Caso Montblanc
I lavoratori pakistani di un subappaltatore italiano incaricato dal gruppo svizzero di beni di lusso Richemont si ribellano con successo a condizioni di lavoro disumane. Poco dopo, perdono il lavoro e gli attivisti sindacali che li sostengono finiscono in tribunale.
di Florian Blumer (Public Eye)
Traduzione di Campagna Abiti Puliti
Alla vostra mise da ufficio manca ancora quel “tocco di eleganza”? Il portadocumenti Sartorial di Montblanc potrebbe fare al caso vostro, a patto che non vi lasciate scoraggiare dal prezzo di 1400 euro e vi facciate attrarre invece dagli aspetti più raffinati di questo accessorio. Secondo la descrizione fornita dal negozio online di Montblanc: «La borsa è rifinita da dettagli distintivi, tra cui i manici che rendono omaggio alla bellezza della scrittura».
Il prezzo elevato fa pensare che i clienti comprano un prodotto non solo che possono indossare con orgoglio, ma anche con la coscienza pulita. Dopo tutto, questa borsa è dello storico marchio Montblanc con sede ad Amburgo, “Made in Italy”, in particolare a Firenze, il principale centro per la produzione artigianale della pelle. Montblanc è un brand, o Maison come viene chiamato nel gergo di Richemont, il secondo gruppo di lusso al mondo. La holding ha sede a Bellevue, vicino a Ginevra e nel 2023/2024 ha realizzato un fatturato di 22,4 miliardi di dollari con un utile di 2,6 miliardi. Gli affari continuano come sempre. Nel gennaio 2025, il gruppo svizzero ha annunciato il miglior risultato trimestrale della sua storia. Secondo le sue stesse dichiarazioni, tuttavia, il gruppo si impegna non solo a generare profitti ma anche a rispettare le leggi e i diritti umani, anche nei confronti dei suoi fornitori. Almeno questo è quanto si legge nel “Codice di condotta per i fornitori” disponibile sul sito web di Richemont.

Il Reparto delle Stelline non è così brillante
Questo significa forse che è un privilegio non solo potersi permettere le borse di pelle di Richemont, ma anche produrle? Non è questo quello che raccontano Muhammad Arslan e Hassan Ali, che descrivono condizioni di lavoro che difficilmente si potrebbero immaginare nel cuore dell’Europa. Parliamo con i due ex colleghi di lavoro, entrambi pakistani di 27 anni, seduti a un grande tavolo nella sede del sindacato locale SUDD Cobas nel centro di Prato, la seconda città più popolata della Toscana dopo Firenze, da cui dista circa dieci chilometri. Fino al licenziamento Arslan e Ali lavoravano alla Z Production, un fornitore di Richemont di proprietà e gestione cinese, come molte delle migliaia di fabbriche tessili e di pelletteria della regione.
La fabbrica impiegava circa settanta dipendenti e ospita un subappaltatore chiamato Eurotaglio – che, secondo il sindacato SUDD Cobas, è in gran parte incorporato nella Z Production e sembra appartenere allo stesso proprietario. La maggior parte degli operai proveniva dal Pakistan, dall’Afghanistan e dalla Cina. Secondo i lavoratori e il sindacato, producevano solo articoli in pelle per Montblanc. Arslan e Ali erano addetti del reparto noto internamente come “Reparto Stelline”, dove venivano impressi sulle borse gli emblemi Montblanc extra-large.

“Apprendista part-time” in fabbrica
Come migliaia di altri lavoratori migranti, Arslan e Ali sono arrivati in Toscana per guadagnarsi da vivere e aiutare le famiglie nel loro paese. Nelle pelletterie della regione i margini generati dalla produzione sono molto ristretti. Public Eye ha avuto accesso ai documenti ufficiali relativi al caso “Pelletteria Serena” (vedi sotto), ottenuti dalla giornalista RAI Cecilia Bacci. Dal loro esame emerge che il marchio Chloé, anch’esso appartenente a Richemont, paga circa 200-300 euro per produrre una borsa di lusso che nei negozi costa 1500 euro o più. I materiali rappresentano la maggior parte dei costi. Le fabbriche possono addebitare solo 50-70 euro per la produzione di una borsa – nel caso del “portadocumenti Sartorial” di Montblanc, si stima che i costi di produzione rappresentino solo il 5% del prezzo di vendita. Richemont non ci ha fornito informazioni relative alla costruzione del prezzo e non ha commentato questa stima.

