiusto, che condanna alla fame gran parte del nostro popolo. A loro bastano delle fotografie ad effetto per rifarsi la faccia... Loro che hanno fatto sgomberare la famiglia mapuche Curiñanco.
La strategia del gruppo veneto è quella di mentire; più grande è la menzogna, più essa risulta credibile e più aumenta il fatturato.
Lo scorso ottobre la responsabile del Servizio Sociale di Esquel, Miriam Grimaldi, ha realizzato uno studio socio-ambientale sulla famiglia Curiñanco. In esso si afferma: “La situazione economica della famiglia ha avuto un forte crollo per la perdita del lavoro della signora Rosa e la difficoltà economica in cui versa l’Argentina (...) Indipendentemente dai risvolti legali che vedono la famiglia contrapposta alla Compañía de Tierras Sud Argentina (così si fa chiamare Benetton in Patagonia), la restituzione della terra e tutto quanto è andato perduto durante lo sgombero rappresenterebbe la restituzione della dignità ad una famiglia originaria di queste terre, che solo chiede di poter contribuire al mantenimento dei suoi integranti.”
Benetton, attraverso il suo avvocato, ha presentato un ricorso alla Procura contro la signora Grimaldi in cui si afferma: “Non è possibile permettere che uno studio socio-ambientale si trasformi in un’esplicita rivendicazione di un atto illegale: l’appropriazione illecita dei diritti del mio cliente. Non è giustificabile l’occupazione perpetrata dai Curiñanco.”
La multinazionale, paladina nel mondo dei diritti umani, si appella alle “leggi” che perpetuano il latifondismo...
Benetton non vende solo maglioni, controlla autostrade e società di telefonia. Adesso arriva alla presunzione di dirci cosa è bene, cosa è male. Così arriva a sostenere come dobbiamo pensare, ruolo già ricoperto da Julio Argentino Roca, Jorge Rafael Videla, Augusto Pinochet, Adolf Hitler, Benito Mussolini...
E’ veramente lungo l’elenco delle considerazioni della multinazionale, solo vogliamo sottolinearne alcune che smascherano i paladini della lotta alla fame: “Atilio Curiñanco ha un lavoro fisso per il quale percepisce uno stipendio di circa 100 euro al mese, superiore a quello di altri nella zona (...) Vive in una casa confortevole, provvista di servizi che molti suoi compatrioti vorrebbero avere. Insomma una situazione rispettabile, non come quella della gran parte degli argentini che non ha alcuna fonte reddito e nemmeno una casa.”
E’ veramente indignante l’infamia sostenuta da Benetton. Nella città di Esquel una famiglia, per riuscire a coprire le necessità di base, ha bisogno di 220 dollari al mese sempre che abbia una casa propria. La famiglia Curiñanco può contare solo sullo stipendio di Atilio, circa 100 euro. E’ evidente che non si tratta di una situazione di privilegio. Ma capiamo la situazione di Benetton perché paga i suoi braccianti, che lavorano dall’alba al tramonto, dai 50 ai 70 euro al mese.
E’ rispettabile la posizione economica dei Curiñanco solo perché non stanno morendo di fame? Qual è la posizione economica di Benetton che possiede un milione di ettari? Quale responsabilità ha il gruppo italiano in questo panorama d’impoverimento generalizzato?
La multinazionale italiana chiede alla Procura: “ Non si riesce a capire il vincolo tra i popoli aborigeni e l’occupazione di territorio di cui si sono resi protagonisti i Curiñanco. Che non vengano con scusanti o striscioni in sostegno alle care e rispettabili culture aborigene, culture che il mio cliente ha promosso e preserva più delle stesse comunità. Che non si usi tutto ciò per giustificare un illecito e l’ignoranza della legge.”
Certo, Benetton dice di non capire quale relazione esista tra il popolo mapuche ed i Curiñanco. Se lo facesse, sarebbe costretto ad ammettere di essere un colonialista. Per la multinazionale italiana i nostri diritti come popolo originario sono solo una scusante, degli striscioni... Dice che preserva la nostra cultura. Starà pensando di clonarci? Quando parla di preservazione sicuramente allude ai privilegi conferiti dal possesso di un milione di ettari. Quando parla di “promuovere” sottintende gli sgomberi delle comunità mapuche vicine al suo latifondo.
Prima di venir fuori con parole irrispettose, Benetton deve spiegare da dove sono venuti fuori gli oggetti mapuche e tehuelche del suo museo. Deve anche spiegare perché nel depliant che diffonde per promuovere il museo sui mapuche ha inserito le parole del lonko Foyel pronunciate nel 1870: “Qui c’è posto per tutti.” Chi sono “tutti” per la multinazionale? Certo non il popolo mapuche.
“La resistenza dei popoli oppressi è il limite dei tiranni”
Per Giustizia, Territorio, Libertà.
Marici Weu!!! Marici Weu!!!
(Dieci volte vinceremo, dieci volte saremo vivi!!!)
Organizzazione di Comunità Mapuche-Tehuelche “11 de Octubre”
puelmapu@terra.com.ar
(2003) Puma in Messico: aggiornamento
Puma in Messico: aggiornamento
13 febbraio 2003 - Il 13 gennaio scorso 190 lavoratori/lavoratrici della Matamoros, subfornitrice di Puma nello stato messicano del Puebla, sono scesi in sciopero spontaneo contro il mancato pagamento dei salari, lo straordinario forzato, l'imposizione di un sindacato sgradito. Denunciavano inoltre diessere tenuti chiusi a chiave nella fabbrica. E' stato costituito un sindacato indipendente con il nome di Sindicato Independiente de Trabajadores de la Impresa Matamoros Garment (SITEMAG).
Puma, contattata dalla Clean Clothes Campaign tedesca, ha assicurato il 17 gennaio che avrebbe mandato qualcuno sul posto per accertamenti ma non prima di due settimane. Quello stesso giorno, la direzione della Matamoros comunicava ai dipendenti che Puma stava togliendo le commesse e che insistere con il sindacato avrebbe finito per fargli perdere il posto. Il 18 gennaio informava infine che Puma si era portata via tutto il lavoro. Nel frattempo centinaia di organizzazioni e singoli consumatori europei e nordamericani si mobilitavano in iniziative di pressione nei confronti di Puma, fra queste la Federazione internazionale dei lavoratori dell'abbigliamento e cuoio (ITGLWF) e la sua affiliata europea ETUC/TLC. Il 28 gennaio Puma rilasciava una dichiarazione secondo cui avrebbe svolto un'ispezione alla Matamoros all'inizio di settembre 2002 senza rilevare irregolarità e che l'8 ottobre sarebbe arrivata alla decisione di cessare i suoi rapporti con il fornitore a causa di ritardi nelle consegne. Per inciso, Puma ha chiuso il bilancio il 31 gennaio con un utile netto di 84,9 milioni di euro (il 114 per cento in piu' rispetto all'anno precedente).
In risposta alle pressioni pubbliche, Reiner Hengstmann, responsabile del settore affari sociali e ambientali della multinazionale tedesca, ha svolto un sopralluogo alla Matamoros all'inizio di febbraio. Stando alle prime notizie, non avrebbe riscontrato assenza di liberta' sindacale (dato che in fabbrica c'e' gia' un sindacato, quello di comodo.). I lavoratori sarebbero stati ripresi da una telecamera mentre venivano intervistate dagli ispettori. E' atteso a breve un resoconto del CAT. Dal 20 al 26 febbraio sara' in Germania una delegazione dal Messico che terra' una conferenza stampa il 25 febbraio.
Questa mattina ho ricevuto la risposta della Puma all'appello inviato per e-mail. Dato che contiene nuovi elementi, mi pare superato il testo che la Clean Clothes Campaign suggeriva qualche giorno fa di inviare a rincalzo del precedente.Attenderei i risultati della conferenza stampa e nuove istruzioni.
