La campagna Change Your Shoes ha realizzato una nuova inchiesta su come 23 aziende di calzature molto note in tutta Europa si stiano comportando per affrontare i problemi legati ai diritti umani nella loro catena di fornitura.
Ogni anno vengono prodotte nel mondo 24 miliardi di paia di scarpe e la maggior parte viene realizzata in Asia (88%), nei paesi a basso costo della manodopera. La catena di fornitura include lavoro ad alta intensità, processi pericolosi, pressioni su tempi e sui prezzi di consegna: tutto questo ha inevitabilmente un impatto negativo sulle condizioni di lavoro e di vita dei lavoratori. La campagna ha già denunciato, nel rapporto Una dura storia di cuoio, come uno dei settori più a rischio di questa industria sia la concia per le scarpe in pelle, dove i lavoratori mettono in pericolo la propria salute se non adeguatamente tutelati. Con un’altra ricerca, Tricky footwork, ha evidenziato il ruolo della repressione violenta dello Stato per mettere a tacere le rivendicazioni dei lavoratori in Cina.
In questa cornice Change Your Shoes ha realizzato una valutazione di alcuni dei marchi più noti di calzature, per avere un quadro delle strategie messe in campo dalle aziende in tema di sostenibilità sociale e per fornire i consumatori di uno strumento valido per comprendere chi sta facendo di più e chi di meno per risolvere i problemi della catena di fornitura globale.
Come ricordavamo, i rischi di violazioni dei diritti umani e dei lavoratori nel settore sono molto alti: ciò nonostante 11 aziende su 23 non hanno risposto al questionario inviato (tra cui le italiane Ferragamo e TOD’S) e anche quelle che lo hanno fatto non hanno fornito una solida evidenza circa le politiche aziendali attuate per garantire il rispetto dei diritti umani e del lavoro nelle loro catene di fornitura, con particolare riferimento al pagamento di un salario dignitoso. La mancanza di trasparenza si evince anche dal fatto che 14 di queste 23 non producono bilanci di sostenibilità, nonostante i Principi Guida su imprese e diritti umani delle Nazioni Unite sollecitino le aziende che svolgono operazioni ad alto rischio di violazioni dei diritti umani a riferire su come affrontino i problemi nella loro catena di fornitura.
Dalle informazioni ricevute da GEOX e Prada, i due marchi italiani che hanno risposto ai questionari, emerge un quadro di azioni insufficienti a garantire un’effettiva e completa attività di due diligence. GEOX ad esempio afferma di riconoscere nel suo stabilimento in Serbia un salario del 20% più alto della media del settore, ma senza fornire elementi concreti di calcolo in merito. Secondo interviste ai lavoratori svolte in paesi limitrofi inoltre, il salario dignitoso stimato è molto distante dal livello minimo legale, sufficiente a coprire in media appena il 20% del fabbisogno reale. PRADA non ha fornito informazioni sui paesi di produzione e sul numero di fabbriche, dimostrando una scarsa propensione a rendere conto del suo operato e di come affronta gli impatti negativi della sua attività sui lavoratori, ovunque essi producano (nostre ricerche hanno rivelato che, oltre ai suoi stabilimenti in Italia e UK, l’azienda produce anche in Europa dell’Est, Turchia e Vietnam).
“E’ sorprendente lo scarso livello di trasparenza dimostrato dai marchi europei analizzati e in particolare da quelli italiani” dichiara Deborah Lucchetti, presidente di Fair e portavoce della Campagna Abiti Puliti. “Rendere conto del proprio operato a partire dalla messa in chiaro delle informazioni che riguardano la filiera produttiva, è il primo passo fondamentale per prevenire, identificare e porre rimedio alle violazioni dei diritti umani come stabilito dai Principi Guida delle Nazioni Unite per le imprese” continua Deborah Lucchetti “Il nostro rapporto mette in evidenza quanta strada i marchi debbano ancora fare per garantire ai consumatori europei di acquistare calzature esenti da sfruttamento dei lavoratori e dell’ambiente, in qualunque parte del mondo esse siano prodotte.”
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