Muhammad Arslan ci ha mostrato il suo contratto di lavoro alla Z Production, datato 12 luglio 2019. All’epoca era già impiegato nella fabbrica da circa due anni e a causa del cambio di nome dell’azienda – una pratica comune in Italia quando le imprese hanno problemi con le autorità – gli è stato offerto un nuovo contratto che prevedeva l’assunzione come “apprendista part-time” per un periodo di tre anni. Gli orari di lavoro erano indicati in una tabella: dal lunedì al venerdì, dalle 8 alle 14, per 30 ore settimanali. La realtà era diversa, spiega Arslan:
«Dovevamo lavorare fino alle otto di sera, dodici ore al giorno, con solo mezz’ora di pausa. E per di più sei giorni alla settimana. Non potevamo nemmeno prendere le ferie». Per le ore aggiuntive riceveva qualche centinaio di euro in contanti, ma una parte di questi gli veniva nuovamente detratta, così che alla fine si ritrovava con un totale di 900-1000 euro al mese, cioè circa 3 euro all’ora. Arslan ha proseguito: «La vita consisteva solo di lavoro. Quando passi così tanto tempo in fabbrica, non hai nemmeno il tempo di fare la spesa o la lavatrice».
Fumogeni e tetti occupati
Nell’estate del 2022, Arslan, Ali e altri undici colleghi del loro reparto decidono di reagire. Vengono a sapere da altri lavoratori che abitano con loro che un sindacato di recente costituzione si occupa di casi come il loro. Il 31 agosto suonano il campanello della porta a vetri dell’ufficio del SUDD Cobas. Questo sindacato è attivo nell’area pratese dal 2018 e attualmente conta circa 600 iscritti impiegati in una vasta gamma di settori. Si fonda sull’organizzazione dal basso. Le sue azioni suscitano scalpore: picchetti, proteste di fronte alla sede della Regione ai cancelli e a volte sul tetto delle fabbriche, tendopoli allestite davanti ai negozi, canti, striscioni e fumogeni. Il SUDD Cobas predilige uno stile di protesta che i cittadini della regione non erano abituati a vedere nei sindacati tradizionali. Di conseguenza, i manifestanti corrono rischi che li rendono più vulnerabili. I picchetti sono già stati attaccati con i manganelli, ma le loro azioni di pressione hanno anche avuto diversi successi.

Le persone si riprendono la loro vita
Hanno chiamato la loro campagna per avere normali condizioni di lavoro “8×5”. Francesca Ciuffi è “organizzatrice” del SUDD Cobas e delegata nell’azienda per cui lavora, una casa editrice di Firenze. Grazie al suo forte impegno è uno dei volti di spicco del sindacato, insieme ai colleghi coordinatori Luca Toscano e Sarah Caudiero. Francesca ci ha raccontato che l’idea della campagna è nata alla fine del 2020, quando si sono resi conto che in tutte le fabbriche dei lavoratori sindacalizzati venivano applicate le stesse condizioni: «Tutti si sono subito riconosciuti (nel messaggio 8×5, ndr.)». La campagna rifletteva ciò che il SUDD Cobas rappresentava.
«Le persone si riappropriano della loro vita: imparano l’italiano per diventare più indipendenti, possono incontrarsi con gli amici e trovano anche un senso di solidarietà nel sindacato».
