Pubblichiamo la traduzione di un articolo di Factoje dello scorso maggio sulla situazione dei lavoratori e delle lavoratrici tessili in Albania (traduzione a cura di Ersilia Monti)
Il 6 ottobre 2018 il primo ministro albanese Edi Rama ha visitato una delle più grandi fabbriche di abbigliamento di Durazzo. Nel corso della visita ha affermato che grazie agli incentivi economici del governo le imprese del settore hanno visto crescere negli ultimi anni la loro capacità produttiva e hanno così potuto garantire maggiore occupazione e consistenti aumenti salariali. A sostegno della sua tesi Rama ha pubblicato anche un video sulla sua pagina facebook, ma ha raccolto non pochi commenti da parte di cittadini che descrivono una realtà ben diversa fatta di retribuzioni che, non solo non sono aumentate, ma restano ancora troppo basse.
Ecco alcuni dei commenti:
“Dove li vedete questi aumenti salariali? Lavoro in fabbrica alla macchina da cucire, il massimo che ricevo sono 250 mila ALL (200 euro) e vivo in un clima di paura, come le mie colleghe”.
“Ho lavorato l’anno scorso in quella fabbrica e non portavo a casa più di 250 mila ALL al mese per 10 ore di lavoro al giorno. Per favore dite le cose come stanno e non come il primo ministro vorrebbe che fossero”.
“Signor primo ministro, guardi che lì si prendono solo 180 mila ALL. Non sono cose di cui vantarsi!”
“Perché non dice che gli straordinari non sono retribuiti e che i lavoratori non ricevono nemmeno il salario minimo?”
Per gli intervenuti sulla pagina facebook di Edi Rama le condizioni di lavoro nei luoghi descritti non sono per niente favorevoli. Si dice, per esempio, che solo i supervisori sono pagati in modo adeguato, che le donne sono autorizzate ad andare in bagno una sola volta, anche in condizioni di assoluta necessità, durante turni di lavoro di 9 ore, e che dopo sette anni di lavoro ci si ammala d’asma o di altre patologie respiratorie. Si afferma infine che quasi nessuna fabbrica ha adottato misure di sicurezza.
Le dichiarazioni del primo ministro e le reazioni, così numerose, apparse sui social network hanno indotto Faktoje a svolgere un’indagine per approfondire la questione e accertare i fatti. In questo contesto, sono state realizzate una serie di interviste a donne, occupate nell’industria dell’abbigliamento in città diverse, le quali si sono rese disponibili a rendere pubblici i propri problemi di lavoro. Solo due testimoni hanno chiesto di mantenere l’anonimato per paura di essere licenziate. Tefta Buci, ex dipendente di un’azienda di Tirana, ha accettato di essere intervistata di fronte alla telecamera nella convinzione che il suo esempio sarà di stimolo alle donne incoraggiandole a discutere apertamente delle loro condizioni di lavoro. Buci è stata licenziata per aver organizzato una serie di scioperi considerati illegali e per aver tentato di fondare un sindacato in fabbrica. Per vedere riconosciuta l’illegittimità del suo licenziamento, ha portato il suo caso in tribunale. I giornalisti di Faktoje hanno assistito alle udienze.
Tefta Buci è stata per dieci anni dipendente di AlbaGroup, un’azienda italiana, amministrata da un albanese, che è proprietario di una piccola quota azionaria. L’azienda è specializzata nella cucitura e incollaggio di calzature, e nella modellistica. Fra le marche più note per le quali AlbaGroup lavorava, Buci ha menzionato Valentino, Jimmy Choo, Disquared, Louboutin, Fendi, Versace, Aurelien, Hermes, and Philipp Plein.
Abbiamo tentato di metterci in contatto con la sede dell’azienda in Italia per avere maggiori informazioni sulle condizioni di lavoro, sui contratti applicati, o anche solo per sapere se era noto il caso di un ricorso legale da parte di una ex dipendente, ma finora non abbiamo ricevuto risposte.
In Albania non vengono utilizzati termini univoci, a livello istituzionale, per identificare il settore industriale di cui stiamo parlando. Qualche volta lo si classifica come “façon”, altre volte come “industria per la trasformazione di materiale tessile”. La poca precisione rende difficile la raccolta di dati ufficiali sia riguardo al numero di imprese che operano nel settore sia riguardo al numero degli occupati. Abbiamo inoltrato numerose richieste per ottenere informazioni ufficiali, ma sono state tutte respinte con la motivazione che non era stata utilizzata la terminologia corretta. Restano così di difficile individuazione le aziende che non rispettano la legge e obbligano i dipendenti a lavorare in nero.
Il caso di Tefta Buci è la dimostrazione del cattivo funzionamento del sistema preposto alla tutela dei lavoratori, con il risultato che questi ultimi sono costretti ad affrontare la battaglia per il riconoscimento dei loro diritti in totale solitudine. A detta di Tefta, l’ispettorato del lavoro ha svolto più di un sopralluogo su richiesta dei lavoratori che denunciavano irregolarità nelle condizioni di lavoro, nei livelli retributivi e nei ritmi di produzione. Tutto quello che è stato rilevato nel verbale di ispezione però è la mancanza di un servizio di mensa e l’abitudine dei dipendenti a fumare nei locali di lavoro, desunta dalla presenza di cartelli di avviso.
Non c’era niente di normale invece, secondo Tefta, nelle condizioni in cui lei e le colleghe erano costrette a lavorare: “le pressioni erano continue, ed esercitate nei modi più disparati, le donne subivano violenze fisiche e psicologiche, il caposquadra e i superiori non facevano che insultarci ben sapendo che non potevamo reagire, pena il licenziamento”.
Dal racconto di Tefta risulta che in fabbrica si sono verificati numerosi incidenti per i quali le vittime non solo non sono state risarcite, ma non hanno ricevuto nessun tipo di cura. Il medico responsabile sembra esistere solo sulla carta dal momento che non era mai presente ogni volta che si è verificato un problema di salute o un caso di infortunio. Secondo un’altra testimone, R.B., 35 anni, che ha chiesto di mantenere l’anonimato, i datori di lavoro e i superiori minimizzano i problemi pensando di risolverli con l’installazione di un climatizzatore, cosa che per altro hanno fatto solo dopo una serie di incidenti sul lavoro dei quali si sono occupati anche i mezzi di informazione.
“Facciamo straordinari senza ricevere la maggiorazione del 10% alla quale abbiamo diritto e non ci riconoscono le assenze per malattia”, dice R.B., che aggiunge che le lavoratrici non si lamentano apertamente perché temono di perdere l’unico reddito con il quale mantengono la famiglia.
Rimangono così nell’ombra anche le molestie sessuali. Un’altra testimone, L.K., 45 anni, dipendente di una fabbrica di Valona, ha raccontato a Faktoje di essere a conoscenza di casi in cui sono state effettuate delle nuove assunzioni di donne, selezionate espressamente per ottenere sotto ricatto occupazionale favori di tipo sessuale. Una di queste donne, a detta di L.K., è una ventenne divorziata, giudicata una facile preda per via del suo stato civile e dei problemi che ha dovuto affrontare nella vita.
La mancanza di attenzione che viene riservata ai gravi problemi che vivono le donne occupate nell’industria dell’abbigliamento in Albania è un’offesa al nostro paese, perché queste donne sono fra le categorie sociali più deboli e ignorate dallo stato. Ci si deve occupare di loro in modo costante e non soltanto l’8 marzo. Il governo ha il dovere di intervenire per risolvere una situazione scandalosa, anche se le aziende del settore sono quasi tutte di proprietà privata.