RISPOSTA DI PUMA (Reiner Hengstmann) AGLI APPELLI E-MAIL
Le denunce diffuse in relazione all'attivita' della Matamoros Garment ci hanno profondamente colpito. Di concerto con il nostro centro acquisti World Cat America (WCA) abbiamo disposto un'ispezione sul posto. Tre persone sono incaricate di accertare i fatti, raccogliere informazioni ed effettuare riprese. Desidero ricapitolare lo stato dei rapporti fra Puma e Matamoros Garment. Puma commercializza e distribuisce abbigliamento e scarpe sportive su scala mondiale. Non produce direttamente, ma opera sulla base di contratti di commessa in circa 28 paesi. Il 29 luglio 2002 Puma e WCA, attraverso un agente commerciale statunitense, hanno sottoscritto un contratto di fornitura con la Matamoros Garment per quantitativi limitati. Nel rispetto degli standard Puma, che sono in linea con le procedure di auditing SA8000 e le convenzioni internazionali, nello stabilimento e' stata svolta un' ispezione. I risultati sono stati giudicati soddisfacenti. All'inizio di ottobre a WCA e' giunta notizia che il maggiore cliente di Matamoros aveva aperto una procedura di fallimento. Contatti con il titolare confermavano che Matamoros non era piu' in grado di rispettare le consegne a causa delle difficolta' economiche insorte. Di comune accordo Puma rinunciava ad assegnare nuovi ordini. Dalla meta' di ottobre 2002 e per tutto gennaio 2003, l'agente commerciale americano di Puma continuava ad effettuare pagamenti alla Matamoros, al di la' degli obblighi contrattuali, per un totale di 15 mila dollari a settimana, per contribuire alla copertura dei costi della manodopera necessaria al completamento dei lotti di produzione gia' avviati. Abbiamo agito in buona fede, ma un ritardo nel versamento dei salari, dovuto alle precarie condizioni della Matamoros, associato ad altre rivendicazioni, ha scatenato le proteste di una parte dei dipendenti che, senza conoscere i fatti, hanno addossato a noi ogni responsabilita'. Siamo stati oggetto di accuse infondate di ogni tipo che desideriamo smentire.
- I lavoratori sostengono di essere in arretrato di 3 settimane e mezzo di salario. Ci risulta che siano stati retribuiti per intero con una settimana di ritardo. C'e' la testimonianza della Junta de Conciliacion (il tribunale del lavoro messicano). I dati a comprova si trovano sul sito www.matamorosgarment.com/payment. Il Centro de Apoyo al Trabajador ha ritirato la sua accusa in questo senso.
- Pessime condizioni igieniche nella mensa: c'e' stato un allagamento causato dall'irrigazione dei campi agricoli circostanti. Il problema e' stato risolto con l'installazione di apposite barriere e, comunque, anche quando si e' verificato il danno, la mensa era stata resa agibile prima di essere utilizzata.
- Straordinari forzati: i lavoratori che abbiamo intervistato il 3-4 febbraio scorsi hanno negato di essere mai stati costretti a svolgere ore straordinarie nel periodo di durata del contratto con Puma.
- Chiusura a chiave della fabbrica: i 22 intervistati hanno negato di essere mai stati chiusi a chiave. Chiedendo un permesso alla direzione o ai controllori, potevano lasciare i locali in qualsiasi momento. L' autorizzazione era necessaria a mantenere la cadenza produttiva prevista.
- Liberta' di associazione: tutti gli intervistati hanno dichiarato di essere iscritti, o di non ricevere impedimenti all'iscrizione al Sindicato Francisco Villa de la Industria Textil y Conexos Miembro de la C.T.M. Questo e' il sindacato riconosciuto in fabbrica dal novembre 1999. Due dei tre membri del Centro de Apoyo al Trabajador intervistati hanno confermato che i lavoratori godono del diritto alla liberta' di associazione e hanno presentato domanda per il riconoscimento legale di una loro sigla sindacale.
- Maltrattamenti fisici e verbali: gli intervistati hanno negato che si siano mai verificati casi di abuso. Puma ritiene che l'abuso verbale e' un concetto che si presta a interpretazioni soggettive.
- Mancanza di mezzi di trasporto: Matamoros ha sempre fornito servizi di trasporto gratuiti. La crisi economica recente ha imposto ristrutturazioni del servizio in termini di frequenza e di tragitto.
Siamo consapevoli che i lavoratori hanno pagato le conseguenze di una situazione difficile, ma da parte nostra abbiamo fatto il possibile per alleviarne gli effetti. Anche il Centro de Apoyo al Trabjador e' giunto alla conclusione che Puma si e' trovata nell'occhio del ciclone non per sua colpa o negligenza, ma per via del suo nome capace di attrarre l'attenzione pubblica. Il Centro de Apoyo ci ha informato che intende pertanto ritirare ufficialmente le sue accuse. Puma e' disposta a riprendere i rapporti commerciali con la Matamoros non appena le difficolta' di varia natura che sono insorte saranno appianate nel reciproco interesse.
(2003) Fine del presidio ma la cooperativa resiste
Fine del presidio ma la cooperativa resiste
8 febbraio 2003 -Ci scrive Junya Lek Yimprasert, coordinatrice della Thai Labour Campaign, che e' stata in questi mesi sostegno e megafono della lotta dei lavoratori della Bed and Bath, per informarci che il presidio al ministero del lavoro thailandese si e' concluso venerdi' 31 gennaio.
Da oltre tre mesi i lavoratori della Bed and Bath protestavano contro la fuga dei titolari della fabbrica, subfornitrice di Nike, Adidas, Levi's e altre marche, che li aveva lasciati senza lavoro, arretrati degli stipendi e liquidazioni. Non riuscendo piu' a mantenersi, molti lavoratori hanno via via abbandonato la lotta; gli ultimi 171 hanno accettato alla fine l'offerta del ministero del lavoro che ha stanziato a titolo di risarcimento 450 dollari a persona. Il risultato pratico e' questo: il 30% dei lavoratori impiegati alla Bed and Bath ha ricevuto l'80% del dovuto (quelli con una minore anzianita' di servizio), il 50% ha ricevuto il 30%, il 20% ha ricevuto il 10% (quelli con molti anni di servizio). Questo non significa comunque che la lotta e' terminata: alcuni ex dipendenti hanno avuto incarico di tenere alta l'attenzione del governo sul loro caso con l'obiettivo di trascinare gli ex datori di lavoro in tribunale (forse si trovano negli Stati Uniti).
Intanto, 60 ex lavoratori della Bed and Bath hanno affittato dei locali per dare concreto avvio al progetto di una cooperativa di confezioni di abbigliamento che produrra' con il marchio "Made in unity". Sono in corso contatti sia a livello locale sia a livello internazionale per cercare i clienti giusti (possibilmente circuiti del commercio equo e sindacati). Il ministero del lavoro fornira' un prestito e altri soldi dovrebbero entrare sotto forma di sussidi personali. La Thai Labour Campaign continuera' ad assistere i lavoratori anche in questo progetto (al link "workers' alternatives" nel sito www.thailabour.org si possono vedere alcune proposte per il campionario).
"Abbiamo deciso di costituire la cooperativa perche' non vogliamo piu' lavorare sotto padrone in un'altra fabbrica. Non cambierebbe niente, saremmo sfruttati di nuovo", dice Sujanthra, una delle animatrici della lotta alla Bed and Bath.
La sera in cui il presidio e' stato sciolto un grosso applauso e' stato rivolto alle numerose organizzazioni che da un capo all'altro del mondo hanno fatto sentire la loro solidarieta' rendendo possibile la conclusione del caso: Clean Clothes Campaign, Nike Watch Campaign, UNITE, Campaign for Labour Rights, Maquilla Solidarity Network, Worker's Rights Consortium, Fair Labour Association, ITGLWF, numerosi sindacalisti e singole persone di tutto il mondo.