Racconta Ciuffi che nei primi tempi le riunioni si tenevano alle dieci di sera, perché gli operai finivano di lavorare a quell’ora. «Ora non è più così: abbiamo molti iscritti che lavorano a orari normali». La campagna rappresenta anche una particolarità del SUDD Cobas, come spiega Ciuffi:
«Mentre i principali sindacati si concentrano sull’aiutare i lavoratori a ricevere i risarcimenti a posteriori, le nostre azioni mirano a cambiare le condizioni di lavoro e a garantire ai lavoratori la continuità occupazionale».
Le conseguenze degli scioperi
I tredici lavoratori pakistani della Z Production e del subappaltatore Eurotaglio si sono iscritti al sindacato subito dopo la prima visita in ufficio. Dopo diverse riunioni, hanno deciso di fare uno “sciopero degli straordinari”. In altre parole, da quel momento in poi avrebbero fatto ciò che era scritto nei loro contratti di lavoro e prescritto dalla legge: avrebbero smesso di lavorare oltre l’orario di lavoro regolare e non si sarebbero presentati al lavoro nei fine settimana. A ciò si è aggiunta un’e-mail redatta e inviata dal sindacato al responsabile della Z Production, in cui si chiedeva che i tredici lavoratori venissero assunti secondo la legge e compensati per le ore lavorate e non pagate. Una pressione che ha avuto un effetto immediato. Il prezzo che Richemont pagava a Z Production era apparentemente così marginale che, anche scontando gli straordinari dei tredici operai, l’azienda non era più in grado di rispettare i volumi concordati e di consegnare al prezzo pattuito, almeno così lamentava il proprietario della fabbrica nei confronti del sindacato.

Contratti regolari ma niente più lavoro
Le parti si sono sedute ad un tavolo negoziale che ha avuto esito positivo. Il 9 febbraio 2023, Muhammad Arslam, Hassan Ali e i loro undici colleghi hanno firmato un accordo con Z Production/Eurotaglio. Fu concordato di non rivelare i dettagli, ma in pratica prevedeva che i tredici lavoratori non sarebbero più stati obbligati a lavorare oltre il massimo previsto dalla legge e avrebbero potuto godere del diritto alle ferie e ai congedi per malattia. «Anche lo stipendio era buono», dice Arslan, «circa 1.500 euro al mese».
Quindi, tutto è bene quel che finisce bene?
Purtroppo no. Poche settimane dopo, il capo della Z Production ha annunciato che per loro, e per molti altri operai, non c’era più lavoro. La Pelletteria Richemont, filiale locale del gruppo a Scandicci, vicino a Firenze, aveva ridotto i volumi di produzione e il 28 febbraio aveva informato l’azienda che avrebbe terminato il contratto con Z Production alla fine dell’anno.
Richemont ha giustificato il licenziamento a Public Eye e Campagna Abiti puliti affermando che Z Production aveva ripetutamente mancato di rispettare il Codice di condotta per i fornitori.
Secondo il gruppo, la decisione è stata presa «a seguito di persistenti episodi di non conformità che hanno portato a una perdita irrimediabile di fiducia nella volontà del management di conformarsi (…) La scoperta di un subappaltatore non dichiarato durante l’audit forense di Deloitte nel gennaio e febbraio 2023 ha costituito il punto di rottura (…)».
Altre violazioni specifiche identificate in nove audit, condotti da società indipendenti tra novembre 2019 e febbraio 2023, sono state citate da Richemont come violazioni dei «protocolli di salute e sicurezza (in particolare le misure di prevenzione degli incendi), la presenza o la mancanza di un sistema elettronico di registrazione dell’orario di lavoro funzionante e documentazione importante (tra cui un contratto di lavoro mancante, un permesso di soggiorno scaduto e un permesso di soggiorno mancante)». Alla domanda sulle violazioni dei diritti del lavoro, Richemont ha dichiarato che il ripetersi di violazioni come la mancanza di un sistema di registrazione dell’orario di lavoro ha «destato sospetti», ma che tutti questi audit «non hanno portato alla luce prove definitive di condizioni di lavoro inadeguate, come sostenuto dagli ex dipendenti di Z Production». L’azienda ha rifiutato la richiesta di visionare i documenti dell’audit.
