L’11 settembre di due anni fa scoppiava l’incendio alla Ali Enterprises, una fabbrica di abbigliamento di Karachi, in Pakistan, causando la morte di 254 persone e il ferimento di 55 lavoratori e lavoratrici.
Poche settimane prima del disastro la fabbrica era stata ispezionata dalla società italiana di revisione RINA che aveva accordato la certificazione SAI (Social Accountability International) 8000, nonostante la fabbrica non avesse uscite di emergenza, avesse le finestre sbarrate, non fosse registrata e avesse un intero piano costruito abusivamente.
Da quella tragedia oltre 1300 lavoratori e lavoratrici del settore tessile sono morti in Asia a causa dell’insicurezza dei posti di lavoro. Migliaia di altri lavoratori sono sopravvissuti, ma la loro vita è cambiata per sempre.
Molti marchi coinvolti in queste tragedie non si sono ancora assunti le loro responsabilità.
Tra questi il distributore tedesco KIK che aveva commesse nelle tre fabbriche teatro dei più grandi disastri umanitari degli ultimi anni: oltre alla Ali Enterprises, la Tazreen Fashions (Bangladesh) e il Rana Plaza (Bangladesh). Ad oggi non ha ancora fornito un pieno ed equo risarcimento a nessuna delle vittime coinvolte.
Per quanto riguarda la Ali Enterprises, nel dicembre del 2012 la KIK, unico acquirente conosciuto della fabbrica bruciata, aveva firmato un protocollo di intesa con il Pakistan Institute of Labour Education and Research (PILER), impegnandosi a versare subito 1 milione di dollari per le prime necessità di emergenza, accettando di intavolare una trattativa per determinare l’importo complessivo per una piena compensazione delle vittime. All’ultimo minuto però, lo scorso luglio, KIK ha deciso di ritirarsi dalla trattativa lasciando le vittime senza un risarcimento.
Per quanto riguarda il Rana Plaza, KIK ha versato nel Trust Fund 1 milione di dollari, appena un quinto di quanto la Clean Clothes Campaign ha richiesto in base al fatturato annuo. Per quanto riguarda la Tazreen, infine, non hanno pagato neanche un centesimo.
“Il risarcimento è un diritto ed è assolutamente vergognoso che centinaia di vittime con le loro famiglie si trovino ancora oggi in una condizione drammatica in continuo peggioramento” dichiara Deborah Lucchetti della Campagna Abiti Puliti. “Il rifiuto della tedesca KIK di corrispondere un equo risarcimento unitamente a quello di tutte le imprese italiane coinvolte che non hanno ancora contribuito come Benetton, Manifattura Corona, Yes Zee, Robe di Kappa e Piazza Italia, non fa che prolungare la sofferenza dei lavoratori che concorrono a determinare i loro profitti”
Queste tragedie nel settore dell’abbigliamento hanno messo in evidenza la necessità di elaborare un sistema di compensazione a lungo termine efficiente e sostenibile basato sugli standard dell’ILO e in linea con i Guiding Principles on Business and Human Rights delle Nazioni Unite che espressamente sottolineano che: “quando […] nei luoghi di lavoro si fallisce nel garantire il rispetto e la protezione dei diritti umani, allora i governi e le imprese devono assicurare misure efficaci, tra cui il pagamento di adeguati risarcimenti”.
“Non è la carità che i sopravvissuti vogliono, ma il rispetto del loro diritto a un risarcimento completo ed equo“, ha dichiarato Karamat Ali, Executive Director del PILER
I lavoratori e le lavoratrici di tutto il mondo organizzano veglie per commemorare coloro che sono morti nell’incendio. La Clean Clothes Campaign, unendosi a loro, chiede a KiK di riprendere i negoziati sulla base dell’accordo legalmente vincolante siglato con il PILER e di pagare a tutte le famiglie delle vittime e dei sopravvissuti il risarcimento loro dovuto prima che un altro anno trascorra.