Secondo Lek, pur non avendo conseguito una vittoria completa, i risultati ottenuti possono dirsi soddisfacenti. Il ministero del lavoro ha dovutoaumentare il risarcimento da 30 giorni di salario arretrato a 60 giorni e il pagamento delle liquidazioni da un mese a due mesi per i lavoratori con oltre 6 anni di anzianita'. Se i lavoratori non avessero resistito come hanno fatto, non avrebbero ricevuto neppure un soldo. In questo senso la lotta dei lavoratori della Bed and Bath ha costituito un precedente per tutti i lavoratori thailandesi. Ora comincia una nuova fase: la cooperativa e la ricerca degli ex datori di lavoro.
Riporto una breve traduzione con commenti delle risposte che chi ha partecipato alla campagna ha ricevuto da Adidas, Nike e Levi's.
RISPOSTA DI ADIDAS
Abbiamo svolto delle indagini a Bangkok da cui risulta che la Bed and Bath, poco prima della chiusura dello stabilimento, aveva ricevuto una quantita' limitata di commesse da un agente locale che operava per conto di un nostro licenziatario (inizialmente Adidas sosteneva di non aver rapporti commerciali con Bed and Bath, ndt). I nostri licenziatari sono tenuti per obbligo contrattuale a comunicare alla Adidas Salomon i nomi di tutti i loro agenti e subfornitori. Nel caso specifico della Bed and Bath, cio' non e' avvenuto, pertanto l'azienda non era autorizzata a produrre per nostro conto, e questo spiega perche' non sia stata ispezionata dal nostro personale del Dipartimento affari sociali e ambientali preposto alla verifica di conformita' delle fabbriche con i nostri standard prima che queste ultime siano inserite fra i fornitori ufficiali (come vedete, nel sistema basato sulla subfornitura e' alta la probabilita' che l'ultimo anello della catena produttiva sfugga ai controlli, ndt). Siamo addolorati per i lavoratori che hanno perso il posto, sappiamo pero' che meta' di loro sta ricevendo assistenza temporanea da parte del governo thailandese sotto forma di sussidi mensili. Stiamo verificando come sia possibile fornire ulteriore assistenza in collaborazione con gli altri committenti e con il ministero del lavoro thailandese (gli esiti del caso dicono che a pagare e' stato alla fine solo il ministero del lavoro, ndt).
RISPOSTA DI NIKE
Non appena siamo venuti a conoscenza dell'inaspettata chiusura della Bed and Bath, ci siamo mossi di concerto con le altre parti per accertare le cause dell'accaduto e per decidere come aiutare i lavoratori che hanno perso il posto. Guardiamo con preoccupazione all'eventualita' che i lavoratori siano privati dei salari arretrati e delle liquidazioni che gli sono dovuti, sappiamo pero' che il governo thailandese ha preso delle misure per risolvere la questione (come sempre accade, i grandi committenti non avvertono l'obbligo di contribuire in prima persona, ndt). Nike, Reebok, Adidas, Levi's e altri marchi hanno assegnato commesse in modo indiretto attraverso contratti di licenza con gruppi come l'Haddad Apparel Group. La quota dei prodotti Nike lavorati per conto di Haddad rappresenta il 20 per cento, o anche meno, dell'intera produzione della Bed and Bath, che e' uno degli oltre 450 fornitori di Nike a livello mondiale (notate il tentativo di ridimensionare la responsabilita' propria e degli altri committenti, ndt). Nike ha adottato i seguenti provvedimenti: 1) Abbiamo sostenuto il governo thailandese nel suo impegno ad accertare i fatti e ad imporre alle parti in causa il rispetto degli obblighi di legge; 2) Abbiamo incontrato e scambiato informazioni con i rappresentanti dei lavoratori, con rappresentanti del ministero del lavoro, dell'ambasciata americana, dell'associazione dei produttori thailandesi dell'abbigliamento, di Haddad e altri acquirenti. Nike continuera' a confrontarsi con tali soggetti e a sostenere il governo nella ricerca di una soluzione. Poiche' attribuiamo grande importanza alla responsabilita' sociale e al nostro codice di condotta, ci rammarichiamo della situazione in cui si sono venuti a trovare i lavoratori della Bed and Bath in conseguenza dell'inaspettata chiusura della loro fabbrica. Per ulteriori informazioni sul programma di responsabilita' sociale e sul codice di condotta della Nike, visitate il nostro sito. (Nike, sostanzialmente, non ha fatto proprio nulla e ha evitato anche di rispondere alle richieste dei lavoratori che la sollecitavano a contribuire allo stanziamento di un fondo di risarcimento in proporzione agli ordini assegnati. Stando al racconto della Thai Labour Campaign, pur avendo uffici di rappresentanza a Bangkok, Nike non si sarebbe mai fatta viva con i lavoratori, ndt).
RISPOSTA DI LEVI'S
Uno dei nostri licenziatari, la Haddad Apparel Group, aveva in essere un contratto di commessa con la Bed and Bath per la fornitura di un quantitativo limitato di prodotti a marchio Levi Strauss fra il gennaio e il settembre del 2002. La nostra quota rappresentava meno del 3 per cento dell'intera produzione di quest'azienda. Levi Strauss pretende che i suoi fornitori rispettino il suo codice di condotta e le leggi locali. Abbiamo affrontato il caso della Bed and Bath con grande serieta', mossi dalla preoccupazione per l'inaspettata chiusura della fabbrica e per gli effetti che questo ha avuto sulla vita dei lavoratori. Non appena a conoscenza della situazione, abbiamo preso i seguenti provvedimenti: 1) Abbiamo preso contatto con il governo thailandese sollecitandolo ad aprire un'inchiesta sul caso e a trovare una soluzione con rapidita' ed equita'. Ci rincuora la recente decisione assunta dal governo di costituire un fondo per il risarcimento dei lavoratori; 2) Abbiamo avviato consultazioni con le altreimprese multinazionali e con la Fair Labor Association per definire possibili soluzioni; 3) Stiamo valutando la possibilita' di fornire ai lavoratori disoccupati strumenti per il ricollocamento lavorativo.
Continuiamo a collaborare con il governo, le altre imprese, la Fair Labor Association e tutte le altre parti in causa, per arrivare a una soluzione nell'interesse dei lavoratori.
(Nessuna delle grandi imprese che davano lavoro alla Bed and Bath ha accettato in definitiva di assumere su di se' una parte della responsabilità contribuendo a risarcire i lavoratori in proporzione all'entita' delle proprie commesse. L'onere del risarcimento e' caduto interamente sul governo thailandese con il parziale risultato del quale, alla fine, gli exlavoratori della Bed and Bath si sono accontentati. La strada verso una responsabilita' sociale autentica e' ancora molto lunga, ndt).
Fine del presidio ma la cooperativa resiste
(2003) Puma in Messico: sciopero dei lavoratori della Matamoros
Dopo tre settimane consecutive di lavoro non pagate, in violazione delle leggi messicane, 190 dei 250 lavoratori della Matamoros, nello stato del Puebla, sono scesi in sciopero spontaneo il 13 gennaio. Accusano l’azienda di imporre lunghe ore di lavoro straordinario, di tenere il personale sotto chiave e di aver firmato un contratto di protezione con un sindacato di comodo, negando cosi’ la liberta’ di associazione sindacale.
Le fabbriche di abbigliamento nello stato del Puebla sono state al centro dell’attenzione internazionale nel 2001 quando i lavoratori della Kukdong (ora Mexmode) protestarono per motivi molto simili, riuscendo alla fine ad estromettere il FROC-CROC, il sindacato gradito all’azienda contro cui si battono oggi i dipendenti della Matamoros, e a costituire il primo sindacato indipendente del Puebla nel settore dell’abbigliamento (del caso Mexmode ci siamo occupati in questa lista). Il FROC-CROC e’ una federazione sindacale con forti legami con il governo dello stato del Puebla. Su di esso grava l’accusa di non rappresentare a sufficienza gli interessi dei lavoratori.