Richemont era completamente all’oscuro della situazione?
Richemont respinge l’ipotesi che la sindacalizzazione e l’accordo del 9 febbraio siano stati il motivo della risoluzione del contratto, descrivendola «inadeguata». La società dichiara di essere stata contattata dal SUDD Cobas solo il 31 marzo 2023 e di non averne saputo nulla fino ad allora. Ciuffi ritiene semplicemente «impossibile» che il cliente della Z Production sia venuto a conoscenza dell’intero processo solo a fine marzo. Si riferisce allo sciopero degli straordinari con le conseguenze sulla produzione descritte sopra. Inoltre, dice Ciuffi, «sappiamo che, fin dall’inizio, un dipendente della Pelletteria Richemont era presente in fabbrica quasi ogni giorno».
A proposito di questo dipendente che tutti chiamavano “Alessandro”, Arslan dice: «Dava al direttore della fabbrica compiti specifici per la produzione e a volte dava anche istruzioni dirette ai singoli lavoratori». Public Eye ha potuto parlare, indipendentemente dal Sudd Cobas, con un autotrasportatore italiano, che all’epoca era impiegato regolarmente presso la Z Production; anche lui conferma la presenza regolare del dipendente della Pelletteria Richemont “Alessandro” in fabbrica. Francesca Ciuffi dice di averlo incontrato più volte durante le proteste fuori dalla fabbrica. Richemont non ha commentato il punto.

Trattativa interrotta poco prima dell’accordo
In seguito al calo della produzione e alla risoluzione del contratto nella primavera del 2024, il SUDD Cobas ha organizzato nuove azioni fuori dalla fabbrica insieme ai lavoratori. Questa volta la protesta è arrivata fino in cima alla catena di produzione: davanti alla boutique Montblanc nell’elegante via de’ Tornabuoni, nel cuore di Firenze. In seguito si sono tenute diverse discussioni che hanno coinvolto tutte le parti interessate e che hanno portato, circa un mese dopo, alla ripresa di gran parte degli ordini alla Z Production.
Inoltre, i rappresentanti del SUDD Cobas stavano negoziando con la Pelletteria Richemont con l’obiettivo di garantire che i lavoratori sindacalizzati potessero essere assunti alle stesse condizioni dal nuovo fornitore dopo la risoluzione del contratto con Z Production.
Francesca Ciuffi aggiunge: «Richemont si era dimostrata disponibile a raggiungere un accordo di questo tipo durante le trattative. Abbiamo quindi redatto una proposta scritta. Ma quando si è trattato di discuterla per firmarla, si sono improvvisamente ritirati».
In seguito il sindacato ha provato in diverse occasioni di riprendere le trattative, un tentativo fino ad oggi vano.
Nella dichiarazione rilasciata a Public Eye e a Campagna Abiti Puliti, Richemont non affronta le ragioni del ritiro dalle trattative. Si limita a sottolineare di aver dato la disdetta del contratto con Z Production prima di quanto richiesto dalla legge, dando così all’azienda il tempo sufficiente per trovare nuovi clienti. Inoltre, Richemont respinge ogni responsabilità per la sorte dei lavoratori: «I fornitori sono aziende autonome e (…) spetta esclusivamente a loro decidere chi assumere o, addirittura, licenziare se lo decidono».
Made in Italy? Shame in Italy!
Nel settembre 2023, il volume degli ordini di Montblanc alla Z Production crolla di nuovo. Dopo la scadenza del contratto di produzione con Richemont alla fine dell’anno, l’azienda ha continuato a lavorare per altri marchi con bassi volumi di produzione e un numero ridotto di lavoratori. Il SUDD Cobas ha negoziato un contratto di “solidarietà” con la Regione Toscana, garantendo ai lavoratori coinvolti un certo numero di ore di lavoro e il pagamento di una parte del salario.
