A Campi Bisenzio (Firenze), Montblanc ha messo in atto un vero e proprio sistema di delocalizzazione punitiva in loco. A farne le spese i lavoratori e le lavoratrici della filiera, prima sfruttati e poi licenziati in tronco per il solo fatto di aver rivendicato il diritto di lavorare otto ore al giorno per cinque giorni alla settimana.
Lo dimostra il documentario “Designer Sweatshop”, uscito il 21 novembre su Al Jazeera, prodotto da 101 East e diretto da Lynn Lee e James Leong (disponibile online sul canale YouTube di Al Jazeera).
Inchiesta nel distretto di Prato
Grazie a un’accurata inchiesta sotto copertura, i due giornalisti sono riusciti a entrare nelle aziende subappaltatrici, svelando i meccanismi che permettono ai brand del lusso come Marni, Gucci, Dior e Montblanc, di contrarre al massimo i costi di produzione a spese dei lavoratori.
Nel caso del brand di proprietà del gruppo Richemont, gli operai della Z Production e della Eurotaglio, rispettivamente fornitore e sub-fornitore di Montblanc a conduzione cinese alle porte di Firenze, hanno sopportato per anni turni massacranti tra le dodici e le quattordici ore e salari che non superavano i tre euro l’ora, a fronte di borse vendute a 1.500 euro l’una.
Delocalizzazione punitiva in loco
Dopo che la sindacalizzazione degli operai ha imposto il rispetto del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CNNL) e il superamento dello sfruttamento selvaggio, Montblanc ha prima ridotto e poi sospeso del tutto gli ordini, dirottando la produzione su un’altra fabbrica a pochi chilometri di distanza, dove c’erano ancora lavoratori da sfruttare.
Questo è quello che i Sudd Cobas denunciano da undici mesi. E di cui oggi si hanno le evidenze grazie all’inchiesta di Al Jazeera, trasmessa – ironia della sorte – a un giorno esatto dall’arrivo delle lettere di licenziamento agli operai iscritti al sindacato.
Abbas è un operaio pakistano che dal 2015 è impiegato nel settore tessile del distretto di Prato.
«Per due anni ho lavorato quattordici ore per tre euro al giorno, con una pausa al massimo di quaranta minuti durante tutta la giornata». Oggi è un attivista del sindacato Sudd Cobas. «Ci sono ancora tanti operai qui che lavorano dodici ore al giorno, sette giorni su sette».
Lo sfruttamento nel lusso è una realtà
È ormai sempre più evidente che lo sfruttamento dei lavoratori e delle lavoratrici non riguarda solo il fast fashion ma anche il comparto del lusso e del tanto sbandierato Made in Italy, come Abiti Puliti ha denunciato nell’ultimo rapporto “Una luce sulle pratiche commerciali sleali”. Un sistema estrattivo che dirotta i profitti ai manager e priva gli operai dei loro diritti come ha dimostrato un’altra recente inchiesta – “L’alta moda italiana lascia sul lastrico i lavoratori in Romania” – firmata da Stefano Liberti su Internazionale.
«Sono i brand che determinano le condizioni di prezzo alle quali i fornitori lavorano. Queste condizioni sono talmente sleali che costringono i fornitori a ricorrere al subappalto, cioè ad altri terzisti e piccole imprese che possono consentirgli di produrre quel prodotto, che sia di abbigliamento o di pelletteria, ai costi più bassi possibili mantenendo un livello di ambigua opacità», dichiara Deborah Lucchetti, coordinatrice nazionale della Campagna Abiti Puliti.
Abiti Puliti chiede giustizia per i lavoratori
Dopo la grande giornata europea di mobilitazione del 26 ottobre a favore degli operai Montblanc, oggi la Campagna Abiti Puliti torna a denunciare le gravi violazioni dei diritti dei lavoratori nella filiera degli appalti, chiedendo con forza il ricollocamento dei lavoratori e la fine delle politiche antisindacali che da anni rendono precarie le loro condizioni di lavoro.
Alla base della richiesta, vi è l’urgenza di introdurre una clausola sociale di garanzia che tuteli i lavoratori anche in caso di cambio di appalto, evitando che vengano sacrificati sull’altare di logiche di mercato che non rispettano i diritti fondamentali.
Pratiche di acquisto sleali e due diligence
La campagna denuncia, inoltre, lo sfruttamento che affligge le filiere del lusso, frutto delle pratiche di acquisto sleali adottate dai marchi committenti, che impongono condizioni di lavoro inaccettabili a causa di politiche di ribasso dei costi. È ora che i marchi del lusso, come Montblanc, si assumano la responsabilità di garantire – realmente e non solo a parole – standard di dignità e rispetto dei diritti in tutta la filiera produttiva, rispondendo delle scelte commerciali che generano sfruttamento e precarietà.
«La nostra lotta è per un sistema più giusto e trasparente, dove i diritti dei lavoratori siano al centro delle politiche aziendali. La nuova Direttiva europea sul dovere di diligenza delle imprese ai fini della sostenibilità, approvata lo scorso aprile, offre inoltre una grande opportunità al legislatore chiamato a recepirla nell’ordinamento italiano entro il 2027. Essa sarà un valido strumento per obbligare finalmente le imprese a rispettare i diritti umani non solo sulla carta», conclude Lucchetti.