Con oltre 100 mila addetti, il Puebla conta il maggior numero di lavoratori dell’abbigliamento in un paese che e’ il principale esportatore verso gli Stati Uniti in questo settore. Una dubbia fama gli viene dall’aver scelto di ospitare la prossima tornata negoziale dell’Alca (accordo di libero commercio delle Americhe), ma non gli fanno maggiore onore le dure condizioni di lavoro che caratterizzano la forte espansione della sua industria tessile, sostenuta da un brutale apparato repressivo. Un pacifico corteo di lavoratori della Matamoros, che protestavano - proprio come oggi -per i salari non pagati, si concluse due anni fa con violente cariche delle forze dell’ordine. Il bilancio fu di numerosi feriti, a cui seguirono licenziamenti (nessuno di quei lavoratori fu pagato).
La Matamoros e’ un’azienda a capitale statunitense che produce uniformi per ristoranti e ospedali americani con il marchio ‘Angelica’, e abbigliamento sportivo per la tedesca Puma. La fabbrica e’ arrivata a occupare in passato fino a mille persone, ma negli ultimi tempi molti se ne sono andati, incapaci di reggere ancora a lungo una situazione lavorativa impossibile e continui ritardi nel pagamento delle retribuzioni. Esiste il sospetto che si tratti di una precisa strategia da parte padronale: indurre i lavoratori alle dimissioni per non pagare le indennita’ di licenziamento.
LETTERA DEI LAVORATORI DELLA MATAMOROS
Puebla, 13 gennaio 2003
Noi, lavoratori della Matamoros Garment S.A, abbiamo deciso di scendere in sciopero per protestare contro le seguenti irregolarita’:
1) Salari non pagati da tre settimane e mezzo.
2) Cattive condizioni igieniche nella mensa.
3) Straordinari forzati.
4) Privazione della liberta’ (veniamo chiusi a chiave nella fabbrica).
5) Violazione del diritto alla liberta’ di associazione.
6) Maltrattamenti verbali.
7) Assenza di mezzi di trasporto.
Vi chiediamo di sostenerci nella nostra lotta che ha bisogno della solidarieta’ internazionale e della solidarieta’ delle organizzazioni per la difesa dei diritti dei lavoratori.
Cordiali saluti.
I lavoratori che producono per conto di Puma e Angelica. (seguono le firme dei rappresentanti del consiglio di fabbrica)
SCRIVIAMO UNA LETTERA E-MAIL A PUMA
(testo del messaggio in sintesi: vogliamo attirare la vostra attenzione sulle condizioni di chi produce per voi alla Matamoros in Messico. Dopo 3 settimane di ritardi nei pagamenti, straordinari forzati, restrizione della liberta’, i dipendenti sono scesi in sciopero. Non riconoscono il contratto di protezione firmato dal titolare con un sindacato non rappresentativo. Vi chiediamo di inviare un ispettore, di imporre il pagamento degli arretrati e il riconoscimento dei rappresentati eletti dai lavoratori. Vi chiediamo di dichiarare pubblicamente che Puma sostiene il diritto dei lavoratori alla liberta’ di associazione, e di far cessare le intimidazioni contro i leader sindacali)
Ogg.: Matamoros Garment factory - Mexico
Mr. Reiner Hengstmann
Global Head Environmental and Social Affairs
PUMA AG
Germany
Email: reiner.hengstmann@puma.com
Dear Mr. Hengstmann,
We are writing to bring your attention to the situation facing workers at the Matamoros Garment factory in the state of Puebla (Mexico), which produces sports apparel for your brand.
After working for over three weeks with no pay, in violation of Mexico’s labour law, 190 of the 250 active workers of Matamoros Garment initiated a wildcat strike on January 13. Workers complain that the factory has forced them to work many hours of overtime, locked them in the factory, and signed a protection contract with a union which has not obtained workers’ recognition.
We call upon you to send an inspector to the factory immediately to investigate the situation and demand that management pay workers the wages they are owed and recognize and negotiate with genuine workers’ representatives. Rights violations reported at Matamoros are violations of the Mexican law and the Puma code of conduct.
Closing this factory or shifting work to another maquilladora with bad working conditions is not the answer and only punishes the workers who are demanding justice. Instead, Puma should make sure that their current contractor improves workplace conditions and treats workers with dignity.
Puma should immediately inform the striking workers and factory management that Puma supports workers’ right to freedom of association and ensure that factory management cease all undue pressure against union leaders.
Sincerely,
(2003) Lasciati senza lavoro, progettano una cooperativa
Lasciati senza lavoro, progettano una cooperativa
26 gennaio 2003 - Da tre mesi in presidio permanente nei locali del ministero del lavoro di Bangkok, dopo che i titolari si sono eclissati lasciandoli senza mezzi, i lavoratori della Bed and Bath Prestige mettono in atto una strategia di resistenza che ha dello straordinario. Intanto, sette macchine da cucire sfornano capi da vendere per sostenere la lotta. Ce la faranno? Dipende anche da noi.
(il caso, i volti, i racconti dei lavoratori della Bed and Bath sul sito della Thai Labour Campaign: www.thailabour.org)
Da quasi dieci anni, la Bed and Bath Prestige di Prapadaeng, proprietà di una coppia che controlla altre cinque aziende di confezioni, produce capi di abbigliamento sportivo e per bambini per conto dei maggiori marchi del settore, fra cui Nike, Levi’s, Adidas, Reebok, in misura minore Fila e Umbro, e almeno 40 altre case committenti della Haddad Apparel, una delle piu’ grandi aziende licenziatarie di vestiario per bambini.
Gli affari, per i coniugi Photikamjorn, sembravano andare a gonfie vele: in poco meno di dieci anni, i dipendenti della Bed and Bath erano passati da 20 a 900, e il giro d’affari era cresciuto in modo costante. Ma il 5 ottobre 2002, recandosi al lavoro come ogni giorno, gli operai trovano i cancelli dello stabilimento serrati e, fra alterne vicende, il 21 ottobre l’attivita’ viene dichiarata chiusa; contro i proprietari, resisi irreperibili, viene spiccato un mandato d’arresto. Per i dipendenti, alcuni con lunghi anni di lavoro alle spalle, e’ un duro colpo. Sono rimasti improvvisamente senza lavoro e senza interlocutori per poter esigere il pagamento dei salari arretrati e della liquidazione maturata. Resta l’amarezza e la rabbia per i duri anni di servizio trascorsi alla Bed and Bath: per i maltrattamenti, gli straordinari forzati, le multe illegali, le assenze per malattia e maternita’ calpestate, e per l’inutile cartellino appeso al collo con il codice di condotta plastificato della Nike. Reclamano piu’ di tutti giustizia i lavoratori del reparto spedizioni, costretti normalmente a lavorare fino a notte fonda, e fino alle 5 del mattino nei periodi di punta, per riprendere puntualmente il turno 3 ore dopo. Quando serviva, per togliere il sonno e aumentare il rendimento, era abitudine del titolare somministrare acqua da bere con l’aggiunta di anfetamine (sull’allucinante pratica del doping in fabbrica arrivano denunce anche dal Centroamerica).
LE INIZIATIVE DI LOTTA
I lavoratori della Bed and Bath non si danno per vinti, si accampano nei locali del ministero del lavoro e cominciano a mettere in atto forme di resistenza. Vogliono cio’ che gli spetta per legge, e che intanto a pagare siano il ministero e i committenti. Accusano i funzionari del ministero di scarso interesse al loro caso, smossi dall’apatia solo sotto il pungolo di una forte solidarieta’ internazionale, e il governo di non fare sul serio nella ricerca degli ex datori di lavoro. Nel frattempo 400 lavoratori con meno di un anno di servizio accettano l’offerta del ministero del lavoro: arretrati per un solo mese e niente liquidazione. Gli altri rifiuteranno a gennaio la proposta definitiva: due mesi di arretrati e uno di liquidazione.