Nel corso del 2024, il sindacato e i lavoratori continuano a esercitare pressione con azioni di protesta. Alla scadenza del contratto di solidarietà, nell’ottobre 2024, tutti i lavoratori sindacalizzati vengono licenziati. Il SUDD Cobas, insieme ad altri sindacati e ai membri della rete internazionale della Clean Clothes Campaign (CCC) – di cui Public Eye fa parte – organizza una giornata internazionale di protesta con manifestazioni davanti ai negozi Montblanc in varie città italiane, oltre che a Berlino, Lione, Zurigo, Ginevra e Basilea. Un unico coro che grida “Made in Italy? – Shame in Italy!”.

Montblanc chiede di vietare le manifestazioni
Le proteste iniziano ad attirare l’attenzione, anche dei media. Apparentemente troppo per Montblanc. Nel gennaio 2025, il SUDD Cobas scopre che l’azienda ha intrapreso un’azione legale nei suoi confronti. Il marchio di lusso aveva avviato un procedimento presso un tribunale civile locale, chiedendo l’immediato divieto delle manifestazioni degli attivisti del Sudd Cobas fuori dai suoi negozi.
Francesca Ciuffi commenta indignata. «Questa richiesta è assolutamente incostituzionale. Dagli anni ’70 nessun soggetto privato ha mai tentato di avanzare una simile pretesa in Italia. Vorrebbero che il diritto al profitto fosse anteposto al diritto di manifestare!».
Contemporaneamente, Montblanc ha denunciato per diffamazione e violenza privata tre sindacalisti del SUDD Cobas: Francesca Ciuffi, Sarah Caudiero e Luca Toscano. Come si evince dalla denuncia presentata, Montblanc voleva evitare di essere associata alle condizioni dello stabilimento del fornitore. La violenza privata è un reato che in Italia viene tipicamente invocato in caso di scioperi.
Montblanc ha ritirato la richiesta di divieto di manifestazione dopo che Campagna Abiti Puliti, la sezione italiana della CCC, ha lanciato un appello pubblico il 29 gennaio. Tuttavia, l’azienda era ancora intenzionata a sporgere denuncia contro i membri del SUDD Cobas.
Nella sua comunicazione a Public Eye e a Campagna Abiti Puliti, Richemont sostiene che «questi individui in particolare hanno e continuano a condurre una campagna di diffamazione contro Montblanc, basata sulle testimonianze di un numero molto ridotto di ex lavoratori» che «stanno utilizzando la cessazione del rapporto commerciale con Z Production come mezzo per danneggiare la reputazione di Montblanc sia in Italia che a livello internazionale».
Il fatto che un’azienda del gruppo Richemont abbia sporto denuncia contro le persone che si battono per i diritti dei lavoratori – sfruttati per anni nella fabbricazione dei suoi prodotti – invece di sostenerli e trovare soluzioni per loro, non si concilia con l’immagine di azienda socialmente responsabile che vuole dare di sé. Sarebbe stato lecito aspettarsi anche che, dopo che le rivendicazioni nei confronti della Z Production sono emerse, l’azienda aumentasse gli sforzi per garantire che i nuovi appaltatori rispettassero il codice di condotta. È difficile verificare se ciò sia stato fatto, perché Montblanc non ha rivelato l’identità dei suoi fornitori. Il SUDD Cobas non ha ricevuto alcuna informazione da Richemont quando ha chiesto dove fosse stata trasferita la produzione.
Preferenza ai lavoratori cinesi
Nel novembre 2024, un servizio di Al Jazeera ha rivelato almeno in parte questo segreto ben custodito. La scoperta è avvenuta per caso. Spacciandosi per investitori cinesi, nel giugno 2024 hanno visitato la pelletteria cinese Pelletteria A&S, a circa cinque chilometri dal sito della Z Production. La responsabile dell’azienda, che si è presentata come “Sofia”, ha spiegato candidamente ai finti imprenditori il suo sistema, che le permetteva di produrre a basso costo. Ai suoi operai faceva contratti per quattro ore di lavoro al giorno, ma li faceva lavorare 11-12 ore. Concordava con loro una tariffa e li pagava privatamente, in modo da risparmiare sulle tasse.