In questi tre mesi gli ex dipendenti della Bed and Bath hanno tentato di tutto. Hanno scritto petizioni al primo ministro, ai leader politici asiatici, ai committenti, all’OIL, all’ONU, all’ambasciatore USA; sono andati in corteo, esibendo maschere e vistosi body painting, ovunque fosse possibile: parlamento, ministeri, ambasciata USA, la filiale della Nike ai cui rappresentanti hanno consegnato una lettera. Hanno organizzato serate di solidarietà, partecipato a incontri pubblici, sono stati presenti a tutti gli eventi cittadini piu’ importanti per raccontare la loro storia. Vendono fiori per finanziare la loro lotta e mangiano soltanto due volte al giorno. Chi non ha nessuno a cui affidare i figli, li ha portati con se’ al presidio; l’ultimo arrivato e’ un bimbo nato a dicembre. Il 9 gennaio i lavoratori hanno attuato una nuova forma di protesta. Sette di loro si sono fatti rasare a zero, ciocca per ciocca, dai loro compagni. E’ una forma di protesta forte per la cultura thailandese. Spiega un lavoratore: “I capelli sono parte inscindibile della vita che i genitori ci hanno donato. Tagliarli e’ come recidere la vita stessa”.
LA COLLEZIONE ‘MADE IN UNITY’
In realta’ i lavoratori nutrono la speranza. Un mese e mezzo fa hanno avviato una linea di produzione sperimentale di abbigliamento, t-shirt e camicie, per la collezione “MADE IN UNITY”. Sette macchine da cucire sono state portate al presidio e altre potrebbero aggiungersi. I capi sono venduti per finanziare le iniziative di lotta, ma l’intenzione dei lavoratori va oltre. Racconta Lek, la combattiva e instancabile coordinatrice della Thai Labour Campaign, ong tailandese affiliata alla Clean Clothes Campaign, che assiste i lavoratori della Bed and Bath: “Stiamo discutendo con i lavoratori l’ipotesi di costituire una cooperativa dopo che il caso sara’ risolto. Le liquidazioni serviranno a finanziarla. Avremo bisogno di molto aiuto per convincere Nike, Levi’s, Adidas o Reebok ad assegnare commesse alla cooperativa, ma questa volta nel rispetto dei principi dettati dai loro codici di condotta. Potrebbe uscirne un progetto pilota sull’applicazione dei codici. Penso pero’ anche di contattare organizzazioni di commercio equo, come Oxfam, per trovare un canale verso i consumatori che cercano abbigliamento pulito dal punto di vista della dignita’ del lavoro.” Aggiunge Lek: “Il mio posto in questo momento e’ a fianco dei lavoratori. Voglio aiutarli nelle scelte stilistiche, nella ricerca dei tessuti, nella commercializzazione. E’ un’iniziativa straordinaria, ho imparato tantissimo dalla lotta dei lavoratori della Bed and Bath”.
Per vedere le foto dei primi capi in produzione: www.thailabour.org al link ‘Workers’ alternative’
CHE COSA POSSIAMO FARE
In sostegno alla lotta dei lavoratori della Bed and Bath e’ partita una campagna internazionale. I lavoratori ci chiedono di:
1) scrivere alle grandi imprese committenti: Nike, Adidas, Levi’s (Reebok non ha piu’ rinnovato il contratto di licenza alla Haddad, che dava lavoro alla Bed and Bath, un anno fa) per invitarle a contribuire a un fondo di risarcimento in proporzione agli ordini assegnati e a esercitare pressioni sul governo affinche’ faccia altrettanto (Adidas rispondera’ che si serviva presso un’altra fabbrica dei coniugi Photikamjorn. Non vi preoccupate, scrivete lo stesso, questo sta solo a indicare falle nei sistemi di monitoraggio delle imprese che non sono in grado di controllare dove, di subfornitura in subfornitura, finisce la produzione). In questo momento non vi invito a scrivere a Fila in quanto stiamo tentando dei contatti preliminari.
2) scrivere al primo ministro thailandese per sollecitarlo a intervenire in favore dei lavoratori della Bed and Bath assicurando loro cio’ che gli spetta di diritto e avvertendo che la loro lotta pacifica e la solidarieta’ internazionale continueranno fino a che non sara’ fatta giustizia.
SCRIVI UNA MAIL A NIKE, ADIDAS E LEVI’S:
(oggetto: Bed and Bath Prestige Company – Thailand)
VP Corporate Responsibility
Nike, Inc.
e-mail: Maria.Eitel@nike.com
Frank Henke
Head of Environmental Affairs
Adidas-Salomon
e-mail: Frank.Henke@adidas.de
Patrick Neyts
Head of Environment, Health and Safety/Code of Conduct
Levi Strauss & Co.
e-mail: PNeyts@levi.com
c.c.: Thai Labour Campaign (campaign@thailabour.org)
Dear representative of Nike, Levi's, Adidas,
I am writing to bring your attention to the situation facing workers at the Bed and Bath factory in Thailand.
These workers produced clothes for your company under conditions that contravened both Thai Laws and your company codes of conduct. According to a research conducted by the Thai Labour Campaign, workers were forced to work extensive overtime. In some cases they worked through the night, finishing at 5 a.m. and starting the next shift at 8 a.m. Workers claim that the factory owner put amphetamines in their drinking water so they could work through the night. In October, the factory closed its doors and the factory owner Mr. Chaiyapat Phothikamjorn and Ms. Uayporn Songpornprasert have disappeared, owing Bed and Bath workers back wages and severance pay. The workers, some of whom have young children, are in a desperate economic situation.
I call upon you to write to the Thai government urging to pay workers what they are owed. I believe that your company too can play a role in seeing that these workers receive the financial compensation that they are owed. Based on the percentage of production carried out for your company at Bed and Bath, your company should pay a percentage of what is owed to the workers who produced your goods.
Your companies profited from the exploitation of these workers, your responsibility toward them should not end now that the factory has closed.
Sincerely,
(nome, cognome, eventuale organizzazione di appartenenza)
SCRIVI UNA MAIL AL PRIMO MINISTRO THAILANDESE
(oggetto: Bed and Bath Prestige Company – Thailand)
public@thairakthai.or.th
fax (662) 282-8587, 282-8631
Dear Prime Minister Thaksin,
This is a call for you to personally intervene in ending the suffering of the Bed and Bath (Prestige) Company workers in Bangkok. Bed and Bath Prestige Co, Ltd. was until very recently a very profitable factory based in Bangkok specializing in the manufacturing of children's apparel for such corporate giants as Nike, Reebok, Adidas, Levi's and others.
The company was managed by Mr. Chaiyaphat Photikamjorn with other members of the Photikamjorn family acting as directors and shareholders. The workers' plight began in early October when Bed and Bath was suddenly and without explanation shut down. There was no notice and in violation of the law of Thailand the workers were not given any compensation. Moreover, the wages that were earned towards the end of the company's existence have not been paid. An arrest warrant has been issued for Mr. Photikamjorn and his principle partner Ms Uayporn Songpornprasert. However, the deadline for apprehending these two people has come and gone and authorities of your Government are no closer than they were a month ago to securing the wages and compensation for these poor workers. This is unjust and to the watching world, unacceptable.
The workers are only asking for their rights as required under Thai law. Namely, that they be paid their compensation and back wages. Bed and Bath became very wealthy through a systematic mistreatment of these poor workers. There is currently much documented evidence of this. One of the most egregious examples involved forcing the workers drink Amphetamine laced water in the workplace and "fining" them if they insisted on drinking some other beverage. This behavior along with the non payment of compensation and back wages is totally illegal and makes a mockery of your Government's 'White Factories Program'.
The workers have made it clear that they cannot and will not give up. They will continue to protest PEACEFULLY at the Ministry of Labour until justice is done. As this letter demonstrates, with each day knowledge of and support for the workers of Bed and Bath are growing both in Thailand and internationally. In all of Thailand you Mr. Prime Minister are in the best position to see that justice is done for the workers. This is a call for you to resolve this situation and put an end to these sorts of labour practices that so damage Thailand's reputation in the eyes of the world. Like the workers of Bed and Bath their growing legion of supporters cannot and will not give up. This is a call on you to do what is right and legal. It is a call on you and your Government to ensure that the Bed and Bath workers receive their compensation and outstanding back wages as prescribed by Thai law.
Sincerely,
(nome, cognome, eventuale organizzazione di appartenenza)
(2003) Nike e il sindaco di Roma
Il 14 dicembre a Roma, in occasione della Festa dell’Altraeconomia, il sindaco Veltroni si è impegnato pubblicamente ad aprire un tavolo di discussione con le associazioni per il consumo critico per definire i criteri per le sponsorizzazioni del comune di Roma raccogliendo l’invito di Alex Zanotelli, che gli ha consegnato personalmente una lettera, e del Coordinamento Cambia lo Sponsor (CoCs) che da tempo chiede al comune di non accettare sponsorizzazioni e doni da aziende oggetto di boicottaggio, per esempio la ventina di campetti di calcio offerti dalla Nike.
Ricorderete il caso dei 7 mila lavoratori della PT Doson, fornitore esclusivo di Nike, licenziati in tronco nell’ottobre 2002 in seguito alla decisione della multinazionale di cancellare definitivamente le commesse per assegnarle presumibilmente a paesi con un costo del lavoro ancor piu’ basso. Abbiamo scritto a Nike contestando la decisione e sollecitandola almeno a pagare le liquidazioni, una spesa che il titolare della PT Doson afferma di non poter affrontare. Nike ha risposto (testo in inglese piu’ sotto) di essere stata spinta a questo passo non da scelte di tipo sindacale e politico, ma di tipo organizzativo. Assicura di avere a cuore il destino delle 123 mila persone che lavorano per lei in Indonesia, suo secondo fornitore mondiale (dopo la Cina), con cui intrattiene relazioni commerciali da quasi 15 anni. Dice pero’ che il pagamento delle indennita’ di licenziamento spetta per legge al titolare della fabbrica e non a Nike che si impegnera’ comunque a fornire agli ex dipendenti: assistenza medica, corsi di riqualificazione professionale, opportunita’ di studio agli studenti lavoratori, priorita’ in eventuali programmi di assunzione presso altri fornitori Nike.
La Nikewatch Campaign, organizzazione australiana collegata alla Clean Clothes Campaign, ha inviato a Nike una replica e sollecita tutti a fare altrettanto. Piu’ sotto trovate il testo da inviare con le istruzioni. Questa e’ la sintesi: Nella vostra lettera sostenete che spetta al titolare della PT Doson versare le liquidazioni dovute. Nike fonda la sua politica produttiva sul subappalto che scarica i rischi connessi alle incertezze del mercato sui fornitori e in ultima analisi sui lavoratori. Sfruttando la sua posizione dominante, Nike ha messo i propri fornitori nella condizione di dover comprimere i costi di produzione per garantirle competitivita’ con il risultato che essi non sono in grado di far fronte agli obblighi di legge nell’ipotesi di tagli di commesse o forzata chiusura dell’attivita’. Il titolare della PT Doson ha comunicato che neppure dopo la vendita dei macchinari potra’ pagare le indennita’ di licenziamento. Il sistema produttivo che Nike ha scelto non puo’ costituire un pretesto per sottrarsi alle sue responsabilita’ morali, in special modo nei confronti di fabbriche di cui Nike e’ il committente esclusivo. In merito all’asserita disponibilita’ di Nike a fornire assistenza medica, microcredito per l’avvio di piccole attivita’ in proprio, opportunita’ di studio per gli studenti lavoratori, priorita’ di assunzione presso altri fornitori: 1) Nike non ha ancora detto per quanto tempo ancora l’ambulatorio di fabbrica restera’ aperto ne’ quanto denaro intende investire nel progetto; 2) Non e’ stata precisata l’entita’ del fondo che dovrebbe finanziare i crediti ne’ indicato il numero di lavoratori che vi potrebbero accedere; 3) Su 7 mila ex dipendenti solo 18 sono studenti lavoratori, quindi ben pochi (0,26 per cento) beneficeranno dell’offerta della Nike; 4) Non e’ stato indicato quanti lavoratori potranno essere riassunti presso altri fornitori, si tratta infatti di un’eventualita’ remota: quest’anno diversi fornitori Nike in Indonesia hanno effettuato numerosi licenziamenti. Una cosa e’ certa, tutte queste offerte costeranno a Nike molto meno del pagamento delle indennita’ obbligatorie, tanto e’ vero che i lavoratori hanno fatto sapere tramite i propri rappresentanti sindacali di continuare a preferire che sia corrisposto il dovuto. Per finire, non avete risposto alla domanda se le commesse perse dalla PT Doson saranno assegnate a nuovi fornitori in paesi dove costituire sindacati indipendenti e’ punito con la prigione o con i lavori forzati. E’ vero che Nike ha ancora una forte presenza in Indonesia, ma e’ altrettanto vero che con l’uscita di scena del dittatore Suharto nel 1996, la quota di scarpe sportive Nike prodotte in Indonesia e’ passata dal 38 al 30 per cento e, stando alle valutazioni del Wall Street Journal, potrebbe scendere fino al 26 per cento con la chiusura della PT Doson. Vi invitiamo nuovamente a rivedere la vostra decisione di cancellare le commesse alla PT Doson e comunque a garantire ai lavoratori il pagamento delle indennita’ di cui hanno in questo momento un assoluto bisogno avendo poche speranze di trovare un nuovo posto di lavoro in un paese che conta 40 milioni di disoccupati.
ECCO IL TESTO DA INVIARE PER EMAIL A:
continuous.improvement@nike.com
e per conoscenza a:
timc@sydney.caa.org.au,
indicando in calce nome, cognome, nazionalita’ ed eventuale organizzazione di appartenenza. Nelloggetto della mail scrivete: PT Doson (o quello che preferite)
Maria Eitel,
Vice-President for Corporate Responsibility
Nike Inc.
Dear Ms Eitel,
In response to consumers' letters regarding the situation facing the workers at PT Doson, Indonesia, you make the point that legally it is the factory owner's responsibility to pay workers' severance payments. Nike has made the decision to contract out all your company's production. This decision has shifted most of the risks and costs of participating in a volatile global economy onto factory owners, and hence onto workers themselves. As a dominant player in the global sportshoe market, Nike has been able to put pressure on factory owners to reduce costs in order to keep Nike's business. This reduces the capacity of factory owners to ensure that they are able to meet their legal responsibilities to workers if Nike cuts its orders and the factory closes. My understanding is that the factory owner at PT Doson has told workers that even after selling all the factory equipment it is unlikely that there will be enough money to pay workers what they are owed. The decision to contract out production should not be a means of avoiding moral responsibility for ensuring that workers in Nike's production system receive their legal entitlements, particularly in factories like PT Doson, where Nike is the only buyer. You also make the point that Nike is willing to make continuing medical services, microloans to start small businesses, continuing education opportunities for currently enrolled worker-students, and a hiring preference for skilled Doson workers at other contract factories should opportunities become available. With respect, this looks like tokenism. To take each of your offers in turn:
- I understand that Nike is not yet able to say how long the factory clinic will stay open, or how much Nike will spend on this offer.
- I understand that Nike is yet to determine how much will be available to be loaned to workers who are able to start small businesses, or how many
workers will be able to take up this offer.
- I understand that only 18 of the 7,000 workers at the factory are enrolled as students, so only a very small percentage (0.26%) of workers will benefit from the offer of continuing educational opportunities.
- I understand that Nike is not able to indicate at this stage how many workers will be able to find employment at other Nike contract manufacturers, but that several other Nike contract factories in Indonesia have already sacked large numbers of workers this year and so are unlikely to be able to take on new workers.