La troupe ha anche documentato la mancanza di dispositivi di sicurezza e ha persino assistito al rischio di un incidente quando un lavoratore è scivolato senza protezione su una macchina per il taglio. La donna ha dichiarato di aver licenziato i suoi operai dal Bangladesh, perché si erano opposti alle condizioni di lavoro. Avrebbe assunto solo lavoratori cinesi che, secondo lei, sono più obbedienti e non si comporterebbero mai in questo modo. Quando in seguito si è confrontata con le accuse, “Sofia” ha risposto, secondo Al Jazeera, che la sua fabbrica era ormai chiusa e ha negato ogni accusa.
Quando la giornalista ha mostrato a Francesca Ciuffi e Luca Toscano del SUDD Cobas le riprese della fabbrica, sono rimasti a bocca aperta: la stellina Montblanc era ben visibile sulle borse di pelle. La responsabile della fabbrica ha detto alla telecamera che il marchio era un suo nuovo cliente. Resta da vedere dove e in quali circostanze Richemont permetterà che la produzione avvenga in altre fabbriche. Tuttavia, sulla base del filmato registrato nel giugno 2024 e delle dichiarazioni della proprietaria della fabbrica, è evidente che una nuova fabbrica aveva ricevuto ordini per la produzione di borse in pelle Montblanc attraverso un subappaltatore dove, ancora una volta, i diritti del lavoro – e il Codice di Condotta Richemont – sono stati palesemente violati.
Le stesse pratiche della fast-fashion
Richemont avrebbe dovuto essere consapevole, per usare un eufemismo, fin dall’inizio dell’elevato rischio di violazione delle leggi sul lavoro presso il suo fornitore Z Production, e avrebbe quindi dovuto indagare più attentamente dato che le condizioni di sfruttamento lavorativo, come quelle sperimentate da Arslan e Ali, sono diffuse nell’industria tessile e della pelletteria in Italia. La regione di Prato-Firenze è un centro di produzione di questi settori a livello europeo. Se si parla con gli abitanti della città, ci si rende subito conto che la popolazione è ampiamente consapevole di questo problema.
Un rapporto del 2014 di Campagna Abiti Puliti (CAP) sull’industria del lusso e della moda in Italia aveva già messo in evidenza la pratica diffusa nelle fabbriche toscane e non solo, secondo cui i lavoratori con contratti di apprendistato part-time lavoravano in realtà a tempo pieno senza essere adeguatamente retribuiti. La coautrice e coordinatrice nazionale di CAP Deborah Lucchetti, che ha partecipato anche a uno studio della Clean Clothes Campaign del 2023 sull’industria della moda in Europa dichiara:
«Durante la nostra ricerca, abbiamo scoperto che nell’industria del lusso vengono utilizzate le stesse pratiche che sono comuni in quella della fast-fashion”. E prosegue: “I fornitori sono spinti a violare le leggi e i contratti collettivi per motivi di costo e ad assumere subappaltatori perché non ricevono abbastanza denaro per coprire tutti i costi, a partire da quelli della manodopera e della sicurezza. E questo avviene nonostante i prezzi di vendita esorbitanti dei prodotti di lusso. Questo è esattamente ciò che osserviamo nel caso di Montblanc».
Percosse sul lavoro
Richemont avrebbe dovuto sapere già dal 2020 che le condizioni di sfruttamento erano diffuse anche nella propria catena di fornitura. In quel periodo venne avviato un procedimento giudiziario contro la coppia di coniugi che gestiva una fabbrica chiamata “Pelletteria Serena”, la cui gamma di prodotti comprendeva borse in pelle di un marchio di Richemont, Chloé. Si scoprì che i lavoratori erano stati picchiati nella fabbrica e il caso in Italia fece scalpore. Public Eye ha avuto accesso alle carte del processo. La sentenza descrive le gravi violazioni del diritto del lavoro e condizioni che ricordano largamente i racconti degli operai della Z Production: orari di lavoro fino a 78 ore settimanali, «circa il doppio e il quadruplo di quanto previsto dai regolari contratti a tempo pieno e a tempo parziale», una paga oraria media di tre euro l’ora, un periodo di riposo giornaliero «limitato a brevi pause di pochi minuti per consumare i pasti». Un lavoratore ivoriano identificato con nome e cognome, il cui lavoro era stato criticato, è stato colpito più volte sul collo e sulle mani con una cintura.