It seems likely that these offers will cost Nike much less than ensuring that workers receive the payments they are entitled to under Indonesian law. These offers have certainly not satisfied workers at the factory, who have indicated through their union representatives that they would rather receive the severance payments which they are supposed to receive under Indonesian law.
Your letter also avoided indicating whether the decision to cut orders will result in more of Nike's sportshoe production moving to countries where workers can be imprisoned or sent to forced labour camps for attempting to assert their right to form independent, democratic unions. It is true that Nike retains a substantial presence in Indonesia. It is also true that since Suharto's dictatorship fell in 1996, Nike's sportshoe production in Indonesia has fallen from 38% of overall production to 30%. According to the Wall Street Journal it looks set to go as low as 26% when Nike ceases ordering from the PT Doson.
I would again urge you to reconsider the decision to leave PT Doson, or at the very least to ensure that workers receive their severance pay. Workers who become unemployed are in urgent need of some means of support while they seek other work. This is particularly so in countries like Indonesia, where they are competing for jobs with 40 million others.
Sincerely,
---------------------------------------------
Lettera inviata da Nike in risposta alle prime mail:
October 31, 2002
Dear Ms. Monti:
Thank you for your letter regarding PT Doson. Through careful and thoughtful deliberation, Nike has made the difficult decision to discontinue orders at this factory. This decision was taken to better balance Nike manufacturing across all footwear sourcing countries and across Nike's sourcing base in Indonesia. Nike notified the factory in February to give the factory time to look for new buyers. Nike hopes this consolidation will allow us to better support the remaining ten Indonesian contract footwear factories, and the 65,000 workers in these factories. Nike values the importance of a worker's right to freedom of association and recognizes the vital role of PUK SPTSK PT Doson (Indonesian Textile, Garment and Leather Workers Union). Nike Indonesia staff demonstrated this commitment by meeting with the leaders of PUK SPTSK on July 22nd and subsequent occasions and reiterated in a letter to the union on July 29th that that the decision to discontinue orders was a business decision and was not related to changes in government policy, union advocacy or labor issues. PUK SPTSK also represents workers at four other Nike contract factories in Indonesia. In fact, 13 trade unions represent workers at the 10 Nike contract footwear factories. Nike continues to value Indonesia as an important part of our global strategy. It continues to be our second largest footwear production country and we will continue to make efforts to support the success of our factory partners and promote stability for the Indonesian people employed in these factories. Our commitment is demonstrated by our ongoing work with 47 contract footwear, apparel and equipment factory partners in Indonesia, which employ over 123,000 people. As a company that has operated in Indonesia for nearly 15 years, we understand the value and importance of stable employment and a good job. Nike has remained committed to Indonesia during times of instability and uncertainty, and we continue to value the people and country of Indonesia as valuable long-term partners. While business realities and global conditions do impact our business practices, Nike is looking forward to a positive future in Indonesia.In addition to factory severance payments the factory is required to pay by law and government support, Nike will work with partners to provide programs designed to make this difficult transition easier. Displaced workers will have the opportunity to access one or more of the following Nike-supported programs: continuing medical services, job retraining programs, continuing education opportunities for currently enrolled worker-students, and a hiring preference for skilled Doson workers at other contract factories should opportunities become available. I hope this letter provides some additional background and context to what has been a challenging global decision for Nike. We look forward to a continuing relationship with the people and country of Indonesia. Please visit nikebiz.com for the latest information regarding PT Doson and Nike's other corporate responsibility initiatives.
Sincerely,
Maria Eitel, Vice President and Senior Advisor Corporate Responsibility Nike, Inc.
(2002) In Indonesia scioperare non sarà più un diritto
28 settembre 2002 - La famosa multinazionale è ancora sotto tiro, nonostante i tentativi di rifarsi un'immagine etica (greenwashing). Denunciamo la perdita di 7000 posti di lavoro in Indonesia, senza indennità di legge, a causa della decisione di NIKE di togliere le commesse di produzione al fornitore esclusivo P.T. Doson. La produzione viene spostata in Cina e Vietnam paesi senza diritti sindacali e con stipendi ancor più da fame di quelli indonesiani. Chiediamo al comune di Roma di non accettare la sponsorizzazione dei campi da Calcetto Scorpio "regalati" da NIKE. Arriva inoltre dalla Nikewatch campaign l'invito a scrivere alla Footlocker, una delle più grandi catene di distribuzione di scarpe e abbigliamento sportivi.
IN INDONESIA SCIOPERARE NON SARA' PIU' UN DIRITTO
ORA SCRIVIAMO A NIKE (questa volta per email) - Clean Clothes Campaign
Aggiornamenti sul caso distribuito alla lista il 5 settembre 2002 - informazioni ricevute dall'Indonesian National Front for Labour Struggle
(FNPBI), Nikewatch Campaign e da SISBIKUM.
Continuano in Indonesia le manifestazioni di protesta contro l'ipotesi di riforma della legge del lavoro che minaccia di cancellare i diritti faticosamente conquistati dai lavoratori indonesiani negli anni del dopo Suharto. Il parlamento offre un tavolo di dialogo fra le parti ma non
convince i sindacati. Intanto Nike si prepara a lasciare senza lavoro 7 mila persone.
Incollate e spedite per email un messaggio di protesta a Nike e un messaggio di solidarieta' ai lavoratori indonesiani. L'indirizzo email dell'ambasciata indonesiana indicato dal segretariato della CCC non funziona. Vi aggiornero' nei prossimi giorni.
LA PROPOSTA DI LEGGE, IL COMPORTAMENTO DI NIKE
Se entrera' in vigore, la nuova legge estendera' il ricorso al lavoro precario e ridurra' il salario degli apprendisti, esentera' il governo dall'obbligo di mediare nelle controversie fra lavoratori e imprenditori, cancellera' il diritto di sciopero che diventera' un reato punibile con pene
detentive fino a 6 mesi e multe da 10 a 50 milioni di rupie (pari a 1100-5600 euro) (i dati mi sembrano piu' plausibili dei 4 anni e dei 45 mila euro indicati nel messaggio precedente), ridurra' i problemi del lavoro a 'problemi di organizzazione industriale' ignorandone le implicazioni piu' vaste, cioe' il legame con la politica del governo e le pressioni degli
istituti finanziari internazionali, impedira' ai sindacati di difendere i lavoratori nelle sedi legali, elminera' diritti fondamentali delle lavoratrici come l'astensione dal lavoro retribuita per maternita' o durante il ciclo mestruale. Per contrastare l'introduzione della proposta di legge si e' costituito in Indonesia il Comitato contro l'oppressione dei lavoratori (KAPB) formato da venti fra sigle sindacali e organizzazioni democratiche che hanno dato vita a ripetute manifestazioni di protesta fra agosto e settembre, nel corso delle quali diversi lavoratori sono stati arrestati e due feriti da colpi di pistola sparati dalle forze dell'ordine.
Lunedi' scorso il parlamento si e' detto disposto ad aprire un tavolo di dialogo fra le parti sociali per trovare un accordo sugli articoli piu' controversi della riforma, ma i sindacati chiedono che il provvedimento nel suo complesso venga cancellato in quanto lesivo degli interessi e dei diritti fondamentali dei lavoratori.
Intanto i 7 mila operai/operaie della PT Doson, fornitore monomarca di Nike, saranno lasciati a ottobre in mezzo a una strada dalla multinazionale americana che ha deciso di spostare le sue commesse altrove, presumibilmente in paesi politicamente piu' tranquilli e con livelli salariali piu' bassi, e si uniranno cosi' ai 40 milioni di indonesiani gia' senza lavoro. Nike si
dice disposta a venire incontro ai lavoratori, molti dei quali iscritti al sindacato, pagando le spese mediche per un periodo di tempo non precisato e fornendo microcredito a chi voglia avviare piccole attivita' autonome, ma rifiuta di corrispondere l'indennita' di licenziamento prevista dalla legge indonesiana che il titolare della fabbrica non e' in grado di versare. I lavoratori della PT Doson ci chiedono di inviare un messaggio a Nike per sollecitarla ad assumersi le sue responsabilita' (vedi il testo piu' sotto).