Nelle motivazioni della sentenza si fa riferimento anche alla situazione di vulnerabilità dei lavoratori, che «devono lavorare a tutti i costi per assicurarsi il reddito», che inviano alle famiglie nei loro paesi di origine. I lavoratori pakistani con cui abbiamo parlato durante un picchetto del Sudd Cobas davanti a una fabbrica di logistica raccontano di mandare fino all’80% del loro reddito ai parenti nei paesi di origine. La manager della fabbrica cinese è stata condannata per sfruttamento del lavoro ed evasione fiscale. Sia il cliente diretto che Richemont non sono stati coinvolti nel processo.

La conclusione della Corte: «Non è un fatto eccezionale»
Nel 2024 a Milano si è verificato un evento senza precedenti: tre processi clamorosi che hanno acceso i riflettori sulle aziende del lusso. Tra questi, una filiale locale del marchio Dior, appartenente all’indiscusso leader del settore LVMH con sede a Parigi, posta sotto amministrazione giudiziaria perché il tribunale ha scoperto che l’azienda aveva assegnato lavori a fornitori cinesi che maltrattavano i lavoratori.
Mentre anche in questo caso i responsabili delle aziende fornitrici sono stati perseguiti, Dior non ha dovuto affrontare alcun procedimento penale. Tuttavia il tribunale ha riscontrato, come riporta la Reuters citata in un articolo del giugno 2024, che il marchio non ha adottato misure adeguate «per appurare in concreto le effettive condizioni lavorative» o «la reale capacità imprenditoriale delle società appaltatrici». Ad esempio, non ha effettuato controlli periodici nel corso degli anni. Il tribunale ha concluso che: «Non si tratta di fatti episodici e limitati, ma di un sistema di produzione generalizzato e consolidato». Oltre alla filiale di Dior, anche Alviero Martini e una filiale di Armani, altre due aziende che impiegavano lavoratori in condizioni inaccettabili, sono state poste sotto amministrazione giudiziaria.
La sentenza del tribunale conferma le esperienze di SUDD Cobas, racconta Luca Toscano: «I marchi del lusso vogliono capitalizzare la buona immagine del ‘Made in Italy’. Per questo non spostano la produzione in paesi asiatici ancora più economici. Ma quello che fanno è importare le condizioni di lavoro dalla Cina, dal Pakistan o dal Bangladesh in Italia per sfruttare i lavoratori qui nel nostro Paese».

Dal punto di vista del tribunale di Milano, il provvedimento ha funzionato: alla fine di febbraio 2025, ha cessato anticipatamente la misura dell’amministrazione giudiziaria per tutte e tre le società poiché avevano risolto «in modo estremamente rapido» i rapporti con i «fornitori a rischio» e sviluppato altre misure approvate dal tribunale.
Tutto ciò sembra positivo, ma come afferma Deborah Lucchetti della Campagna Abiti Puliti: «Lo sfruttamento dei lavoratori nella filiera dell’abbigliamento è un fenomeno sistemico che non può essere risolto semplicemente interrompendo i rapporti commerciali con i fornitori a rischio».
«Questo porterebbe a lasciare i lavoratori più vulnerabili senza lavoro e senza alcuna protezione sociale. Sono le cause dello sfruttamento che devono essere eliminate, e queste risiedono principalmente nelle pratiche commerciali sleali di marchi e aziende. Per questo motivo sono necessarie leggi che impongano alle aziende di rispettare i diritti umani lungo tutta la catena di approvvigionamento, come la direttiva UE sulla due diligence per la sostenibilità delle imprese o come richiesto dalla Responsible Business Initiative in Svizzera».