Nel 1996, quando ancora il paese era sotto la dittatura di Suharto e non esistevano sindacati liberi, il 38% delle scarpe sportive di Nike proveniva dall'Indonesia. Negli anni del difficile passaggio alla democrazia e all'affermazione dei diritti sindacali che hanno portato anche a consistenti aumenti dei minimi salariali, la quota di produzione assegnata all'Indonesia
e' scesa al 30% e, secondo stime del Wall Street Journal, potrebbe toccare il 26% a ottobre quando saranno rescissi i rapporti commerciali con la PT Doson. Attualmente oltre la meta' dell'intera produzione di scarpe sportive Nike proviene da paesi dove costituire sindacati democratici puo' comportare l'arresto o l'internamento in campi di lavoro forzato (Nike non ha ancora risposto alla domanda se intende trasferire le commesse della PT Doson a
paesi come la Cina). E' immaginabile che Nike non resti un caso isolato:
secondo le previstioni della camera di commercio coreana, riportate dal Wall Street Journal del 9 settembre, i recenti aumenti dei minimi salariali avranno per conseguenza l'emigrazione di massa dall'Indonesia degli operatori sudcoreani.
SCRIVI A NIKE
(in estrema sintesi la traduzione del testo da inviare: apprendo che a ottobre 7 mila lavoratori della PT Doson, molti dei quali iscritti al sindacato, perderanno il lavoro a causa del taglio del vostre commesse.
Esprimo disappunto per la vostra decisione, per il rifiuto di corrispondere le spettanze di legge, per non aver ancora reso noto se intendete trasferirela produzione in paesi dove vigono minori diritti sindacali. Vi chiedo di ripensarci e comunue di garantire ai lavoratori cio' che spetta loro di diritto).
Maria Eitel,
Vice-President for Corporate Responsibility
Nike Inc.
Continuous.Improvement@nike.com
copia a: timc@sydney.caa.org.au
Dear Ms Eitel,
I am writing to bring your attention to the plight of workers at the PT Doson factory in Indonesia. I understand that in October this year all 7,000 workers from the factory will lose their jobs as a result of Nikecutting its orders to the factory. I understand that although Nike is willing to provide some support for those workers, your company is not willing to take responsibility for ensuring that they receive their full legal entitlements.
I also understand that Nike has so far not been willing to say whether this decision will result in more of Nike's production moving to countries where workers can be imprisoned or sent to forced labour camps for attempting to assert their right to form independent, democratic unions.
In this context I am particularly disappointed that Nike is effectively shutting down a factory where most of the workers are union members. I urge your company to change its mind, and to continue placing orders at PT Doson. If you do not do so, at the very least Nike should ensure that they receive all their legal entitlements. Nike's decision to contract out all its production should not be a means of escaping responsibility for making sure that workers' legal rights are met, particularly in factories where Nike is the only buyer.
Sincerely,
(nome, cognome, paese, eventuale organizzazione di appartenenza)
MANDIAMO UNA MAIL DI SOLIDARIETA' AI LAVORATORI
Katarina Puji Astuti
International secretary FNPBI
Jakarta Seletan
Email: dpp_fnpbi@telkom.net; katarina_fnpbi@yahoo.com
I want to express my strong solidarity with your struggle against the two draft laws that would undermine hard-won labour rights of Indonesians, such as the right to strike.
In solidarity
(nome, cognome, paese, eventuale organizzazione di appartenenza)
(2002) Kappa in Birmania
Kappa, sponsor della nazionale di calcio, sostiene la dittatura birmana
13 giugno 2002 - Il Coordinamento Nord Sud del Mondo e la Rete di Lilliput hanno lanciato una campagna di pressione nei confronti di BasicNet/Kappa per chiederle di cessare la commercializzazione di capi di abbigliamento sportivo prodotti in Birmania, paese retto da una spietata dittatura militare.
(per informazioni: Ersilia Monti, Claudio Portugalli (glt-lentesuimprese@retelilliput.org)
L'Organizzazione Internazionale del Lavoro, unendo la propria voce a quella dell'opposizione democratica e del sindacato birmano in esilio, che chiedono da anni alle imprese occidentali di non investire nel paese, ha adottato nel 2000 una risoluzione che raccomanda ai governi di rivedere le loro relazioni con il regime birmano a causa dell'uso sistematico del lavoro forzato, particolarmente diffuso in agricoltura, nell'edilizia, nella costruzione di aree industriali per l'export, nei trasporti per l'esercito. Tutte le attività economiche del paese sono controllate dai militari che sono sempre presenti creando joint-venture obbligatorie sia con le società straniere che con quelle nazionali. La giunta militare attira investitori stranieri con la promessa di nessuna libertà sindacale e paghe fra le più basse al mondo.
A seguito di pressioni pubbliche molte imprese multinazionali hanno già abbandonato la produzione in Birmania. Ultima in ordine di tempo Triumph, marca di abbigliamento intimo, oggetto della campagna promossa dalla rete europea della Clean Clothes Campaign alla quale gli iscritti a questa lista hanno partecipato.
Una vittoria importante è già stata conseguita: la recentissima liberazione del Premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi dopo 19 mesi di arresti domiciliari.
Seguendo le indicazioni della leader birmana e della Confederazione Internazionale dei Sindacati Liberi (ICFTU), che si sono espressi per il mantenimento del boicottaggio economico fino al ritorno di un regime democratico, la campagna chiede a BasicNet, proprietaria del marchio Kappa, e alle aziende che lasciano la Birmania, di predisporre un piano sociale e adeguati risarcimenti per i lavoratori e di impegnarsi nell'adozione di un codice di condotta basato sul rispetto dei diritti fondamentali dei lavoratori, completo di strumenti per il suo monitoraggio indipendente.
La campagna prende avvio con i mondiali di calcio che ci vedranno impegnati in iniziative di
sensibilizzazione sulle condizioni di lavoro nell'industria mondiale degli articoli sportivi
(www.retelilliput.org - www.cleanclothes.org).
SPEDISCI IL SEGUENTE MESSAGGIO A BASICNET (con un copia/incolla o
direttamente dal sito www.retelilliput.org):
Spett.le
BASICNET
Attenzione Sig. Marco Boglione
Boglione@basic.net
Ho scoperto che la vostra societa', attraverso il marchio Kappa e Robe di Kappa, commercializza abbigliamento sportivo prodotto in Birmania.
Questa attività sostiene finanziariamente e moralmente un regime che viola sistematicamente i
diritti umani ed e' stato condannato dall'Organizzazione internazionale del lavoro per l'utilizzazione sistematica di lavoro forzato.
Aung San Suu Kyi, premio nobel per la pace 1991 e rappresentante legittima del popolo birmano, cosi' come numerose organizzazioni del paese, tra cui il sindacato in esilio FTUB, invitano le imprese straniere a ritirarsi dal paese. Essi sono consapevoli dell'impatto che questo appello puo' avere sui lavoratori interessati.
Sotto il regime brutale e corrotto della giunta militare birmana, la BasicNet non puo' garantire ai lavoratori impiegati il rispetto dei loro diritti umani e sindacali piu' elementari, banditi dal regime militare al potere. E' inaccettabile che dopo il ritiro di molte aziende dell' abbigliamento, tra cui Triumph e Fila, la vostra azienda continui a operare in questo modo, in considerazione anche del fatto che sponsorizza la nazionale italiana di calcio.
Io le domando di assumere la sola misura possibile che consiste nel vostro ritiro totale dalla
Birmania prevedendo un piano sociale che permetta la riconversione dei lavoratori interessati e di impegnarvi nell'adozione di un codice di condotta basato sul rispetto dei diritti fondamentali dei lavoratori, completo di strumenti per il suo monitoraggio indipendente. In attesa di una sua risposta porgo cordiali saluti.
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