Creare un precedente per l’intera regione?
Francesca Ciuffi, Luca Toscano e i loro colleghi del SUDD Cobas sperano comunque che questa decisione del tribunale, che ha sottoposto a obblighi anche le aziende multinazionali e i loro brand, sia un segnale che arrivi fino a Prato e Firenze. Inoltre anche loro hanno deciso di avviare un’azione legale. Per conto di Arslan, Ali e altri quattro ex colleghi, il SUDD Cobas ha impugnato i licenziamenti, non solo contro la Z Production, ma anche contro l’azienda svizzera per la quale i prodotti sono stati realizzati: Richemont. Quest’ultima continua a ritenere il fornitore pienamente responsabile, come ha ribadito nella sua risposta alle affermazioni di Public Eye e Campagna Abiti Puliti: «La vostra attenzione dovrebbe concentrarsi sulla persistente non conformità di Z Production, piuttosto che prendere ingiustamente di mira Montblanc, che ha agito in buona fede per garantire la conformità (…)». La Z Production non ha risposto alla nostra richiesta di commento.
Se alla fine il SUDD Cobas dovesse vincere e i tribunali dovessero stabilire che il gruppo è direttamente responsabile delle condizioni dei suoi fornitori, questo segnerebbe un grande successo, creando un precedente per l’intera regione produttiva di Prato-Firenze e non solo. Tuttavia, è probabile che il processo si protragga per anni, allontanando la prospettiva di ricollocamento a breve di Muhammad Arslan, Hassan Ali e dei loro colleghi. Attualmente vivono con un sussidio di disoccupazione statale e sono alla ricerca di un lavoro. La ricerca si sta rivelando difficile: trovare un impiego a condizioni regolari sembra quasi un’impresa senza speranza.
L’unica rimane quella che l’azienda svizzera torni a riflettere sui valori che dichiara e faccia in modo che Muhammad Arslan, Ali Hassan e i loro quattro colleghi non debbano lavorare in condizioni di sfruttamento e che venga realizzato il loro desiderio: di poter tornare a lavorare nella produzione di beni di lusso per/nella filiera di Richemont, in condizioni che sono date per scontate dalla maggior parte delle persone in Italia e altrove.

Informazioni sul gruppo Richemont SA
Il gruppo, con sede a Bellevue, vicino a Ginevra, è il secondo operatore del settore del lusso dopo il gruppo francese LVMH (Louis Vuitton Moët Hennessy), con un fatturato di 22,4 miliardi di dollari e un utile di 2,6 miliardi di dollari (esercizio finanziario 2024). Richemont è il numero uno mondiale nel settore della gioielleria, con Cartier come marchio di punta e forza trainante in termini di vendite. Inoltre, il gruppo include nel suo portafoglio marchi svizzeri di orologi di lusso come Piaget e IWC Schaffhausen.
La terza area di attività, classificata come “Altro”, comprende principalmente marchi di abbigliamento e accessori di lusso, tra cui il marchio Montblanc, con sede ad Amburgo, rinomato non solo per i suoi raffinati strumenti di scrittura, ma anche per altri prodotti di lusso, come borse in pelle e altri accessori.
Il gruppo ha la reputazione di mantenere riservatezza e non farsi pubblicità. Le sue origini risalgono al Sudafrica dell’apartheid negli anni Quaranta. È stato fondato da Anton Rupert, all’epoca uno degli uomini più ricchi del mondo. Attualmente, il presidente del consiglio di amministrazione di Richemont è suo figlio Johann Rupert, che si divide tra la Svizzera e il Sudafrica ed è anch’egli multimiliardario. È anche comproprietario, insieme alla famiglia ginevrina Aponte, che possiede la compagnia di navigazione MSC, di Mediclinic, un gruppo di 74 ospedali e cliniche, tra cui i diciassette ospedali Hirslanden situati in Svizzera.